Cos'è il diritto tavolare?
Il diritto tavolare: cenni storici e principi alla base del sistema
L’origine del diritto tavolare
Nell’ordinamento giuridico italiano sono presenti due sistemi di pubblicità immobiliare: il sistema della trascrizione e quello del libro fondiario.
Il primo è il sistema della trascrizione, disciplinato ai sensi del Codice civile e alla base del quale vi è il principio dell’efficacia traslativa del consenso. Questa espressione indica che il contratto è di per sé sufficiente al trasferimento di un diritto su un bene immobile: la formalità pubblicitaria ha una efficacia meramente dichiarativa[1].
Il secondo, invece, è il sistema tavolare o sistema del Libro fondiario, disciplinato da Leggi speciali e vigente solo delle zone del Trentino Alto-Adige, nelle province di Trieste e Gorizia, in talune zone delle province di Udine, Belluno, Vicenza e Brescia.
Tale sistema si fonda sul principio dell’efficacia reale dell’iscrizione: ciò vuol dire che nessuno potrà dirsi proprietario o titolare di altri diritti reali su un bene immobile se non abbia prima effettuato la formalità pubblicitaria all’interno del Libro fondiario.
Definizione e storia
Alla luce di queste considerazioni, possiamo definire quale diritto tavolare quella branca del diritto, formata da leggi speciali, che disciplina il sistema di pubblicità immobiliare del Libro fondiario.[2]
Il sistema del Libro fondiario trova le sue radici in quello adottato dai paesi germanici.
Già con lo statuto di Brema (1433) e con quello di Amburgo (1497), i paesi germanici avevano delineato i tratti essenziali del proprio sistema di pubblicità immobiliare. La particolarità rispetto al sistema francese, era quella per cui il trasferimento di proprietà di un bene immobile poteva avvenire solo mediante iscrizione nei pubblici registri. L’iscrizione, a sua volta, era subordinata ad una decisione del giudice. Esistevano quindi dei registri immobiliari giudiziari, i quali permettevano che la circolazione dei beni avvenisse in maniera sicura. Successivamente, l’iscrizione nei pubblici registri andò ad assorbire il contratto, divenendo così quello nel registro un unico titolo di proprietà.
Il codice civile prussiano (1794) e il codice germanico (1900) contenevano quale norma di legge proprio l’unicità del titolo della proprietà[3].
Parallelamente, avveniva un’evoluzione in tal senso anche nelle aree soggette a dominio austriaco: in particolare in Boemia e Moravia, avveniva l’iscrizione del contratto nelle Landtafeln (pubblici registri finalizzati alla custodia di documentazione varia relativa al trasferimento delle proprietà).
Nel 1974 in Moravia subentrò la tecnica dell’iscrizione del diritto nel libro maestro (Hauptbuch), organizzato su base reale.
Il codice civile austriaco (1811) e la legge generale sui Libri fondiari (25 luglio 1871), infine, introdussero ufficialmente il principio dell’iscrizione e della pubblica fede, dei quali si parlerà di seguito[4].
I principi fondanti il diritto tavolare
Il sistema di diritto tavolare è caratterizzato da alcuni principi, i quali costituiscono le maggiori peculiarità rispetto al sistema della trascrizione tipico del diritto comune.
Il sistema tavolare è organizzato su base reale: il focus dell’iscrizione nei registri è sul bene immobile, anziché sul soggetto titolare del diritto come accade nel sistema della trascrizione (c.d. sistema a base personale). In altre parole, i registri sono intestati direttamente ai beni.
Questa organizzazione permette la conoscenza immediata dello status giuridico del bene stesso e, in passato, permise una attività di censimento dei territori. Il sistema a base reale presuppone un controllo preventivo in ordine alla validità del titolo, con le successive conseguenze in materia di efficacia probatoria delle risultanze dei libri e attribuzione della c.d. pubblica fede[5].
Il principio dell’iscrizione costitutiva è disciplinato ai sensi dell’art. 2 R.D. 499/1929, secondo cui “il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sui beni immobili non si acquistano per atto tra vivi se non con l’iscrizione del diritto nel Libro Fondiario”[6].
L’iscrizione nel Libro fondiario è quindi necessaria, in maniera complementare al consenso tra le parti che emerge dal titolo, ai fini della costituzione del diritto stesso[7]. Se il bene immobile dovesse essere successivamente alienato a più persone, ne acquista la proprietà e quindi prevarrà chi per primo ha effettuato l’iscrizione[8].
Nel sistema tavolare, l’elemento soggettivo di chi iscrive rimane irrilevante, anche nel caso di atteggiamento doloso e fraudolento, ai fin dell’acquisto del diritto[9]. La sussistenza della mala fede del soggetto che ha iscritto per primo rileva eventualmente in un giudizio volto a ottenere il risarcimento del danno[10].
