Bitcoin: a che punto siamo?
Bitcoin e criptovalute: questioni e prospettive nella prassi negoziale
Cosa sono e come funzionano i bitcoin
I bitcoin sono “una versione puramente peer-to-peer di denaro elettronico che consentirebbe di inviare pagamenti online direttamente da una parte all’altra senza passare attraverso un istituto finanziario”[1].
Le transazioni in Bitcoin si fondano sui principi della crittografia asimmetrica. Nella “rete” bitcoin ogni soggetto è titolare di un “wallet”, al cui interno esiste un numero arbitrario di coppie di chiavi crittografiche: una “pubblica” ed una “privata”.
Quella privata è nell’esclusiva disponibilità del titolare, mentre quella pubblica è condivisa con gli altri utenti e costituisce l’indirizzo di destinazione e provenienza delle transazioni (come un codice Iban).
Le operazioni avvengono nella totale trasparenza e pubblicità del registro, la “blockchain”, e sono tracciabili.
Si tratta invero di una tracciabilità incompleta.
Gli indirizzi bitcoin sono chiavi crittografiche create privatamente dai portafogli di ciascun utente in modo anonimo. Nonostante tali indirizzi siano pubblici e chiunque possa vedere tutte le transazioni di ogni singolo indirizzo presente nella blockchain, essi costituiscono solo una anonima sequenza alfanumerica.
Si effettua una transazione sull’indirizzo comunicato dal destinatario ma non c’è un modo per attribuire con certezza quell’indirizzo a quel soggetto.
Per il resto il procedimento è simile ad un qualsiasi altro trasferimento elettronico di valuta (un bonifico o un pagamento con moneta elettronica).
In verità non è impossibile dimostrare la titolarità dei bitcoin utilizzati. Basterebbe mostrare il bonifico o la transazione con carta di credito effettuati in valuta tradizionale verso la piattaforma utilizzata per l’acquisto. Accedendo ad essa è possibile avere evidenza di ogni transazione, tracciata dalla blockchain.
Bitcoin: mezzo di pagamento e nuova moneta virtuale?
Tendenzialmente si nega che i bitcoin e le altre criptovalute costituiscano nuova moneta.
Per la dottrina economica la moneta he le seguenti caratteristiche e funzioni:
- di “unità di conto”, ossia metro per misurare il valore delle transazioni commerciali;
- di “mezzo di scambio”: tale è un oggetto accettato in cambio di un altro, con l’aspettativa e fiducia di poterlo utilizzare in altri scambi, le quali derivano dalle sue caratteristiche intrinseche (dell’oro sono rilevanti la sua scarsità, fungibilità, omogeneità e incorruttibilità) o dall’attività di un’autorità pubblica che gli consente di mantenere tendenzialmente inalterato il potere di scambio (le valute cartacee);
- di “mezzo di pagamento” e “riserva di valore”, capace di conservare il suo valore nel tempo.
La volatilità del valore del bitcoin, in funzione della domanda, lo rende inidoneo a svolgere le funzioni di unità di conto e riserva di valore.
Non sarebbe quindi moneta[2] ma di certo “mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi”, ai sensi dell’art. 1 , lett. qq), del D.lgs. n. 90/2017.
In senso contrario, in dottrina[3] si osserva tuttavia che nemmeno le valute aventi corso legale in uno Stato (e quindi stabilizzate dall’attività dello Stato o delle Banche centrali) sono del tutto esenti da oscillazioni piuttosto importanti. Addirittura alcune sono caratterizzate dalla stretta correlazione con le variazioni di prezzo di determinate materie prime e non per questo cessano di essere considerate valute.
Pertanto i bitcoin sono un mezzo di scambio potenzialmente idoneo a mantenere una riserva di valore e ciò parrebbe sufficiente a conferire agli stessi la funzione e natura di moneta, seppur rischiosa, e complementare, non avendo corso legale.
Natura giuridica dei bitcoin: riferimenti normativi e giurisprudenza
Le obbligazioni pecuniarie, ai sensi dell’art. 1277 c.c., “si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento …”. Si tratta di una norma derogabile delle parti.
Gli artt. 1278 e 1279 c.c. consentono infatti che il pagamento sia convenuto “in una moneta non avente corso legale nello Stato”.
In particolare, l’art. 1278 c.c. attribuisce al debitore la facoltà di pagare in moneta legale un’obbligazione originariamente prevista in moneta non avente corso legale nello Stato, facendo riferimento al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento.
Questa facoltà può essere esclusa, ai sensi dell’art. 1279 c.c., mediante la clausola “effettivo” o altra equivalente, salvo che alla scadenza dell’obbligazione non sia possibile procurarsi la diversa moneta.
Le disposizioni citate, nel riferirsi a “moneta non avente corso legale nello Stato”, non richiedono che abbia corso legale in altro Stato ma fanno riferimento al “corso del cambio”.
Si potrebbe ritenere che il corso del cambio della valuta usata debba essere necessariamente quello ufficiale, coincidente con il cambio medio delle borse nazionali[4], e che le norme in oggetto trovino quindi applicazione unicamente per le valute dotate di un cambio ufficiale.
Il valore ufficiale: un problema non indifferente
Per i bitcoin non esiste un valore ufficiale nè, quindi, un corso di cambio ufficiale nelle diverse valute nazionali. Esistono vari “exchange”, piattaforme internet attraverso le quali è possibile scambiare le valute virtuali con le monete tradizionali.
Sono gli ordinativi raccolti da queste piattaforme a determinarne il valore, diverso su ognuna, secondo i meccanismi di domanda e offerta, in un mondo non regolamentato e che ben si presta alla speculazione. L’assenza di un corso di cambio ufficiale, tuttavia, non determina l’impossibilità di applicare ai bitcoin i principi di cui agli arti. 1278 e ss. c.c. [5].
Per la dottrina[6] la disciplina dell’art. 1278 c.c. è derogabile, nel senso di consentire alle parti sia di fissare pattiziamente il corso di cambio, sia di individuare un corso di cambio, a cui fare riferimento, diverso da quello ufficiale.
In una compravendita, quindi, il cui prezzo sia determinato in criptovaluta, sarebbe pertanto indispensabile per le parti fissare pattiziamente un rapporto di cambio tra la criptovaluta e la valuta nazionale o individuare la piattaforma a cui fare riferimento.
Sulla natura del bitcoin quale vera moneta o qualcosa di assimilabile ad essa, alcune pronunce statunitensi [7]e la Corte di Giustizia Europea[8], poi richiamata da una nota Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate[9].
Per i giudici europei il bitcoin è un mezzo di pagamento accettato sul mercato dagli operatori; non un bene materiale.
Il trasferimento di bitcoin non è quindi cessione di beni ma operazione di cambio di valuta tradizionale con valuta virtuale, in quanto tale esente dall’ambito di applicazione dell’IVA.
