Processi mediatici e reati sessuali: la comunicazione come mezzo di riscatto
I processi mediatici oltre a diventare pubbliche gogne per gli individui che li vivono, potrebbero diventare un valido mezzo per ottenere visibilità e giustizia, sensibilizzando sul tema della violenza sessuale?
Processi mediatici e reati sessuali
Per “processi mediatici” si intendono interazioni tra media e opinione pubblica quando i processi si sostituiscono a quelli reali, prendendo forma in talkshow nella quale ogni individuo dispone della libertà di parola, spesso facendo venir meno quella degli attori coinvolti. Motivo per cui si assumono toni molto accesi e orientamenti colpevolisti, volti a screditare l’immagine dell’imputato e a indagare sui possibili moventi. Oltre ai giornalisti, chi conduce le inchieste televisive relative ai casi mediatici molto spesso è un opinionista chiamato a dire la propria opinione facendo venir meno l’approfondimento del processo reale o disconoscendo gli atti processuali.
Questo fa sì che nei processi mediatici non ci sia alcun limite deontologico da rispettare nei confronti delle persone coinvolte, motivo per cui spesso anche le vittime possono essere definite colpevoli. In Italia infatti è quello che purtroppo avviene nel caso dei processi mediatici applicati ai reati sessuali[1], i quali spesso si trasformano in una gogna pubblica per la vittima. In questa sede si è infatti scelto di analizzarli al fine di sensibilizzare sull’argomento.
Violenza sessuale e consenso, i concetti
Per ciò che concerne gli atti sessuali deve ricomprendersi tra essi ogni atto coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente. Per quanto riguarda la violenza, invece, essa consiste non solo nell’esercizio di una violenza fisica o coazione materiale, ma anche qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che abbia come ricaduta la limitazione della libertà del soggetto passivo, il quale contro la sua volontà, subisce atti sessuali[2].
I reati che prima rientravano nelle fattispecie “violenza carnale” e “atti sessuali” vengono adesso puniti a norma dell’articolo 609 bis del codice penale come “violenza sessuale”. La peculiarità quando si parla di questi reati sta nel concetto di consenso. Il consenso deve perdurare per tutta la durata del rapporto sessuale e non solo all’inizio, integrandosi dunque il delitto in esame quando il consenso originariamente prestato venga meno a causa di un ripensamento o a causa della non condivisione delle modalità di consumazione del rapporto. Il consenso deve inoltre essere prestato validamente e coscientemente.
Tra ricostruzione dei fatti e domande impertinenti, cosa rimane della dignità?
Oltre che su un piano giuridico, la violenza sessuale è un tema delicato anche su un piano umano, in quanto spesso ancora coperto da taboo, in una società dove da sempre, anche all’interno delle aule di tribunale vengono spesso istituiti processi mediatici alla vittima piuttosto che al predatore sessuale.
Alla vittima di una violenza sessuale, infatti, puntualmente vengono chiesti particolari intimi, il tipo di abbigliamento indossato prima dell’atto sessuale, la sua attitudine, il suo tenore di vita, la sua soddisfazione, come se fossero elementi utili a comprendere se il reato commesso sia in parte causato da una determinata condotta. Oggi essere vittima di una violenza sessuale in una società misogina significa farsi colpevolizzare attraverso continue frasi come: “Se l’è cercata”, “Perché era in giro di notte?”, “Perché era ubriaca?”. Di conseguenza i casi di violenza sessuale si trasformano facilmente in processi mediatici, una macabra spettacolarizzazione che attira i più curiosi, nella quale la vittima si ritrova intrappolata in un vortice di telecamere, udienze e giudizi.
Un esempio pratico può essere constatato nel processo mediatico italiano che in questo momento sta avendo più visibilità: Il Caso Genovese.
Caso Genovese: l’ultimo esempio di processo mediatico di un caso raccapricciante
Il Caso Genovese ha rimesso in luce una dura realtà. Un mondo violento e depravato, fatto di potere e denaro, dove le donne sono considerate un oggetto sessuale da usare con disprezzo, un mezzo per esaltare la propria convinzione di dominio, di supremazia, persuasi che con la ricchezza si possa comprare tutto, persone e dignità. Compreso il consenso.