L’ambito di applicazione del principio di iscrizione nel sistema tavolare è quello degli atti inter vivos. Per gli altri atti (acquisti a causa di morte o a titolo originario), l’iscrizione sarà necessaria ad altri effetti, ad esempio quello di ottenere la disponibilità del diritto e disporre in maniera efficace. Riguardo l’espressione “atti tra vivi”, si ritiene che debba essere interpretata in senso restrittivo quale “manifestazioni di volontà convenzionali od unilaterali”[11].
Gli acquisti mortis causa sono quindi sottratti al principio dell’iscrizione costitutiva: ai sensi dell’art. 2 R.D. l’intavolazione degli acquisti a titolo di successione ereditaria o di legato non ha valore costitutivo, ma solo dichiarativo. L’intavolazione degli acquisti mortis causa assume, quindi, rilievo ai soli fini del principio di continuità delle iscrizioni e non quale condizione di opponibilità[12].
Il principio del predecessore tavolare, detto anche principio di continuità delle iscrizioni, è disciplinato dall’art. 21 della Legge Tavolare. In particolare, il co. 1 prevede che “le iscrizioni possono eseguirsi solo in confronto di chi al tempo della presentazione della domanda risulta iscritto nel Libro fondiario quale titolare del diritto riguardo al quale si chiede l’iscrizione ovvero che viene contemporaneamente prenotato o intavolato come tale”[13]. In altre parole, non è possibile dar luogo ad alcuna iscrizione se essa non è giustificata da un titolo a favore di colui che la richiede ed a carico di colui contro il quale la medesima è richiesta.
Una semplificazione alla regola del predecessore tavolare la troviamo nell’art. 22 Legge Tavolare, il quale disciplina il seguente caso: se un diritto tavolare è alienato a più persone senza provvedere alle dovute iscrizioni, l’ultimo acquirente può chiedere che il diritto venga iscritto direttamente a suo nome, purché dia prova della serie continua dei trasferimenti che giungano fino a lui[14].
Nel sistema della trascrizione vige, invece, il principio di continuità delle trascrizioni ex art. 2650 c.c.: le successive trascrizioni o iscrizioni a carico dell’acquirente non producono effetto se non è trascritto l’atto anteriore di acquisto. Ai sensi della suddetta norma, il sistema nazionale ammette comunque le trascrizioni e iscrizioni intermedie, che saranno tuttavia inefficaci finché non verrà fornita prova di tutta la documentazione precedente necessaria.
Il principio di legalità esprime il concetto per cui nel sistema tavolare nessuna iscrizione può essere eseguita se non è ordinata con decreto dal giudice, previo controllo sulla legittimità e liceità degli atti. Il provvedimento emesso dal giudice assume il valore di dichiarazione di legittimità dell’atto alla sua base, determinando una presunzione di titolarità in capo al soggetto iscritto nel registro quale titolare del diritto stesso. Questa presunzione sarà superabile solo quando in giudizio si accerti l’illegittimità del titolo.
Le funzioni svolte dal giudice tavolare nell’ambito del controllo di legalità rientrano nella categoria dei c.d. procedimenti di volontaria giurisdizione. Una conseguenza di ciò è che il decreto tavolare non statuisce con autorità di cosa giudicata sull’esistenza del diritto e quindi l’intavolazione sarà comunque impugnabile. Inoltre, un eventuale rigetto della domanda non impedisce la sua riproposizione[15].
Nel suo controllo il giudice tavolare deve rispettare il principio della domanda ai sensi dell’art. 96 L.T. secondo cui non possono ordinarsi iscrizioni che non siano comprese nella domanda anche se i documenti prodotti giustifichino una domanda più ampia. Il giudice è generalmente privo di qualsiasi potere di iniziativa, non decide nel contraddittorio delle parti e non è nemmeno tenuto a sentirle[16].
Grazie al principio di pubblica fede, si ritiene che i diritti risultanti dal Libro fondiario siano particolarmente garantiti[17]. Nel sistema tavolare il principio della pubblica fede assume una duplice funzione:
- fa sì che quello che non è iscritto nel Libro fondiario sia inefficace contro i terzi di buona fede (funzione negativa) e
- che quanto, al contrario, è iscritto si abbia per esistere in favore dei terzi stessi (funzione positiva).