Di orientamento opposto il Tribunal Supremo spagnolo[10] che, al contrario, ne nega la natura di moneta e lo qualifica quale bene immateriale.
Si tratta della stessa posizione da ultimo assunta dalla Cassazione[11], ad avviso della quale i bitcoin sarebbero prodotti di investimento soggetti al T.U.F. (D.lgs. 58/1998).
Non quindi moneta ma beni mobili immateriali.
Comprare casa in bitcoin
Se si aderisce alla ricostruzione dei bitcoin quale moneta virtuale, soggetta alla disciplina civilistica delle obbligazioni pecuniarie, la cessione di un bene in cambio di bitcoin va qualificata come compravendita, ai sensi dell’art. 1470 c.c.: il prezzo è pagato in criptovaluta.
L’aspetto più delicato è costituito dalla compatibilità di una transazione in bitcoin con la normativa “antiriciclaggio”[12] di cui al d.lgs. n. 231 del 2007[13], che all’art. 49 vieta il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore in euro o in valuta estera, se d’importo superiore a soglie prefissate e non effettuato attraverso intermediari abilitati.
All’art. 1, lett. o), il denaro contante viene definito come “le banconote e le monete metalliche, in euro o in valute estere, aventi corso legale”.
A differenza, quindi, delle norme del codice civile sopra esaminate, queste due norme si riferiscono espressamente all’euro o alle valute estere e richiamano espressamente il corso legale.
Anche a voler considerare i bitcoin assimilabili al contante e i “wallet” ai titoli al portatore, ne rimarrebbero esclusi proprio perché non sono valute estere e non hanno corso legale.
Paradossalmente, quindi, le valute legali trovano una regolamentazione più stringente rispetto a quelle non aventi corso legale.
Senonchè ragioni di prudenza renderebbero opportune le dovute segnalazioni antiriciclaggio.
Se, al contrario, si aderisce alla ricostruzione dei bitcoin quali prodotti finanziari, ossia beni mobili immateriali, da ultimo fatta propria dalla Suprema Corte, il negozio col quale a fronte del trasferimento della proprietà o altro diritto reale si ricevono bitcoin assume natura di permuta, ai sensi dell’art. 1552 c.c..
Nel congegno causale della compravendita, i bitcoin possono semmai rientrare non già quale prezzo ma, ai sensi dell’art. 1197 c.c., quale oggetto di “datio in solutum”.
L’obbligo di pagare il prezzo, normalmente convenuto in euro (o altra valuta non avente corso legale in Italia), viene cioè estinto eseguendo una prestazione diversa, cioè trasferendo i bitcoin.
In Italia la prima compravendita in bitcoin è stata ricevuta nel 2018, a Torino. Le parti, su consiglio del notaio rogante, si sono avvalse, a tal fine, proprio del meccanismo della “datio in solutum”.
Conclusioni
In un quadro normativo assolutamente carente, non si può che fare riferimento alla pur scarsa e spesso contraddittoria giurisprudenza esistente.
Per le ragioni esposte, nel quadro normativo attuale appare più congrua al sistema la ricostruzione dei bitcoin quali beni mobili immateriali, pur nella consapevolezza che ogni intervento del legislatore sul punto, di certo opportuno, potrebbe sconfessare ogni convinzione sin qui maturata, con impatti notevoli sulla diffusione e utilizzo delle criptovalute.
Informazioni
ASCARELLI T., Delle obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1959.
BECHINI U. e CIGNARELLA M.C., Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B, Consiglio Nazionale del Notariato.
BIANCA C.M., Diritto Civile, L’Obbligazione, Milano, 2004.
MANENTE M. in “Deposito del prezzo e criptovalute. Come entrano i bitcoin nel conto dedicato?”, Biblioteca Online della Fondazione Italiana del Notariato.
MASTROPAOLO F., Obbligazioni pecuniarie, Roma, 1990.
US District Court Eastern Division of Texas, Case N. 4:13-CV-41 del 2013 (SEC v. Shavers).
Corte di Giustizia UE, sez. V, 22 ottobre 2015, causa C-264/14.
Tribunal Supremo, sentenza n. 326/2019 del 20 giugno.
Cassazione penale sez. II, sentenza n. 26807 del 17/9/2020.
[1] Così li definisce il loro creatore, Satoshi Nakamoto
[2] L’allora governatore della BCE, Mario Draghi, in una dichiarazione su “Il Sole24Ore” del 14 febbraio 2018, ha negato che il bitcoin possa rappresentare un’alternativa alle monete tradizionali, per quattro ragioni: non è emesso da una banca centrale; non è generalmente accettato come mezzo di pagamento; nell’uso, gli utenti non ricevono alcuna protezione da eventuali azioni di hacker; per l’elevata volatilità
[3] Si veda M. MANENTE in “Deposito del prezzo e criptovalute. Come entrano i bitcoin nel conto dedicato?”, Biblioteca Online della Fondazione Italiana del Notariato
[4] Così C.M. BIANCA, Diritto Civile, L’Obbligazione, Milano, 2004 e F. MASTROPAOLO, Obbligazioni pecuniarie, Roma, 1990
[5] Sul punto, sempre M. MANENTE in “Deposito del prezzo e criptovalute. Come entrano i bitcoin nel conto dedicato?”
[6] T. ASCARELLI, Delle obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1959
[7] Ad esempio, US District Court Eastern Division of Texas, Case N. 4:13-CV-41 del 2013 (SEC v. Shavers) : ”It is clear that bitcoin can be used as money ”
[8] Corte di Giustizia UE, sez. V, 22 ottobre 2015, causa C-264/14
[9] Risoluzione n. 72/E del 2016
[10] Tribunal Supremo, sentenza n. 326/2019 del 20 giugno
[11] Cassazione penale sez. II, sentenza n. 26807 del 17/9/2020
[12] Il delitto di riciclaggio e l’art. 648 bis c.p., di L.Venezia, su http://www.dirittoconsenso.it/
[13] Di avviso negativo il Consiglio Nazionale del Notariato nel Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B, a firma di U.BECHINI e M.C. CIGNARELLA
L'eredità digitale
Identità ed eredità digitale. Profili e strumenti giuridici, tra cui il mandato post mortem e il legato di password, nell’attuale quadro legislativo
Identità ed eredità digitale
Nel mondo contemporaneo ciascuno di noi ha un’autonoma identità “digitale”, possedendo e utilizzando profili social, applicazioni di messaggistica istantanea, e-mail, licenze software e servizi, alle volte, persino capaci di generare reddito. Nel complesso, si tratta di fornire e creare una miriade di informazioni, documenti, immagini, conversazioni. Che fine fanno tutte queste informazioni alla nostra morte? Che ne sarà, alla morte, della nostra identità ed “eredità digitale”?
L’eredità digitale comprende una quantità enorme di dati personali e sensibili ed i supporti fisici che li contengono: pc, tablet, smartphone, chiavi usb, hard disk.