Genovese potrebbe essere collegato all’indagine bolognese “Villa Inferno”, inerente festini a base di droghe e prestazioni sessuali con soggetti minorenni.
Il caso Weinstein italiano, un uomo potente, convinto fino a poco tempo fa di poter comprare il silenzio delle sue vittime. Un mondo come questo non è un’eccezione, ma si verifica molto più spesso di quanto si voglia ammettere. Sempre più uomini che detengono ricchezza e potere che abusano di donne che non hanno gli stessi mezzi, sicuri del fatto che non verranno denunciati dalle stesse.
E questo è il risultato, una giovane modella diciottenne drogata, seviziata per più di venti ore da uno stupratore scortato da una guardia del corpo fuori la stanza per garantire che la violenza non fosse interrotta.
Rimane un corpo martoriato, venticinque giorni di prognosi e una ferita emotiva e psicologica che porterà per tutta la sua vita, rimanendo vittima di giudizi di una società che va rieducata a livello umano e giuridico, dai soliti “Come era vestita?” “Cosa ci facevi in un attico di lusso con persone del genere?”.
Il caso Genovese è il nuovo caso Weinstein, anche se non paragonabile in termini di difesa.
Infatti, se da un punto di vista da processi mediatici spesso scaturiscono meccanismi infernali per la vita della vittima, che spesso viene colpevolizzata, possiamo constatare anche casi contrari nella quale questi stessi processi possono diventare un mezzo di riscatto dalle violenze subite, nonché di sensibilizzazione sul tema. Infatti, complice la cultura comunicativa americana, nel processo Weinstein possiamo constatare una figura difensiva principale nella lotta agli abusi sessuali : l’avvocato Gloria Allred[3], che ha reso della spettacolarizzazione dei processi un valido mezzo per mettere in luce le ingiustizie, oltre ad aver sfruttato l’uso dei media per garantire che le vittime venissero capite e ascoltate anche fuori da un aula di tribunale.
L’Avvocato Gloria Allred e i processi mediatici: esempio di rivendicazione dei diritti delle donne
Quasi tutte le cause affidate a Allred hanno avuto un riscontro mondiale: nel 1994 ha difeso la famiglia di Nicole Brown Simpson, ex moglie di OJ Simpson, assassinata lo stesso anno. Nel 2017 invece, ha rappresentato Beverly Young Nelson, che ha accusato l’ex senatore dell’Alabama Roy Moore di averla aggredita sessualmente quando aveva 16 anni.
Durante la sua carriera si è occupata di casi di revenge porn, si è schierata contro club privati che cercavano di escludere donne e negli ultimi anni ha difeso diverse donne nei casi Bill Cosby e appunto il recente caso Harvey Weinstein unendosi al #MeToo e dando il suo essenziale contributo.
L’avvocato Allred si definisce “un’avvocata femminista” e ha fatto del suo lavoro una forma di ribellione:
“Per me, è sempre una questione personale quando una donna è vittima di ingiustizie e violenze”, racconta in un’intervista. “Il mio impegno verso questa causa deriva dalla mia esperienza”. Gloria Allred infatti ha vissuto sulla sua pelle il significato di una violenza sessuale ma da quell’esperienza ha deciso di uscirne vincitrice dando un valido contributo a tutte quelle donne che pensano di non poter aver voce davanti a circostanze del genere. Sacrificio, coraggio e anche un po’ di egocentrismo sono state le sue doti principali, quelle che le hanno fatto ottenere il successo che merita, rendendola una fuoriclasse unica nel suo campo.
Gloria Allred ama le telecamere e si trova sempre a suo agio di fronte allo schermo, trasformando una trappola per le sue assistite come uno strumento per dargli voce e sensibilizzare, usando ogni suo mezzo utile per raccontare i fatti di violenza, scegliendo fermamente la via dei processi mediaticu per ottenere una vittoria atta a diventare un simbolo per tutte quelle vittime che hanno paura di denunciare a causa della visibilità negativa che spesso viene ottenuta da casi del genere. Nelle conferenze stampa, con piglio da vera combattente, si scaglia senza esitazione contro gli uomini più potenti (Trump compreso) mettendo a nudo i risvolti tossici del loro maschilismo e l’ingiustizia del sistema che ancora li favorisce.