Le intavolazioni non sono immediatamente assistite dalla pubblica fede, ciò avviene solo in seguito al decorso dei termini per proporre reclamo avverso i relativi decreti tavolari o per agire in via di cancellazione. Per questo motivo la pubblica fede non è solo un principio, ma un vero e proprio processo di attribuzione. La tutela della pubblica fede, inoltre, opera con dei limiti e cioè solo in favore dei terzi acquirenti di diritti reali per atti tra vivi[18].
Conclusioni
A conclusione di questo articolo si vogliono riassumere gli elementi più rilevanti.
- Il sistema tavolare fonda le sue radici nei sistemi adottati dai popoli germanici sin dal 1400.
- Alla base del Libro Fondiario vi è il principio dell’iscrizione costitutiva: nessuno potrà dirsi proprietario o titolare di altri diritti reali su un immobile se non abbia prima effettuato la formalità della pubblicità all’interno del Libro fondiario.
- L’iscrizione può eseguirsi solo in confronto di chi al tempo della presentazione della domanda risulta iscritto nel Libro fondiario quale titolare del diritto riguardo al quale si chiede l’iscrizione ovvero che viene contemporaneamente prenotato o intavolato come tale e deve essere ordinata dal giudice con decreto tavolare.
- Le risultanze tavolari sono assistite da pubblica fede.
Informazioni
Michele Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, Giuffrè Editore, Milano, 2012
Giovanni Gabrielli, Ferruccio Tommaseo, Commentario della Legge Tavolare, Giuffrè Editore, Milano, 1999
Regio Decreto 499/1929
Legge Tavolare
Cass. Sez. Un. 2766/1963
Cass. 2564/1967
Cass. 6006/1984
Cass. Civ. 3552/2003
[1] Giuseppe Nicolino, Il rent to buy nell’ordinamento italiano, DirittoConsenso, 18 novembre 2020, disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/18/il-rent-to-buy-nellordinamento-italiano/
[2] Michele Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, Giuffrè Editore, Milano, 2012, p. 1
[3] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, pp. 2 e 3
[4] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 3
[5] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 2
[6] Art. 2 RD 499/1929
[7] Regio Decreto 499/1929, art. 2; Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p.2
[8] Legge Tavolare, art. 6; Giovanni Gabrielli, Ferruccio Tommaseo, Commentario della Legge Tavolare, Giuffrè Editore, Milano, 1999; Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 41 ss
[9] Cass. Sez. Un. 2766/1963; Cass. Civ. 3552/2003
[10] Cass. 6006/1984
[11] Cass. 2564/1967
[12] R.D. 499/1929, art. 3; Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 41 ss
[13] Legge Tavolare, art. 21
[14] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 37
[15] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 69 ss
[16] Legge Tavolare, art. 96
[17] Legge Tavolare, artt. 126 e 127; Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 97 ss
[18] Cuccaro, Lineamenti di diritto tavolare, p. 97 ss
I crimini contro l'umanità
I crimini contro l’umanità nell’ambito del diritto internazionale: la disciplina dello Statuto di Roma e l’analisi del caso Furundžija
I crimini contro l’umanità nello Statuto di Roma
I crimini contro l’umanità, nell’ambito del diritto internazionale, sono definiti ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale. Detto anche Statuto di Roma, venne approvato nel 1998, ma entrò in vigore solamente nel 2002 in seguito al sessantesimo strumento di ratifica, così come previsto dallo stesso statuto[1].
Insieme ai crimini contro l’umanità sono disciplinati il genocidio e i crimini di guerra rispettivamente agli articoli 6 e 8.
Per il crimine di aggressione, invece, non venne trovata una definizione condivisa al momento della redazione dello Statuto: l’articolo 5 disponeva, infatti, che la Corte avrebbe potuto esercitare la competenza in materia di crimine di aggressione solo dopo il suo futuro inserimento ai sensi degli articoli 121 e 123 (rispettivamente in materia di emendamenti e revisione dello Statuto).
Nel 2010, durante la Conferenza di revisione di Kampala, si trovò un accordo per una definizione condivisa del crimine di aggressione e sul meccanismo di attivazione, ma gli emendamenti entrarono in vigore solo nel 2017[2].
L’articolo 7 dello Statuto di Roma
L’articolo 7 è strutturalmente composto da tre paragrafi.
Nel primo paragrafo vengono elencati tutta una serie di atti (acts) che costituiscono crimini contro l’umanità, se commessi quali attacchi diffusi e sistematici a danno della popolazione civile e se vi è una chiara intenzione di commetterli (non è, invece, strettamente necessario che l’attacco si verifichi nel contesto di un conflitto armato).
Gli elementi costitutivi del crimine contro l’umanità sono dunque tre:
- l’atto deve rientrare tra quelli espressamente elencati;
- l’attacco deve essere diffuso e sistematico;
- deve esservi l’elemento della volontà di commettere l’attacco con le caratteristiche sopra riportate.