Se i dispositivi fisici possono essere fisicamente distrutti, lo stesso non può dirsi per tutto ciò che contengono: la cd. “identità digitale” non si estingue con la morte della persona e resta on-line potenzialmente in eterno.
Fonti normative sull’eredità digitale
Il nostro ordinamento non conosce una specifica normativa in materia di eredità digitale.
Il REG. UE 2016/679, sulla protezione dei dati personali[1] (il cd. “GDPR”), non si occupa dei dati personali delle persone decedute e ne rimette la disciplina ai singoli Stati.
Il nostro “nuovo” Codice della Privacy, D.Lgs. 196/2003, come armonizzato al predetto Regolamento europeo per effetto del D.lgs. 101/2018, all’art. 2-terdecies, co. 1, prevede che:
“ i diritti[2] … riferiti a dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione”.
Al comma 2, poi, con specifico riferimento ai “servizi della società dell’informazione”, consente all’interessato di vietare che i predetti diritti, riferiti a dati personali, siano da altri esercitati.
Tale volontà, “espressa, non equivoca, specifica, libera e informata”, deve essere effettuata per iscritto e presentata o comunicata al gestore del servizio.
È quindi espressamente riconosciuta al “de cuius” la possibilità di disporre della sua eredità digitale.
Il “testamento digitale”
Lo strumento per indirizzare la sorte della propria eredità digitale è il testamento.
La dottrina[3] evidenzia che, in linea di principio, le risorse online passano nella disponibilità dei successori “mortis causa” ed individua gli strumenti giuridici più idonei a disporne: per attribuire a determinati soggetti l’accesso a risorse informatiche protette da credenziali (pin, password, username) si può ricorrere alla figura del mandato “post mortem”[4] o alla nomina di un esecutore testamentario.
Più di recente è stata elaborata la figura del cd. legato “di password”[5].
Verosimilmente le credenziali hanno natura di documenti di legittimazione, ex art. 2002 c.c., che permettono di ottenere l’accesso a risorse fisiche (pc, penne USB) e files oppure online (posta elettronica, servizi di cloud, social network, ecc. …).
Il contenuto di tali servizi e risorse ha varia natura e spesso valore patrimoniale.
Ricondurre i nuovi fenomeni alle consuete categorie non è semplice, ma non sembra che, allo stato attuale, si possa parlare di nuovi diritti digitali e che la natura digitale dei contenuti assuma rilevanza ai fini della loro qualificazione giuridica e disciplina.
È necessario distinguere il diritto, di natura meramente obbligatoria, di accedere ad una risorsa online, dal diritto reale sui suoi contenuti. Non c’è tra i due corrispondenza biunivoca, poiché la titolarità del primo non comporta necessariamente la titolarità del secondo.
Occorre inoltre scindere i diritti dominicali sulla risorsa/supporto fisico (per esempio un computer) e sul contenuto di esso: la titolarità di quest’ultimo prescinde dalla titolarità del supporto (per esempio ove concesso da terzi in comodato); e non può escludersi che la risorsa fisica sia attribuita ad un soggetto diverso da quello incaricato dal testatore di accedervi, previo reperimento delle credenziali, per eseguirne le volontà.
Mandato post mortem ed esecutore testamentario
La dottrina[6] individua due modalità per disporre delle proprie credenziali:
- facendole pervenire direttamente, all’apertura della successione, a un soggetto determinato o
- legittimandolo ad ottenerle dal gestore del servizio, indirettamente.
Nella prima ipotesi, non sembra opportuno e utile indicarle nella scheda testamentaria, poiché le si esporrebbe alla conoscenza del più veloce a chiedere la pubblicazione del testamento.
Appare invece utilizzabile lo strumento del mandato “post mortem”, incarico unilateralmente conferito nel testamento, che legittima il mandatario a reperire le credenziali dal luogo o dal depositario indicato dal mandante-testatore, al fine di compiere le attività volute dal “de cuius” (mai attributive! o si tratterebbe di patto successorio istitutivo, vietato ex art. 458 c.c.).
Risultati analoghi si possono ottenere per il tramite di un esecutore testamentario[7]. Si ricordi che, per la dottrina, si tratta proprio di un’ ipotesi tipizzata[8] di mandato “post mortem”.
L’esecutore testamentario ha il pregio di essere una figura conosciuta anche negli ordinamenti di common law, dove risiede ed opera la maggioranza dei servizi online di quotidiano utilizzo. Fare riferimento a categorie ed istituti esclusivamente di diritto interno comporta infatti inconvenienti ed esige necessari adattamenti giuridici.
Il legato di password
Ulteriore modalità di trasmissione dell’eredità digitale è rappresentata dal cd. “legato di password”, disposizione a titolo particolare il cui oggetto varia a seconda del contenuto protetto dalle credenziali.
Se nel mandato “post mortem” le credenziali sono intese come mera chiave d’accesso e non attribuiscono diritti sul materiale custodito, nel legato di password sono intese come riferimento al contenuto cui danno accesso.
Si tratta di un legato di specie a contenuto atipico, soggetto all’unico limite della liceità del suo oggetto.
Esso attribuisce quindi al legatario non soltanto le credenziali – oggetto immediato del legato- ma anche i diritti su ciò che proteggono – oggetto mediato; la dottrina vi ravvisa un’ipotesi di “relatio”[9], essendo le password il criterio d’individuazione dell’oggetto del legato. Sembra comunque opportuno che il ”de cuius” espliciti e chiarisca le proprie volontà e se intenda attribuire i “beni” che si celano dietro le password.
Tendenzialmente, la figura in esame realizza un’attribuzione patrimoniale. Natura giuridica e disciplina variano a seconda dell’oggetto mediato.
Se, ad esempio, ne è oggetto un’opera letteraria, scientifica, artistica o la corrispondenza privata, sarà soggetto alla disciplina della L. 633/1941 sul Diritto d’Autore, con peculiare riferimento a diritti morali e patrimoniali d’autore, di rivendicarne la paternità, di pubblicazione.
Il legato di credenziali d’accesso a un conto corrente potrebbe essere inteso quale legato ex 655 c.c. di somma di denaro[10], considerando il conto corrente quale “luogo” determinante l’oggetto del lascito.
In relazione al materiale musicale o filmografico lecitamente scaricato dal “de cuius”, si osserva tuttavia che molti gestori e fornitori dei servizi appositi lo concedono spesso in licenza e non in proprietà: in tal caso, ogni diritto su tale materiale si estingue alla sua morte.
Il legato di password può certamente essere strutturato anche quale legato di posizione contrattuale[11], in modo da consentire al legatario di subentrare nel rapporto contrattuale col gestore del servizio. Ciò presuppone, però, che sia consentito dal regolamento contrattuale del servizio stesso.