Quando la violenza sessuale diventa un caso mediatico: la visibilità diventa uno strumento di sensibilizzazione o di condanna verso la vittima?
La spettacolarizzazione dei processi da parte dei media prevede regole diverse da quelle canoniche del processo penale, con una tendenza “commerciale” a far prevalere i risultati dell’audience e del voyerismo sulla tutela costituzionale dell’equo processo e della presunzione di non colpevolezza. Motivo per cui a volte questo può avere aspetti negativi se non sfruttati a proprio vantaggio.
Concentriamoci però sui processi mediatici inerenti i reati sessuali che hanno portato ad un’evoluzione in termini giuridici e sociali.
In Italia, per esempio, nel 1978 possiamo constatare un processo mediatico che ha riscritto la storia: protagonista un caso con imputati quattro uomini, accusati per lo stupro di Fiorella, una ragazza diciottenne. “Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente”, così esortò l’avvocato di uno degli uomini accusati.
L’Avv. Tina Lagostena Bassi[4] rispose con la sua storica arringa che è stata un vero e proprio grido di giustizia in una società ancora patriarcale e maschilista. Non utilizzò mezzi termini e raccontava senza censura le azioni dei carnefici, con un modo di fare unico che ha rivoluzionato i processi in tribunale relativi agli abusi sessuali, trasformando il processo mediatico in un mezzo di rivoluzione culturale piuttosto che in una gogna mediatica per la vittima di abusi.
Mi sento quindi in dovere verso tutte le donne di allegare parte della sua storica arringa:
“Sono qui prima di tutto come donna e poi come Avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. Che cosa intendiamo quando chiediamo giustizia, come donne? Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto […] Mi scusino i colleghi, mi auguro di riuscire ad avere la forza di sentirli e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi Avvocati – e qui parlo come Avvocato – si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina così come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli Avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali sicuri da difendere, ebbene, nessun Avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori “Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere un po’ è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse! Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. […] Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna, la vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale […] secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una p******”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa.“
Una nuova generazione di giuristi utile per continuare a lottare contro le violenze e per la parità
Tina Lagostena Bassi e Gloria Allred, seppur operanti in modelli giuridici differenti, sono solo due dei grandi personaggi degni di citazioni in libri di storia, ma soprattutto degni di essere presi come esempio di lotta, motivando le generazioni di futuri giuristi e giuriste alla perseveranza della difesa delle donne vittime di molestie. Si sono occupate di cause contro le discriminazioni e le violenze di genere, facendone una missione, battendosi con tutti i mezzi a disposizione per tutelare le donne vittime di ingiustizie, soprusi e violenze, media compresi.
Una Rivoluzione di giuristi per sensibilizzare
Oserei dire che occorrerebbe una Rivoluzione culturale, supportata da giuristi sempre più propensi alla difesa di casi come quelli descritti, capaci di utilizzare a proprio favore le opportunità che potrebbero offrire i processi mediatici, pur trattandosi di una questione dibattuta, poichè spesso, venendo meno le conoscenze degli atti processuali minano la regolarità del processo in Aula.
Serve sempre più una generazione di giuristi pronti a modernizzare il diritto processuale usando con criterio anche i potenti mezzi di comunicazione, gli stessi che possono distruggere vite se usati indebitamente, ma se usati con professionalità possono influire su una società che ancora oggi disconosce certe problematiche colpevolizzando le vittime e non mobilitandosi alla comprensione e alla non accettazione della cultura dello stupro.
Informazioni
https://www.altalex.com/documents/news/2017/05/17/violenza-sessuale
https://www.altalex.com/documents/altalexpedia/2014/01/31/violenza-sessuale
“Gloria Allred: dalla parte delle vittime”, Documentario Netflix di Sophie Sartain e Roberta Grossman
“Fight Back and Win: My Thirty-Year Fight Against Injustice–And How You Can Win Your Own Battles” di Gloria Allred, Regan Books, anno 2006; Reprint edizione (13 maggio 2008)
[1] I reati sessuali, prima annoverati tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, furono riconosciuti con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 (Norme contro la violenza sessuale) inseriti nel Titolo XII del Codice Penale, “Delitti contro la persona”.