Gli atti sono elencati in maniera precisa e sono, in particolare, i seguenti:
- omicidio;
- sterminio;
- riduzione in schiavitù;
- deportazione o trasferimento forzato della popolazione;
- imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale;
- tortura;
- stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità;
- persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale ai sensi del paragrafo 3, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale, collegate ad atti preveduti dalle disposizioni del presente paragrafo o a crimini di competenza della Corte;
- sparizione forzata delle persone;
- apartheid;
- altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale[3].
Il termine acts contiene un riferimento implicito sia ad azioni di carattere fisico, sia ad azioni che mirano a colpire la sfera psicologica. Questa accezione del termine venne ripresa dalla Carta di Norimberga (articolo 6)[4]. Il termine “esteso” fa riferimento ad un requisito quantitativo: si intende un numero elevato di vittime coinvolte nell’attacco ovvero una vastità della zona geografica colpita. Il termine “sistematico”, invece, integra un requisito qualitativo dell’attacco: si fa riferimento alla “natura organizzata degli atti di violenza” e al carattere politico dell’attacco (è il disegno politico-militare dello Stato che prevede l’organizzazione di attacchi alla popolazione civile)[5].
Il caso Furundžija: un esempio di prassi giurisprudenziale in materia di crimini contro l’umanità
Anto Furundžija era comandante locale dei Jokers, un’unità militare del Consiglio di difesa croato (HVO), nel comune di Vitez nella Bosnia ed Erzegovina centrale. Dall’inizio della Guerra croato-musulmana (18 ottobre 1992 – 23 febbraio 1994) era impegnato, in qualità di combattente attivo, nel conflitto armato contro la comunità musulmana nella zona della Lašva Valley. Furundžija aveva partecipato personalmente, in particolare, ad un attacco nella zona che mirava all’espulsione dei musulmani dalle abitazioni, con il fine di favorire l’espansione delle truppe del Consiglio di difesa croato[6].
Il 2 giugno 1998, l’Ufficio del Procuratore depositò un atto con il quale modificò i capi d’imputazione: venne ritirata l’accusa per gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e Furundžija venne accusato formalmente di tortura, oltraggio alla dignità personale (incluso lo stupro) e di violazioni delle leggi e consuetudini di guerra, rispettivamente ai sensi degli articoli 7 (1) e 3 dello Statuto del Tribunale[7]. Le accuse si basavano, nello specifico, su fatti avvenuti nel maggio 1993 nel corso dell’interrogatorio di una donna, la quale venne sottoposta a violenze e umiliazioni con il fine di estorcerle informazioni.
I giudici del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia del processo Furundžija si trovarono a dover decidere in merito a numerose questioni di diritto sostanziale, preliminari rispetto alla decisione.
La discussione si focalizzò in particolare sulla definizione di tortura e stupro come crimini contro l’umanità. La Corte, nel decidere riguardo le accuse di tortura, oltraggio alla dignità personale e violazioni delle consuetudini di guerra, rivolse la propria attenzione, naturalmente, anche ai principi di diritto internazionale umanitario:
- il rispetto della dignità personale, che è fondamento, se non addirittura la stessa ragion d’essere, del diritto internazionale umanitario;
- il principio del nullum crimen sine lege, quale principio generale di ogni processo; le garanzie previste ex articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra.
Ai sensi di quest’ultima disposizione sono assolutamente vietati tutti gli atti di violenza che attentino alla vita o alla salute della persona, quali omicidio, mutilazioni, trattamenti crudeli e tortura, nonchè oltraggi alla dignità personale (in particolare trattamenti disumani e degradanti).
È proprio sulla base di questi principi, in particolare il divieto di tortura (che costituisce addirittura ius cogens) e di oltraggi alla dignità personale, che la Corte basò la propria decisione di condanna nei confronti di Furundžija[8].
La Trial Chamber del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, con sentenza del 10 dicembre 1998, condannò Anto Furundžija alla pena detentiva di dieci anni di reclusione, sulla base della responsabilità penale individuale ex articolo 7 (1) dello Statuto del Tribunale, per tortura e oltraggi alla dignità personale, incluso lo stupro. La Appeals Chamber rigettò tutti i motivi di impugnazione e confermò la decisione di primo grado con sentenza del 21 luglio 2000. Furundžija scontò la pena detentiva in un carcere in Finlandia[9].