Prassi e condizioni dei principali gestori di servizi online
Nel nostro ordinamento, in assenza di disposizioni testamentarie, spetterebbe forse comunque agli eredi l’eredità digitale e la corrispondenza del defunto[12]. Non sembrano esserci ragioni per ragionare diversamente tra corrispondenza “classica” e corrispondenza contenuta su risorse digitali. Del resto, è in tal senso anche la prassi dei giganti delle telecomunicazioni (in Italia, Telecom).
Non può però dimenticarsi che, spesso, le condizioni generali del servizio prevedono la distruzione della casella e-mail alla morte del titolare, con conseguente perdita di tutto il suo contenuto[13]. È il caso di Yahoo.
Altri noti servizi di posta elettronica adottano invece politiche molto diverse.
Per esempio Google offre agli utenti la possibilità di indicare chi potrà avere accesso all’account e permette di disporne la cancellazione tramite la funzione “Gestione account inattivo”. Ove il “de cuius” non se ne sia avvalso, Google si impegna a collaborare coi familiari più stretti dell’utente deceduto, al fine di valutare la chiusura dell’account o consentire il recupero di alcuni contenuti, nel rispetto comunque della privacy del defunto e, quindi, senza mai fornire i dati d’accesso.
Tra i più noti social, Facebook[14] e Instagram permettono la possibilità di convertire il profilo in pagine commemorative, individuando un “contatto erede” che, con notevoli limitazioni, potrà accedere e gestire l’account o cancellarlo. Nel primo caso, il contatto erede potrà condividere post o modificare l’immagine del profilo; non può intervenire invece su attività e post pregressi e neppure interagire in chat.
Conclusioni in tema di eredità digitale
In mancanza di una disciplina legislativa adeguata, sono gli operatori giuridici a svolgere un ruolo fondamentale nella creazione di buone prassi e soluzioni adeguate in tema di “eredità digitale”.
Disposizioni espresse, contenute nel “testamento digitale”, facendo ricorso agli strumenti analizzati, appaiono di evidente ausilio, fornendo quantomeno certezza in ordine alle volontà del “de cuius”. Si evidenziano, tra l’altro, i seri dubbi della dottrina in relazione alla circostanza che le condizioni generali di contratto di un determinato operatore possano legittimamente comportare la perdita irreversibile di contenuti.
È evidente che un’apposita normativa non risulterebbe priva di utilità.
Informazioni
BECHINI U., Studio CNN n. 6-2007/IG, “Password, credenziali e successione mortis causa”, Approvato dalla Commissione Studi di Informatica Giuridica l’11 maggio 2007
BIANCA C.M., Diritto Civile. II. La famiglia. Le Successioni, pp. 495 ss.
BONILINI G., Autonomia testamentaria e legati, Milano, 1990, p. 128
BONILINI G, Degli esecutori testamentari, 2005. Artt. 700-712, cit., 267
BONILINI G., Legato di somma accreditata in un datoconto corrente, in Fam. pers. succ., 2010, 3, 192
CAPOZZI G., Successioni e Donazioni, a cura di A. FERRUCCI e C. FERRENTINO, Milano, 2009; pag. 41 e pag. 65; pag 722; pag. 1280
CINQUE M., La successione nel patrimonio digitale: prime considerazioni, in Nuova giur. civ. comm., 2012, cit., 64
CRISCUOLO M., Legato di somme o titoli depositati in conto corrente, in Notariato, 2010, 4, 437.
DI LORENZO L., Il legato di password, Notariato 2/2014, pp. 144/151.
DI STASO N., Il mandato post mortem exequendum, in Fam pers. succ., 2011, 10, 685 ss.
MONCALVO F.A., Sul mandato da eseguirsi dopo la morte del mandante, in Fam pers. succ., 2010, 1,56 ss.
PADOVINI F., Rapporto contrattuale e successione a causa di morte, Milano 1990, p. 117
PALAZZO A., Testamento e istituti alternativi, Padova, 2008, 57 ss.;
PESCATORE V., Il testamento per relationem, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 61
PUTORTI’ V., Mandato post mortem e divieto dei patti successori, in Obbl. e Contr., 2012, 11, 737.
[1] In tema di dati personali, si è parlato anche di una possibile violazione di trattamento dei dati in relazione all’uso di devices qui: http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/02/il-gdpr-e-intelligenza-artificiale/
[2] Si tratta dei diritti sui dati personali di cui, oggi, agli artt. 15-21 del nuovo GDPR (REG. UE 2016/679).
[3] Studio n. 6-2007/IG, “Password, credenziali e successione mortis causa”, di Ugo Bechini.
[4] Il mandato “post mortem” è un incarico unilaterale conferito col testamento; figura di discussa ammissibilità, stante il principio di intrasmissibilità della proposta contrattuale, va distinto dal mandato conferito in vita ma da eseguire dopo la morte del mandante (cd. mandato “post mortem exequendum”) certamente ammesso, e dal mandato “mortis causa”, vietato ex art. 458 c.c., poiché consisterebbe nell’incarico di disporre di beni del mandante dopo la sua morte, sottraendoli alle regole successorie (patto successorio istitutivo, quindi).
Sul mandato “post mortem”, C.M. BIANCA, Diritto Civile. II. La famiglia. Le Successioni, pp. 495 ss.; PUTORTI’, Mandato post mortem e divieto dei patti successori, in Obbl. e Contr., 2012, 11, 737; G. CAPOZZI, Successioni e Donazioni, pag. 41 e pag. 65, che riconduce a tale figura gestoria l’esecutore testamentario, il terzo ex artt. 630, 631, 632 c.c. e quello incaricato del progetto di divisione di cui all’art. 733 c.c..
Sul mandato “post mortem exequendum”, DI STASO, Il mandato post mortem exequendum, in Fam pers. succ., 2011, 10, 685 ss.; e ancora M. CINQUE, La successione nel patrimonio digitale: prime considerazioni, cit., 647; MONCALVO, Sul mandato da eseguirsi dopo la morte del mandante, in Fam pers. succ., 2010, 1,56 ss.;; PALAZZO, Testamento e istituti alternativi, Padova, 2008, 57 ss. .
[5] L. DI LORENZO, Il legato di password, Notariato 2/2014, pp. 144/151.
[6] Il già citato Studio del CNN, n. 6-2007/IG e, inoltre,
[7] (21) BONILINI, Degli esecutori testamentari. Artt. 700-712, cit., 267.
[8] G. CAPOZZI, Successioni e Donazioni, pag. 41 e pag. 65.
[9] PESCATORE, Il testamento per relationem, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, dir. da Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 61; CAPOZZI, Successioni e Donazioni, I, Milano, 2009, 722.
[10] Si vedano BONILINI, Legato di somma accreditata in un dato conto corrente, in Fam. pers. succ., 2010, 3, 192; CRISCUOLO, Legato di somme o titoli depositati in conto corrente, in Notariato, 2010, 4, 437.