[2] Il riferimento è all’articolo 609 bis del Codice Penale, che stabilisce: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”
[3] L’Avvocato Allred ha fatto della notorietà la peculiarità dei suoi casi, da oltre quarant’anni, quando fondò la Allred, Maroko & Goldberg, prima di diventare l’attorney d’America, l’avvocato cioè che i colleghi hanno votato fra i migliori del Paese e che il settimanale Time ha definito fra «le più efficaci in tema di diritto di famiglia e cause femministe»
[4] La prima avvocatessa al mondo ad utilizzare la parola “stupro” durante un processo, portavoce italiana dei diritti e delle rivendicazioni nelle donne, in particolare negli anni ‘70, tra le Fondatrici del Telefono Rosa e Presidente della Commissione per le Pari opportunità dal 1994 al 1995
Fashion law: tra giurisprudenza, arte e comunicazione
Il Fashion Law dimostra che la moda, nella sua evoluzione anche digitale, può essere un mezzo per la modernizzazione del diritto e per formare nuovi giuristi
Fashion Law: dalla contrattualistica alla tutela della proprietà intellettuale
Il Diritto della Moda (o Fashion Law) è un campo specialistico interdisciplinare che coinvolge il diritto civile e il diritto commerciale al fine di salvaguardare la proprietà intellettuale[1] e a tutela dei rischi connessi alla contraffazione. I professionisti del settore assistono i loro clienti in tutte le fasi di ideazione, produzione, distribuzione e promozione di prodotti e servizi, nella tutela del marchio e nella gestione del contenzioso, ma altresì nella redazione di contratti di distribuzione, di licenza di marchio, di affitto di saloni di esposizione o di ubicazione per le sfilate, di co-branding, di franchising. Si rivolge non solo a grandi imprese ma anche alle start up e non sono rare le richieste di consulenza per far crescere un brand.
Essere un Fashion Lawyer in Italia: la chiave del successo è la strategia comunicativa
Per chi lavora nella moda la figura del Fashion Lawyer è fondamentale, perché influenza il successo dell’iniziativa imprenditoriale. Per questo motivo, in Italia stanno aumentando i percorsi di studio dopo la laurea dedicati all’applicazione della giurisprudenza nel settore moda. Il modello più seguito è quello del Fashion Law Institute della Fordham University di New York, fondato da Susan Scafidi nel 2010 nella quale si affrontano temi dal diritto commerciale internazionale alla privacy e alla sostenibilità.
La base per ottenere il successo in questo ambito risiede nel possedere grandi abilità comunicative, rapportarsi con un elevato numero di persone, grazie anche alla partecipazione ad eventi che possono essere un valido mezzo per creare una vasta rete di contatti, ma anche nell’aver dimestichezza di temi quali la tecnologia, la comunicazione digitale, la sostenibilità, i contratti e la proprietà intellettuale. La protezione della proprietà intellettuale, infatti, è una mossa strategica fondamentale per acquisire il diritto di utilizzo esclusivo, di cui tratteremo successivamente.
Essere un Fashion Lawyer in Italia significa, oltre avere contezza di un mercato sempre più in evoluzione, possedere conoscenze che prescindono dal diritto, sapendo affrontare i ritmi frenetici del mondo della moda, possedendo oltre alle competenze richieste dal settore, capacità di strategia e di gestione dei conflitti che possono scaturire da un eventuale contenzioso.
Specializzarsi nel settore del Fashion Law è senza dubbio una scelta vincente per un professionista con ottime doti comunicative e può considerarsi una vera e propria opportunità lavorativa, anche per uno studio associato. Comprendere il fashion system, con le sue logiche e meccanismi è fondamentale per essere un ottimo fashion lawyer, se di base si è un ottimo giurista d’impresa, fornendo al proprio cliente strategie efficaci, caratterizzate dal fornire un business plan chiaro e un investimento non indifferente di tempo e attenzione ai dettagli.