Conclusioni
In questo articolo è stata analizzata la disciplina contenuta nello Statuto di Roma in materia di crimini contro l’umanità. In particolare, sono stati messi in luce gli elementi costitutivi della fattispecie e tutti gli atti che, se commessi in determinate condizioni, possono dirsi parte integrante di un crimine contro l’umanità. È stato poi analizzato il caso Furundžija, un celebre caso che si svolse dinnanzi al Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia a partire dal 1998: Anto Furundžija venne condannato alla pena detentiva di dieci anni di reclusione, sulla base della responsabilità penale individuale ex articolo 7 (1) dello Statuto del Tribunale, per tortura e oltraggi alla dignità personale, incluso lo stupro.
Uno spunto di riflessione per concludere: quali avvenimenti più recenti potrebbero costituire la fattispecie di crimine contro l’umanità? Perché risulta particolarmente difficile processare i responsabili che si macchiano di tali crimini dinnanzi alle Corti internazionali?
Informazioni
Antonio Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra. Conversazione con Giorgio Acquaviva, Il Mulino, Bologna, 2011
Antonio Cassese, Paola Gaeta, L. Baig, M. Fan, C. Gosnell, A. Whiting, Cassese’s International Criminal Law 3rd ed., Oxford University Press, Oxford, 2013
Antonio Cassese, Paola Gaeta, John R.W.D. Jones, The Rome Statute of the International Criminal Court: a commentary, Oxford University Press, New York, 2002
ICTY, Case information sheet Anto Furundžija, Case No. IT-95-17/1. Disponibile su https://www.icty.org/
Graziana Masiello, Il crimine di aggressione nello Statuto di Roma, in “DirittoConsenso”, 3 giugno 2021. Disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/03/crimine-di-aggressione-statuto-di-roma/
Mauro Politi, Giuseppe Nesi, The Rome Statute of the International Criminal Court: a challenge to impunity, Aldershot-Ashgate, 2001
Prosecutor v. Furundžija, ICTY Case No. IT-95-17/1, Trial Chamber, Judgment of 10 December 1998
Statute ICTY, 1998
Statuto di Roma, 2002
[1] Antonio Cassese, Paola Gaeta, John R.W.D. Jones, The Rome Statute of the International Criminal Court: a commentary, Oxford University Press, New York, 2002
[2] Graziana Masiello, Il crimine di aggressione nello Statuto di Roma, in “DirittoConsenso”, 3 giugno 2021. Disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/03/crimine-di-aggressione-statuto-di-roma/; Statuto di Roma, artt. 5, 121, 123; Antonio Cassese, L’esperienza del male, Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra. Conversazione con Giorgio Acquaviva, Il Mulino, Bologna, 2011
[3] Statuto di Roma. Articolo 7: Crimini contro l’umanità; Antonio Cassese, Paola Gaeta, John R.W.D. Jones, The Rome Statute of the International Criminal Court: a commentary, Oxford University Press, New York, 2002
[4] Mauro Politi, Giuseppe Nesi, The Rome Statute of the International Criminal Court: a challenge to impunity, Aldershot-Ashgate, 2001
[5] Antonio Cassese, Paola Gaeta, John R.W.D. Jones, The Rome Statute of the International Criminal Court: a commentary, Oxford University Press, New York, 2002
[6] ICTY, Case information sheet Anto Furundžija, Case No. IT-95-17/1. Disponibile su https://www.icty.org/
[7] Statute ICTY. Article 3: Violations of the laws or customs of war
[8] Prosecutor v. Furundžija, ICTY Case No. IT-95-17/1, Trial Chamber, Judgment of 10 December 1998; Antonio Cassese, Paola Gaeta, L. Baig, M. Fan, C. Gosnell, A. Whiting, Cassese’s International Criminal Law 3rd ed., Oxford University Press, Oxford, 2013
[9] ICTY, Case information sheet Anto Furundžija, Case No. IT-95-17/1. Disponibile su https://www.icty.org/
Il crimine di genocidio
Il crimine di genocidio nell’ambito del diritto internazionale: definizione, prassi giurisprudenziale e riferimenti all’attualità
Che cos’è il genocidio?
La nozione di genocidio comparve per la prima volta a livello normativo nel testo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Tale Convenzione venne adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 260 A (III) del 9 dicembre 1948 ed entrò in vigore il 12 gennaio 1951[1].
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale erano state commesse atrocità tali da essere in contrasto con qualsiasi principio di umanità e dignità personale. Le parti contraenti riconobbero, in seguito a tali avvenimenti, il genocidio quale violazione delle norme di diritto internazionale ed, in quanto tale, come crimine necessariamente da prevenire e reprimere.
Ai sensi dell’articolo II della Convenzione si definisce il genocidio come una serie di atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un determinato gruppo di persone che si identifichi per la propria nazionalità, etnia, razza o religione quali:
- uccidere membri del gruppo;
- causare gravi lesioni fisiche o psicologiche ai membri del gruppo;
- sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
- imporre misure volte ad impedire le nascite all’interno del gruppo;
- trasferire in maniera forzata i bambini del gruppo ad un altro[2].