[11] G. BONILINI, Autonomia testamentaria e legati, Milano, 1990, p. 128; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, a cura di A. FERRUCCI e C. FERRENTINO, Milano, 2009; p. 1280; F. PADOVINI, Rapporto contrattuale e successione a causa di morte, Milano, p. 117
[12] Lo prevedeva espressamente l’art. 34, lett. c), del R.D. 689 del 1940, ora abrogato.
[13] È noto il caso Ellsworth del 2005. I giudici del Michigan ordinarono a Yahoo di consegnare alla famiglia di un marine defunto le sue e-mail. Le condizioni generali del servizio, di per sè, ne prevedevano l’estinzione, con soppressione del contenuto, alla morte del titolare.
La carica emotiva della vicenda fu ciò che spinse il giudice a “superare” le condizioni di contratto sottoscritte.
In seguito, anche in considerazione delle questioni dubbie sul regime applicabile in loro assenza, si è diffusa negli USA la prassi di apposite disposizioni testamentarie in materia di password.
[14] Per la Corte Federale di Giustizia Tedesca, Facebook è da considerare alla stregua di un diario cartaceo, che certamente può essere ereditato.
La diseredazione
È valida la disposizione con cui il testatore diseredi successibili “ex lege” non legittimari. Ma cosa accade se ad essere diseredato sia proprio un legittimario? Si analizza in breve la diseredazione, alla luce delle più significative pronunce della giurisprudenza di legittimità e degli spunti di riflessione forniti dalla dottrina più moderna
Introduzione alla diseredazione
Nel diritto romano il “pater familias” aveva il potere di escludere dalla successione i propri eredi necessari verso cui nutrisse risentimento: la diseredazione costituiva una sorta di sanzione civile di fonte privata. Nel nostro ordinamento un simile istituto non risulta ammissibile. Il testatore non può escludere dalla successione chi ha diritto alla quota riservatagli per legge e che, se non contemplato nel testamento e dunque “pretermesso”, può soddisfare i propri diritti esperendo l’azione riduzione. La diseredazione può perciò soltanto significare, secondo l’orientamento prevalente, esclusione dalla successione legittima di parenti che non siano legittimari. Si precisa che la sua ammissibilità nel nostro ordinamento non è sempre stata pacifica.
La teoria negativa
In senso contrario, in passato, si è in primo luogo osservato che non sarebbe consentito al testatore, nell’ambito dell’autonomia privata, derogare alle cause – tassative – di esclusione dalla successione previste dal legislatore in tema di indegnità[1] , ex art. 463 c.c. .
Un secondo argomento a sostegno della tesi negativa è sorto in sede di dibattito sull’ammissibilità, o meno, di disposizioni testamentarie negative o comunque non implicanti attribuzioni in senso stretto.
Secondo la più risalente giurisprudenza della Cassazione[2], esse non dovrebbero ritenersi ammissibili, sulla base del tenore letterale dell’art. 587, co.1, c.c.: il testamento è l’atto revocabile con il quale taluno “dispone” (in positivo), per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse.
La clausola diseredativa di un successibile “ex lege”, purchè non legittimario, sarebbe valida a condizione che dal testamento emerga la volontà, anche soltanto implicita, di attribuire le proprie sostanze ad altri soggetti: la diseredazione sarebbe quindi null’altro che un’implicita istituzione di erede a favore degli altri successibili “ex lege”.
Il testamento contenente la sola disposizione diseredativa negativa, se non affiancata da una disposizione positiva, anche soltanto implicitamente ricavabile dall’interpretazione della scheda testamentaria, sarebbe perciò invalido.
La tesi positiva
In realtà non convince l’argomento dell’istituzione implicita: l’erede testamentario è “heres scriptus” e la sua determinazione non può avvenire indirettamente, ricorrendo a fonti di designazione estranee al contenuto della scheda testamentaria.
Con una nota sentenza del 2012[3], la Suprema Corte ha, ad ogni modo, completamente mutato orientamento. In primo luogo, osserva, se è vero che il legislatore sembra accogliere la natura essenzialmente patrimoniale dell’atto di ultima volontà, è egli stesso a prevedere, al secondo comma dell’art. 587 c.c., l’efficacia delle disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale che la legge permette siano contenute in un testamento, purché contenute in un atto con la forma testamentaria, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale (esse, dunque, condividerebbero con il negozio di ultima volontà solo il carattere formale e non quello sostanziale).
Ne discende la validità del testamento che pure sia privo di una funzione attributiva.
L’espressione “dispone”, di cui al primo comma dell’art. 587 c.c., non andrebbe quindi letta nel senso di “attribuisce”, ma sarebbe più correttamente da ritenersi inclusiva anche della dichiarazione di non voler attribuire propri beni a determinati soggetti.
Esistono, tra l’altro, innumerevoli esempi di disposizioni a contenuto patrimoniale – della cui ammissibilità non è dato dubitare – che non implicano attribuzioni in senso stretto ma sono genericamente rientranti nella nozione di “atto dispositivo” (tra le tante, dispensa da collazione o imputazione, assegno divisionale semplice, onere testamentario, ripartizione dei debiti ereditari, divieti testamentari in sede di divisione)[4].
Dal tenore letterale dell’art. 587 c.c. non pare poi potersi desumere che la libertà del testatore di disporre delle proprie sostanze non possa manifestarsi anche in un “non volere disporre” di esse in favore di uno o più soggetti determinati.
Del resto, se si riconosce che il testatore possa disporre di tutti i suoi beni escludendo in tutto (cioè pretermettendoli) o in parte i successori legittimi, non si vede per quale ragione non possa, con un’espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile “ex lege”, mediante una disposizione negativa dei propri beni.
“Escludere” equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, ma anzi ad una specifica manifestazione di essa, a contenuto negativo.
Per diseredare non è quindi necessario procedere ad una positiva attribuzione di beni né, sulla scorta dell’assunto per cui escludere equivalga a istituire, alla prova di un’implicita istituzione.
La clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: sottraendo dal quadro dei successibili “ex lege” il diseredato, il testatore indirizza la concreta destinazione del proprio patrimonio per il tempo in cui avrà cessato di vivere, così restringendo la successione legittima ai non diseredati.
Il “disporre” di cui all’articolo 587, comma 1, c.c. può dunque includere non solo una volontà istitutiva e attributiva, ma anche una volontà destitutiva.
La diseredazione del legittimario
Occorre evidenziare che, secondo la dottrina tradizionale e ancora oggi prevalente, la diseredazione è ammissibile, però, solo in quanto significhi esclusione dalla successione legittima di parenti che non siano legittimari.
La diseredazione del legittimario sarebbe nulla per due ragioni di diritto: in primo luogo ex art. 457, co.3, c.c., secondo cui le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari; e poi ex art. 549 c.c., stante il divieto per il testatore di imporre pesi e condizioni sulla quota di legittima[5].