La moda ha infatti sempre più bisogno di specializzazione e competenza, non solo in passerella. Servono esperti di diritto, di sostenibilità, economisti per studiare e gestire prodotti e processi di produzione, oltre che specialisti degli eventi.
Giuristi a tutela della moda per salvaguardare la proprietà intellettuale
Ciò che rende unico il nostro Paese in particolare è il sistema del fashion e proprio per questo risulta necessario per un Fashion Lawyer proteggere i rapporti commerciali, franchising, contratti con collaboratori/agenti di commercio o eventuali accordi.
La presenza di giuristi a tutela della moda serve anche a evitare pratiche come quella attuata recentemente da Burberry’s: la distruzione dei modelli in surplus della collezione dell’anno, gesto seguito da non poche polemiche. Proprio per questo, il Fashion Law può essere un valido strumento per tutelare il valore dell’oggetto di lusso passando per vie legali piuttosto che distruttive.
Diviene necessario infatti, per chi lavora nell’ambiente avvalersi di un avvocato o di uno studio legale specializzato in questo campo ancora in evoluzione sia su un piano giuridico che sociale, per ricevere oltre che consulenze, una protezione a garanzia della proprietà intellettuale, ai sensi dell’art.2584 c.c., ma anche a tutela di eventuali atti di concorrenza sleale, art. 2598 c.c.
Il Fashion Law può infatti tutelare le aziende dall’imitazione di modelli e creazioni, anche se la proprietà intellettuale su disegni e creatività varia in base all’area geografica o subisce limitazioni molto diverse, è quindi fondamentale garantire protezione in tutti i territori che interessano l’attività commerciale interessata. Ogni stilista può rivendicare il diritto d’autore sulle sue creazioni e necessitare di tutela sulla produzione in serie degli stessi, sulla registrazione di una specifica collezione o di un modello unico. Qui entra in gioco il fashion lawyer che dovrà occuparsi della parte legale e business del cliente, seguendolo in tutte le fasi ideative, produttive e commerciali.
A tal proposito possiamo constatare l’Ordinanza del Tribunale di Milano, della Sezione I specializzata in proprietà industriali e intellettuali, in data 11-12-2014. Un caso peculiare per dimostrare che ad oggi, per entrare nel mondo della moda, non basta più possedere mere conoscenze sartoriali, ma gioca un ruolo principale la comunicazione digitale accompagnata da un elevato numero dei seguaci sui canali social per scalare questo mercato sempre più in crescita.
Il caso ha coinvolto una sarta alla quale è stato riconosciuto il diritto d’autore sui suoi capi di alta moda realizzati su misura e come capi unici. Gli abiti realizzati dalla stessa erano destinati ad una show girl e commissionati dall’addetto stampa di quest’ultima, la quale utilizzava le immagini sui propri canali social nella quale indossava tali abiti, omettendo il nome della sarta che li aveva creati appositamente. Il Tribunale di Milano ha quindi ordinato l’inserimento del nominativo a margine delle immagini e di eventuali altre, ovvero nei credits. Le parti coinvolte sono altresì state condannate al risarcimento delle spese processuali.
L’evoluzione della moda parte dal Web
A dimostrazione del fatto che la moda non è più convenzionale, basta avere contezza del caso Chiara Ferragni, il quale ha dato inizio ad una nuova strategia di marketing: l’influencer marketing, ancora embrionale per ciò che concerne la sua regolamentazione in ambito giuridico.
Il Social Media Marketing è infatti una conseguenza dell’evoluzione digitale che stiamo vivendo, applicata al tema marketing, che consente di stabilire un rapporto quasi personale con il consumatore, grazie al ruolo giocato dagli influencers, esperti di tendenze, fashion blogger o imprenditori digitali che grazie alle loro ottime strategie comunicative capaci di attirare le masse riescono a rendere anche un solo prodotto sold out nel giro di un’ora.
La categoria degli influencers viene identificata come quei “soggetti che, grazie alla loro autorità o conoscenza, percepita o reale, hanno il potere di influire sul processo di acquisto di altri soggetti”, collaborando con i vari brand per creare, pubblicare e promuovere un prodotto o servizio con foto o video avendo l’obiettivo di ampliare la consapevolezza del brand e lo sviluppo di un’identità di marca positiva; quindi, per le imprese trovare il soggetto giusto che sappia operare in tale maniera vuol dire aumentare le proprie vendite ed ottenere così un sensibile incremento dei ricavi nonché un fidelizzazione maggiore nei riguardi del “marchio”.