L’articolo III della Convenzione sul genocidio, inoltre, specifica le fattispecie punibili:
- il genocidio;
- l’accordo di commettere genocidio;
- l’istigazione diretta e pubblica a commettere genocidio;
- il tentativo di commettere genocidio;
- il concorso nel genocidio[3].
Il genocidio nello Statuto di Roma
Lo Statuto di Roma venne approvato nel 1998 ed entrò in vigore il 1° luglio 2002, sei mesi dopo il deposito del sessantesimo strumento di ratifica, così come previsto dallo stesso Statuto. Si tratta del trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale, competente a giudicare i soggetti responsabili dei crimini più gravi di rilevanza internazionale. Lo Statuto segnò un momento di svolta nell’ambito della giustizia penale internazionale, in particolare nella materia dei diritti umani[4].
La Corte penale internazionale, ai sensi dell’articolo 5, è competente a giudicare dei crimini internazionali più gravi quali il crimine di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Il genocidio è disciplinato dall’articolo 6, il quale riprende in maniera fedele la definizione già formulata all’interno della Convenzione sul genocidio del 1948.
In sede di redazione dello Statuto di Roma, le parti contraenti si soffermarono maggiormente sugli elementi costitutivi della fattispecie di genocidio. Il primo elemento è il c.d. elemento sistematico del genocidio. Questo consiste nell’intento di distruggere un determinato gruppo di persone che si identifichi per la propria nazionalità, etnia, razza o religione. Il secondo elemento, invece, è il c.d. atto individuale, intendendosi, con tale espressione, gli atti perpetrati contro l’integrità fisica o psicologica nei confronti dei singoli membri, con la finalità di intaccare l’esistenza biologica o culturale dell’intero gruppo. Questa espressione si interseca con il fenomeno del “genocidio culturale” che, nonostante i tentativi da parte della dottrina, risulta ancora un concetto troppo ambiguo e discusso per poter essere qualificato come tipologia di genocidio a sé stante[5].
Akayesu: un celebre caso in materia di genocidio
Jean-Paul Akayesu, quando scoppiò il genocidio in Ruanda il 7 aprile 1994, ricopriva la carica di sindaco (bourgmestre) nella città ruandese di Taba e, in quanto tale, era responsabile per il mantenimento dell’ordine pubblico nella città. Tra l’aprile e il giugno 1994 furono massacrate, nella città di Taba, circa 2.000 persone, appartenenti alla minoranza etnica dei Tutsi.[6].
Sembra che, in un primo momento, Akayesu avesse tentato di impedire l’accesso delle truppe che stavano mettendo in atto il massacro dei Tutsi. Il 18 aprile 1994, si tenne un’assemblea tra i sindaci dei territori confinanti e i membri del Governo provvisorio in cui si discusse della situazione: successivamente all’incontro, Akayesu mutò il suo punto di vista rispetto al massacro e permise l’accesso dei soldati nella città, probabilmente per non intaccare i rapporti politici con gli esponenti del Governo. Nei mesi successivi, non solo Akayesu tollerò le violenze nei confronti dei Tutsi, ma ne divenne addirittura istigatore e autore egli stesso. Nell’ottobre 1995, venne arrestato in Zambia per essere sottoposto a processo dinnanzi al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda[7].
In un primo momento, le accuse a carico di Akayesu erano genocidio, concorso in genocidio e istigazione al crimine di genocidio. Il Procuratore del TPIR allegò prove relative ai brutali interrogatori che venivano ordinati ed eseguiti, nel corso dei quali i Tutsi venivano torturati ed uccisi. L’attenzione venne posta anche ai discorsi pubblici che il sindaco aveva tenuto, i quali istigavano alla violenza e alla persecuzione del gruppo etnico. Le norme di riferimento per i relativi capi d’imputazione erano gli articoli 2 e 3 della Convenzione sul Genocidio del 1948.[8]
Il caso Akayesu, sebbene poco incisivo dal punto di vista procedurale, è considerato uno dei casi più rilevanti degli ultimi tempi dal punto di vista sostanziale. Una delle questioni più importanti affrontate durante il processo fu il significato da attribuire al c.d. intento di commettere genocidio (genocidial intent), cioè quel particolare elemento soggettivo che deve sussistere affinché il genocidio possa ritenersi tale. Anche chiamato dolus specialis, consiste nella specifica volontà di distruggere un gruppo che si identifichi per la propria nazionalità, razza, religione, o etnia. In processo, risulta particolarmente complesso provare tale elemento soggettivo[9]. La complessità deriva, tra le altre cose, anche dal numero elevato di persone che solitamente sono coinvolte in uno sterminio di massa: sarebbe necessario dimostrare, che ognuna delle persone coinvolte abbia agito con la specifica volontà di distruggere il gruppo. Complessa risulta la situazione, ad esempio, dell’imputato che dichiari di aver agito per vendetta, per obbedienza ad un ordine ovvero per altri motivi che non siano specificatamente la distruzione del gruppo[10].