In realtà, è opportuno precisare, la Cassazione non ha mai affrontato direttamente la questione dell’ammissibilità della diseredazione di un legittimario, manifestandosi semmai solo implicitamente contraria. Il caso oggetto della pronuncia del 2012 riguardava, infatti, la diseredazione di parenti non legittimari.
A propendere, invece, per l’ammissibilità della diseredazione del legittimario è la più moderna dottrina civilistica[6]. Lo strumento di tutela che l’ordinamento accorda al legittimario diseredato (come del resto al legittimario leso o pretermesso) sarebbe l’azione di riduzione.
Andrebbero del tutto respinte, secondo tale orientamento, le due obiezioni a sostegno della tesi tradizionale, contraria alla diseredazione del legitittimario.
L’art. 457, co.3, c.c. andrebbe infatti interpretato solo nel senso che nulla e nessuno possa impedire al legittimario di agire in riduzione.
Non pare reggere neppure la seconda obiezione, fondata sul divieto ex art. 549 c.c., poiché non si vede come possa parlarsi di “pesi” sulla quota riservata dalla legge a un soggetto destituito.
Appare poi del tutto incoerente sanzionare in modo diverso due istituti – diseredazione e pretermissione del legittimario – perfettamente identici negli effetti: la prima con la nullità della clausola diseredativa; la seconda semplicemente accordando al legittimario pretermesso la tutela di cui all’azione di riduzione.
Sembra esserci, infine, un ulteriore argomento a sostegno della tesi permissiva, fornito dallo stesso legislatore con l’introduzione, nel 2012, dell’art. 448-bis c.c.: il figlio, anche adottivo, può escludere dalla successione (quindi diseredare!) il genitore (legittimario!) nei confronti del quale sia stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale per fatti che non integrino i casi di indegnità di cui all’art. 463 c.c..
Conclusioni
Pur condividendosi le argomentazioni della civilistica più recente, non pare comunque possibile concludere con certezza per l’ammissibilità della diseredazione del legittimario. Non almeno sin quando la giurisprudenza di legittimità non si sarà pronunciata sul punto o intervenga, in materia, lo stesso legislatore.
Ciò che può ritenersi invece ormai pacifico è che sia valida la disposizione negativa di diseredazione di parenti non legittimari.
Altrettanto indubbio è, inoltre, che la diseredazione abbia effetti solo nei confronti del soggetto nei cui confronti è effettuata e, pertanto, non escluda l’operatività della rappresentazione in favore del discendente legittimo del diseredato[7].
Discussa è anche l’ammissibilità di una diseredazione solo parziale[8]: cioè, in caso di concorso tra delazione testamentaria e legittima, ci si chiede se sia possibile, con un’espressa clausola diseredativa, escludere i soggetti istituiti eredi dalla successione legittima che eventualmente si aprirà sul patrimonio residuo.
Aderendo alla tesi prevalente, che nega l’ammissibilità della diseredazione del legittimario, è chiaro che le conclusioni divergano a seconda che il parzialmente diseredato sia o meno un legittimario: nel primo caso, la clausola “de quo” potrebbe essere un “peso” ex art. 549 c.c., dunque nullo, allorché il legittimario parzialmente diseredato non sia stato istituito erede in una quota non inferiore a quella spettantegli per legge.
Informazioni
S. Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Riv. Not., 1992
A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv.dir.civ.,1970
N. Lipari, Autonomia privata e testamento, in Studi dir. Civ. diretto da R. Nicolò e F. Santoro Passarelli, Milano, 1970
L.Mengoni, Successioni per causa di morte. Successione legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A.Cicu e F.Messineo, 6ª ed., Milano, 1999
V.Barba, La disposizione testamentaria di diseredazione, in Famiglia, Persone e Successioni, 2012
M.Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del testamento, Torino, 1966
[1] S. Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Riv. Not., 1992, p. 506.
[2]Corte di Cassazione, Sez. II Civile – Sentenza 20 giugno 1967, n. 1458.
[3]Corte di Cassazione, Sez. II Civile – Sentenza 25 maggio 2012, n.8352. Se ne riporta la massima: “1) È valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili; 2) La clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione “post mortem” del proprio patrimonio.”.
[4] In tal senso, A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv.dir.civ.,1970, p. 48; N. Lipari, Autonomia privata e testamento, in Studi dir. Civ. diretto da R. Nicolò e F. Santoro Passarelli, Milano, 1970, p. 240.
[5] L.Mengoni, Successioni per causa di morte. Successione legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A.Cicu e F.Messineo, 6ª ed., Milano, 1999, p. 22.
[6] V.Barba, La disposizione testamentaria di diseredazione, in Famiglia, Persone e Successioni, 2012, 763-777.
[7] Cass. 23 novembre 1982, n. 6339, in Giust. Civ. mass., 1982, 10-11.
[8] Per la tesi favorevole, M.Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del testamento, Torino, 1966.
S.r.l. - La riforma a favore delle PMI
Con la riforma del diritto societario del 2003 la S.r.l. è divenuta oggetto di autonoma e specifica disciplina, cessando di presentarsi come una piccola società per azioni. Oggi, con l’estensione delle deroghe al diritto societario previste per le start-up innovative a tutte le PMI in forma di S.r.l., si assiste a un vero e proprio “revirement” legislativo
Introduzione alle modifiche sulle S.r.l.
Nelle righe che seguono si proverà a ripercorrere l’evoluzione normativa che, negli ultimi anni (e, in particolare, mesi), per effetto di disorganici e molteplici interventi di riforma, ha sostanzialmente riscritto la disciplina della s.r.l., stravolgendone i caratteri e consentendole, di fatto, e per scelta statutaria, di comportarsi come una “piccola s.p.a”[1]. Sono caduti, per le PMI in forma di s.r.l., per effetto della sommatoria degli interventi legislativi che saranno a breve esaminati, i principi essenziali in tema di società a responsabilità limitata: in primo luogo il principio di proporzionalità tra voto e partecipazione, di cui all’articolo 2479, co.5, c.c., e il divieto di operazioni su proprie partecipazioni, ex articolo 2474 c.c. .
Con le categorie speciali di quote, poi, in tutto e per tutto analoghe alle categorie di azioni di s.p.a., si è introdotta la possibilità di oggettivizzare ciò che sino ad oggi era, coi “particolari diritti”[2] ex articolo 2468, co. 3, c.c., essenzialmente e inscindibilmente legato alla persona del socio (con tutto ciò che ne consegue in termini di circolazione della quota)[3].
Infine, con la modifica dell’articolo 100-ter, T.U.F., è venuto meno il divieto di offerta al pubblico delle partecipazioni, di cui all’articolo 2468, co.1, c.c., ed è stato esteso il regime facoltativo, e alternativo rispetto all’ordinaria disciplina dell’art. 2470 c.c., di circolazione dematerializzata[4] delle partecipazioni attraverso i portali per la raccolta di capitali.
La normativa è invero complessa e aggrovigliata, perciò si procederà esaminando in ordine cronologico i singoli e più significativi interventi di riforma dal 2012 ad oggi.
Le deroghe al diritto societario per le start-up innovative
Con l’articolo 26 del d.l. 179/ 2012, convertito in legge 221/2012 (“Urgenti misure per la crescita del Paese”), il legislatore ha introdotto una specifica disciplina per le start-up innovative[5] in forma di s.r.l., contenente deroghe al diritto societario[6].
Essa prevede, a ben vedere, due tipologie di deroghe: le prime a carattere automatico e temporanee (e cioè finché la società resta start-up innovativa), le altre a carattere opzionale ma permanenti.
Tra le deroghe temporanee rientrano quelle di cui agli artt. 26, commi 1, 7 ed 8, e 31 del d.l. 179/2012.
Nell’ordine:
- posticipo dei termini ex artt. 2446, co. 2, e 2482-bis, co. 4, c.c. al secondo esercizio successivo e, nei casi ex artt. 2447 e 2482-ter c.c., in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento a una cifra non inferiore al minimo legale, possibilità di deliberare il rinvio di tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo;
- possibilità di emettere strumenti finanziari (norma analoga all’articolo 2346, co. 6, c.c. per le S.p.a.);
- esonero dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria al momento dell’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese;
- divieto di assoggettamento a procedure concorsuali diverse dalla disciplina del sovraindebitamento.
Deroghe opzionali e permanenti sono invece quelle di cui ai commi 2, 3, 5 e 6 dell’articolo 26, e precisamente:
- possibilità, se previsto dall’atto costitutivo, di “creare categorie di quote fornite di diritti diversi”, liberamente determinandone il contenuto, nei limiti imposti dalla legge, “anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo del codice civile”;
- possibilità, se previsto nell’atto costitutivo, di creare “anche in deroga all’articolo 2479, quinto comma, del codice civile … categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitato a particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative[7]” (norma analoga all’articolo 2351, commi 2 e 4, c.c. in materia di S.p.a.);
- deroga all’articolo 2468, co. 1, c.c., e dunque possibilità per le quote di partecipazione di “costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari[8], anche attraverso i portali per la raccolta di capitali…nei limiti previsti dalle leggi speciali”;
- deroga al divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni di cui all’articolo 2474 c.c., a condizione che “l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedono l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opere servizi anche professionali”.
L’estensione delle deroghe alle PMI in forma di S.r.l.
Con il d.l. 50/2017, convertito in l. 96/2017, il legislatore ha esteso a tutte le S.r.l. in forma di PMI le deroghe opzionali e permanenti già previste per le start-up innovative, sostanzialmente riscrivendo la disciplina delle società a responsabilità limitata.
In particolar modo, l’art. 57 del predetto decreto ha modificato l’art. 26 del d.l. 179/2012, sostituendo alle parole “start-up innovative” e “start-up innovativa” la parola “PMI”.
Secondo l’orientamento prevalente, si sottolinea, stante il carattere permanente delle suddette deroghe, la perdita della qualifica di PMI non comporterebbe il venir meno dell’applicabilità di tali norme derogatorie, ove già recepite in statuto; e non sorgerebbe pertanto l’obbligo di modificarlo, riadeguandolo alla ordinaria disciplina codicistica[9].
Quando una S.r.l. è “PMI”?
Pare opportuno dare dei contorni definiti alla nozione di “PMI”. Non è contenuta nel d.l. 179/2012 come modificato, ma desumibile da una serie di fonti eterogenee: ad esempio dalla Raccomandazione della commissione europea del 6 maggio 2003, su microimprese, piccole e medie imprese (Racc. 2003/361/CE); e ancora dal Regolamento Consob di attuazione del d.lgs. 58/1998.
Secondo le fonti in esame un’impresa, in qualunque forma, è qualificabile come PMI se dal bilancio annuale risultano rispettati almeno due dei tre requisiti:
- numero medio di dipendenti in esercizio inferiore a 250;
- attivo dello stato patrimoniale non superiore a 43 milioni di euro;
- fatturato annuo netto non superiore a 50 milioni di euro.
Nella sostanza, la stragrande maggioranza delle le S.r.l. operanti in Italia soddisfa i requisiti per essere considerate PMI.
Il d.lgs. 129/2017 ha apportato modifiche al T.U.F. sulle PMI. Con l’art. 1, lett. dd), ha modificato l’art. 1, co. 5- novies, T.U.F., il quale rinvia al REG. (UE) 2017/ 1129, art. 2, par. 1, lett. f), che, per la qualifica di PMI, prevede in alternativa due parametri: il primo dei due corrisponde a quello, sopra riportato, del Regolamento Consob e della Raccomandazione della commissione europea. Il secondo, ex art. 4, par. 1, punto 13 della Direttiva 2014/65/UE (di cui il d.lgs. 129 del 2017 è attuazione) richiede una capitalizzazione di borsa media inferiore a 200 milioni di euro, sulla base delle quotazioni di fine anno dei tre precedenti anni civili. Si sottolinea che quest’ultimo è ad oggi, per le s.r.l., un criterio impossibile da soddisfare, e tale resterà finchè non sarà a regime il nuovo sistema. Resta pertanto valido e applicabile il primo criterio.
Il problema non si pone per le società di nuova costituzione che, per forza di cose, non sono valutabili alla stregua dei predetti parametri.
Ma come accertare che una S.r.l. abbia i requisiti della PMI?
Tale qualifica non risulta da alcuna iscrizione nel registro delle imprese, a differenza invece di quella di “start-up innovativa” per cui esiste apposita sezione speciale. Decisive sono pertanto le risultanze del bilancio d’esercizio.
In sede di assemblea dei soci che deliberi sulla base di una delle predette norme derogatorie, è pertanto opportuna una dichiarazione da parte del Presidente dell’assemblea (magari in forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà), che attesti il riscontro dei parametri risultanti dal bilancio.
Spetterà ovviamente, poi, al notaio verbalizzante, in sede di controllo di legalità, la verifica della ricorrenza nel caso concreto dei presupposti per l’applicabilità della disciplina per le PMI.
Conclusioni
La materia è certamente complessa e la sua lettura è complicata da un groviglio di norme, anche di fonte eterogenea, da combinare.
Il risultato è ad ogni modo netto: con l’estensione delle deroghe opzionali ma permanenti, originariamente dettate per le sole start-up innovative in forma di S.r.l., a tutte le PMI S.r.l. – e cioè in concreto alla stragrande maggioranza delle S.r.l. italiane – risulta sostanzialmente riscritta la disciplina delle società responsabilità limitata: per apposita scelta statutaria, ben può la S.r.l. essere configurata come una piccola S.p.a..