Il 2 settembre 1998, Jean-Paul Akayesu venne condannato, in primo grado, dal Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda per 9 dei 15 capi d’imputazione alla pena dell’ergastolo. Oggi sta scontando la pena in un carcere in Mali. La sentenza Akayesu, del 1998, rappresenta la prima condanna per genocidio. La Corte precisò inoltre che lo stupro, la violenza sessuale e le altre forme di aggressione a sfondo sessuale costituiscono anch’esse parte integrante del genocidio, e quindi essi stessi atti di genocidio, quando perpetrati con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo di persone protetto dalla Convenzione sul Genocidio del 1948[11].
Il conflitto tra Israele e Palestina: si può parlare di crimine di genocidio?
Per comprendere cosa stia accadendo attualmente tra Israele e Palestina è necessario indagare riguardo le origini del conflitto. L’inizio del conflitto israelo-palestinese si colloca nel 1800, quando in tutta Europa iniziarono a sorgere movimenti anti-semiti. Gli ebrei europei decisero così di scegliere un territorio ove potessero fondare il proprio stato e vivere in pace: la scelta ricadde sulla Palestina, terra però già occupata dall’Impero ottomano e interamente abitata dagli arabi.
La convivenza tra i due popoli fu pacifica fino al 1917 quando gli inglesi, che durante la Prima Guerra Mondiale avevano preso il controllo del territorio palestinese, emisero la Dichiarazione di Barfour. La stessa consentiva ufficialmente agli ebrei europei di migrare in Palestina.
Durante la Seconda Guerra Mondiale numerosi ebrei scapparono dall’Europa e trovarono rifugio in Palestina. Nel 1947 l’ONU spartì in maniera ufficiale il territorio conteso: ai Palestinesi venne attribuito il territorio di Gaza e la Cisgiordania, mentre agli ebrei spettava il resto (costituito in gran parte dal deserto del Negev). La notte stessa cominciarono gli attentati da parte dei palestinesi nei confronti degli ebrei per opporsi a questa divisione territoriale. Gli ebrei risposero agli attentati con violenti attacchi a danno della popolazione civile palestinese e nel 1948 Ben Gurion, leader del popolo ebreo, dichiarò la nascita dello stato di Israele.
Fu da questo momento che iniziò la guerra vera e propria: tutti gli stati arabi confinanti con la Palestina (Iraq, Siria, Libano, Egitto…) dichiarano guerra allo stato di Israele, il quale, tuttavia, trasformò la guerra di difesa in guerra di conquista, espandendosi e ottenendo il controllo sull’80% del territorio palestinese.
Nel 1967 circolò la voce di un imminente attacco dell’Egitto nei confronti di Israele. Nel giugno Israele attaccò l’Egitto in maniera preventiva e conquistò anche Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est (unici territori rimasti ancora sotto il controllo arabo). Da questo momento i palestinesi, privi di qualsiasi territorio, cominciarono a vivere da profughi e si sviluppò un profondo sentimento di odio nei confronti degli israeliani che, ancora oggi, è motivo di continui conflitti, attentati, attacchi tra israeliani e palestinesi[12].
Svolta tale premessa riguardo le origini del conflitto israelo-palestinese è necessario fare riferimento al tema del genocidio. È possibile inquadrare nella fattispecie di genocidio gli attacchi reciproci tra israeliani e palestinesi? La questione è sicuramente molto complessa e per tale ragione è impossibile esaurire la discussione in questa sede. È tuttavia necessario fornire alcuni spunti di riflessione.
Secondo Miko Peled, autore e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme, le azioni dello stato israeliano nella zona di Gaza a danno dei palestinesi dal 1948 in poi, possono essere qualificate quali parte integrante di un genocidio. Il riferimento normativo andrebbe all’articolo II della Convenzione contro il genocidio nei primi tre punti.
Le condotte del popolo israeliano a danno dei palestinesi potrebbero essere ricondotte al crimine di genocidio in quanto siano stati esercitati atti quali:
- uccidere membri del gruppo;
- causare gravi lesioni fisiche o psicologiche ai membri del gruppo;
- sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale.