Informazioni
Consiglio Nazionale del Notariato, Studio 101-2018/I, a cura di M. MALTONI, A. RUOTOLO, D. BOGGIALI.
MALTONI, La partecipazione sociale, in La Riforma della società a responsabilità limitata, di Caccavale – Magliulo – Maltoni -Tassinari, Milano, 2005, 172.
Consiglio Notarile di Milano, massima n. 39.
DE LUCA, Crowdfunding e quote ‘‘dematerializzate’’ di s.r.l.? prime considerazioni, in Le nuove leggi civili commentate, 2016, 3.
MALTONI, La Srl start-up innovativa, in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione del Notariato, 1/2014, 193 ss..
ABRIANI, Strumenti finanziari partecipativi e categorie di quote nelle s.r.l. start up innovative PMI, Relazione al Convegno organizzato dal Consiglio Notarile di Milano e dalla Scuola di Notariato della Lombardia, Strumenti finanziari partecipativi e operazioni sul capitale: prassi societaria e orientamenti interpretativi, Milano, 10 novembre 2017.
C.A. BUSI, Le modifiche statutarie per la gestione del crowdfunding nelle srl pmi, in Società, contr., bil. Rev., 2/2018, 6 ss.
PAOLINI, Della Srl – start up innovativa (ovvero della Srl transtipica), in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione del Notariato, 1/2014, 199 ss.
http://startup.registroimprese.it/isin/static/startup/index.html
[1] Consiglio Nazionale del Notariato, Studio 101-2018/I, a cura di M. MALTONI, A. RUOTOLO, D. BOGGIALI.
[2] L’atto costitutivo può prevedere l’attribuzione “a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili”. È bene precisare che, secondo la dottrina prevalente, le indicazioni dell’art. 2468, co. 3, c.c., sono esemplificative e non tassative; pertanto possono essere attribuiti diritti particolari anche su materie non necessariamente riguardanti l’amministrazione o la distribuzione degli utili, purché nel rispetto dei limiti imposti dalla legge. In tal senso, M. MALTONI, La partecipazione sociale, in La Riforma della società a responsabilità limitata, di Caccavale – Magliulo – Maltoni – Tassinari, Milano, 2005, 172; e ancora, Consiglio Notarile di Milano, massima n. 39.
[3] Pur tacendo la legge sul punto, è pressoché pacifico che, nel silenzio dell’atto costitutivo, i diritti particolari si estinguono in caso di alienazione della partecipazione: essi ineriscono infatti alla persona del socio e non alla sua partecipazione. Un’apposita disciplina statutaria sulla sorte dei particolari diritti è certamente opportuna, tanto più con riferimento ai casi di trasferimento parziale della quota.
[4] Si tratterebbe d’una dematerializzazione differente dalla gestione accentrata ex artt. 83 ss. T.U.F.; appare piuttosto una sorta di intestazione fiduciaria a un intermediario iscritto nel registro delle imprese, sulla base di un contratto di mandato all’intermediario conferito dal sottoscrittore. Di “intestazione fiduciaria trasparente” parla N. DE LUCA, Crowdfunding e quote ‘‘dematerializzate’’ di s.r.l.? prime considerazioni, in Le nuove leggi civili commentate, 2016, 3. Tale regime incide ovviamente sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, che dipenderebbe in tal caso dalla concorrenza di due elementi: l’iscrizione nel registro delle imprese dell’intermediario e la consegna della certificazione rilasciata dall’intermediario (che comprova la titolarità della quota ma non è affatto strumento per la sua circolazione). Anteriormente al d.lgs. 129/2017, il regime in esame si connotava per il carattere di temporaneità. Decorsi due anni dalla perdita della qualifica di start-up innovativa, quali gli intermediari erano tenuti a intestare le quote detenute per conto dei sottoscrittori e degli acquirenti direttamente agli stessi. Con l’abrogazione del comma 2-quinquies dell’art. 100-ter T.U.F. è stata eliminata la “naturale scadenza”. La dematerializzazione facoltativa può essere “disattivata” solo su richiesta dei sottoscrittori e successivi acquirenti, con l’intestazione diretta a sé stessi delle quote.
[5] La definizione di start-up innovativa è contenuta nell’art. 25, co.2, d.l. 179/2012:
“Ai fini del presente decreto, l’impresa start-up innovativa, di seguito «start-up innovativa», è la società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero una Societas Europaea, residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, che possiede i seguenti requisiti:
- a) (lettera soppressa dall’art. 9, comma 16, legge n. 99 del 2013)
- b) è costituita e svolge attività d’impresa da non più di quarantotto mesi;
- c) ha la sede principale dei propri affari e interessi in Italia;
- d) a partire dal secondo anno di attività della start-up innovativa, il totale del valore della produzione annua, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro;
- e) non distribuisce, e non ha distribuito, utili;
- f) ha, quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;
- g) non è stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda;
- h) possiede almeno uno dei seguenti ulteriori requisiti:
(lettera così modificata dall’art. 9, comma 16, legge n. 99 del 2013)
1) le spese in ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione della start-up innovativa. Dal computo per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l’acquisto e la locazione di beni immobili. Ai fini di questo provvedimento, in aggiunta a quanto previsto dai principi contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del business pian, le spese relative ai servizi di incubazione fomiti da incubatori certificati, i costi lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo, inclusi soci ed amministratori, le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso. Le spese risultano dall’ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa. In assenza di bilancio nel primo anno di vita, la loro effettuazione è assunta tramite dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante della start-up innovativa;
2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università’ e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270; 3) sia titolare o depositario o licenziatario di almeno una privativa industriale relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività d’impresa.”
[6] Sull’impatto della disciplina in esame sul tipo s.r.l., M. MALTONI, La Srl start-up innovativa, in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione del Notariato, 1/2014, 193 ss. .
[7] La dottrina si divide in ordine all’applicabilità in via analogica del limite della metà del capitale sociale, ex art. 2351, co.2, c.c. . In senso affermativo N. ABRIANI, Strumenti finanziari partecipativi e categorie di quote nelle s.r.l. start up innovative PMI, Relazione al Convegno organizzato dal Consiglio Notarile di Milano e dalla Scuola di Notariato della Lombardia, Strumenti finanziari partecipativi e operazioni sul capitale: prassi societaria e orientamenti interpretativi, Milano, 10 novembre 2017.
[8] C.A. BUSI, Le modifiche statutarie per la gestione del crowdfunding nelle srl pmi, in Società, contr., bil. Rev., 2/2018, 6 ss.
[9] Così A. PAOLINI, Della Srl – start up innovativa (ovvero della Srl transtipica), in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operative, Quaderni della Fondazione del Notariato, 1/2014, 199 ss, con riferimento alle deroghe statutarie opzionali e permanenti per le srl start-up innovative; il ragionamento non muta ora che le deroghe al diritto societario sono state estese a tutte le srl PMI.