A tal proposito, ormai da decenni circa 2,2 milioni di abitanti palestinesi vivono nella Striscia di Gaza in mancanza di acqua potabile, cibo, medicine ed elettricità[13].
Conclusioni
In questo articolo abbiamo visto la disciplina internazionale in materia di crimine di genocidio, analizzando la definizione e le fattispecie punibili. È stato presentato uno dei più celebri casi in materia che si svolse dinnanzi al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, il quale rappresenta la prima condanna per genocidio in assoluto.
Infine, il riferimento al contemporaneo conflitto tra Israele e Palestina mirava a compiere delle riflessioni sulla possibile applicazione della disciplina in materia di genocidio anche agli avvenimenti odierni. Tale paragrafo non voleva essere né esaustivo della questione, vista la complessità della stessa, né una occasione per schierarsi a favore di uno o dell’altro popolo.
Informazioni
Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, 1948
Benedetta Candelise, L’immunità degli Stati e la tutela dei diritti umani, su “DirittoConsenso”, 8 aprile 2020. Disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/08/immunita-degli-stati-e-tutela-diritti-umani/
Federica Carenini, Definire il genocidio: il caso del sindaco ruandese Akayesu, in “Diritto internazionale in Civica”, 5 giugno 2017
Antonio Cassese, Guido Acquaviva, Mary Fan, Alex Whiting, International Criminal Law: Cases & Commentary, Oxford University Press, New York, 2011
Gwynne Dyer, Le origini del conflitto tra Israele e Palestina, su “Internazionale”, 2 novembre 2017. Disponibile su https://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2017/11/02/balfour-anniversario-israele-palestina
Paola Gaeta, The UN Genocide Convention: a commentary, Oxford University Press, New-York, 2009
Miko Peled, Il genocidio di Israele a Gaza continua, ma l’Europa ne sta finalmente prendendo atto?, su “Centro Studi Sereno Regis”, 29 dicembre 2020.
Claudia Pividori, Corte penale internazionale: introduzione, composizione e struttura, “I dossier del Centro Diritti Umani”, Padova, 2017. Disponibile su https://unipd- centrodirittiumani.it/
Mauro Politi, Giuseppe Nesi, The Rome Statute of the International Criminal Court: a challenge to impunity, Aldershot-Ashgate, 2001
Prosecutor v. Akayesu, ICTR Case No. ICTR-96-4, Trial Chamber, Judgment of 2 September 1998
United States Holocaust Memorial Museum, Ruanda. La prima condanna per genocidio, in Holocaust Encyclopedia. Disponibile su https://encyclopedia.ushmm.org/
[1] Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio 1948
[2] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, 1948
[3] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, 1948
[4] Claudia Pividori, Corte penale internazionale: introduzione, composizione e struttura, “I dossier del Centro Diritti Umani”, Padova, 2017. Disponibile su https://unipd- centrodirittiumani.it/ ; Mauro Politi, Giuseppe Nesi, The Rome Statute of the International Criminal Court: a challenge to impunity, Aldershot-Ashgate, 2001; Benedetta Candelise, L’immunità degli Stati e la tutela dei diritti umani, su “DirittoConsenso”, 8 aprile 2020. Disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/08/immunita-degli-stati-e-tutela-diritti-umani/
[5] Paola Gaeta, The UN Genocide Convention: a commentary, Oxford University Press, New-York, 2009
[6] Antonio Cassese, Guido Acquaviva, Mary Fan, Alex Whiting, International Criminal Law: Cases & Commentary, Oxford University Press, New York, 2011
[7] United States Holocaust Memorial Museum, Ruanda. La prima condanna per genocidio, in Holocaust Encyclopedia. Disponibile su https://encyclopedia.ushmm.org/ ; Federica Carenini, Definire il genocidio: il caso del sindaco ruandese Akayesu, in “Diritto internazionale in Civica”, 5 giugno 2017
[8] Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide
[9] Prosecutor v. Akayesu, ICTR Case No. ICTR-96-4, Trial Chamber, Judgment of 2 September 1998
[10] Antonio Cassese, Guido Acquaviva, Mary Fan, Alex Whiting, International Criminal Law: Cases & Commentary, Oxford University Press, New York, 2011
[11] Prosecutor v. Akayesu, TC Judgment, 8. Verdict
[12] Gwynne Dyer, Le origini del conflitto tra Israele e Palestina, su “Internazionale”, 2 novembre 2017. Disponibile su https://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2017/11/02/balfour-anniversario-israele-palestina
[13] Miko Peled, Il genocidio di Israele a Gaza continua, ma l’Europa ne sta finalmente prendendo atto?, su “Centro Studi Sereno Regis”, 29 dicembre 2020.