Influencer Marketing: un mercato ancora poco regolamentato e caratterizzato da lacune
L’azienda intenzionata a stipulare un contratto con l’influencer per il tramite dei suoi profili social, chiederà un numero predeterminato di storie su Instagram e di “postare” un numero – anch’esso predeterminato già alla stipula del contratto – di foto raffiguranti il prodotto da pubblicizzare.
Lo IAP, Istituto Autodisciplina Pubblicitaria, ha predeterminato i parametri contrattuali tra aziende e influencers. A tali prestazioni verrà quantificato un compenso, il quale potrebbe essere versato in due formule: per il totale alla stipula del contratto o per il 50% alla stipula del contratto e l’altro 50% dopo un arco temporale, una volta ottenuti i risultati della forza persuasiva della persona scelta.
Il tema dell’influencer marketing va letto in chiave comparata, facendo seguito al diritto digitale, il quale dovrà sempre fare i conti con i vari ordinamenti, dei quali dovrà sempre rispettarne i principi, per quanto lacunosi per mancanza di normative ad hoc. Negli Stati Uniti l’influencer marketing viene regolato dalla Federal Trade Commission, la quale illo tempore aveva già delineato i criteri che avrebbero dovuto seguire gli influencers nel postare un prodotto sui propri social.
L’influencer marketing determina una serie di implicazioni legali di cui bisogna tener conto, ad esempio, nel momento in cui si intende sottoscrivere un contratto di endorsement o fornire in modo gratuito il proprio prodotto. Per quanto vi sia stato il tentativo di introdurre una normativa ad hoc, la questione trova già una sua regolamentazione nel generale principio di trasparenza. La pubblicità non trasparente, in violazione di tale principio, si realizza quando il professionista occulta la natura promozionale di un messaggio, conferendo allo stesso una veste informativa o comunque neutrale, così abbassando la soglia di attenzione del consumatore. Tale fattispecie è sanzionata quale pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 22 e 23 del D.Lgs. n. 206/2005 “Codice del Consumo”[2]:
– Art. 22 comma 2: “Una pratica commerciale è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista […] non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già evidente dal contesto nonché quando, nell’uno o nell’altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.”
– Art. 23 comma 1 lett. m): “Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali: […] m) impiegare contenuti redazionali nei mezzi di comunicazione per promuovere un prodotto, qualora i costi di tale promozione siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore.”
L’AGCM ha altresì precisato l’obbligo di rendere chiare le finalità promozionali, in relazione a tutti i contenuti diffusi mediante social media, attraverso l’inserimento di avvertenze alle quali far sempre seguire il nome del marchio: #pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento, #prodottofornitoda (nel caso di fornitura del bene a titolo gratuito).
La moda, nella sua continua evoluzione anche digitale, può essere un valido mezzo per una futura modernizzazione del diritto e per formare una nuova generazione di giovani giuristi? Ai sensi dell’assunto argomentato, la risposta sembrerebbe affermativa.
Informazioni
Jacopo Ciani, Massimo Tavella, “La riconoscibilità della natura pubblicitaria della comunicazione alla prova del digital: native advertising tra obbligo di disclosure e difficoltà di controllo”,
“Social media e diritto. Diritti e social media” della Rivista “Informatica e Diritto”, anno 2017.
https://www.altalex.com/documents/news/2019/07/17/influencer-marketing-quadro-normativo
[1] Per un approfondimento sul tema della proprietà intellettuale: http://www.dirittoconsenso.it/2019/09/12/proprieta-intellettuale-diritti/
[2] https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/03/19/codice-del-consumo
Revenge Porn: il reato nascosto dietro un click
Considerazioni e analisi giuridica di un fenomeno sessista in forte crescita: il Revenge Porn
Codice Rosso: una vittoria che segna un primo passo a favore delle vittime di Revenge Porn
ll Revenge Porn è una particolare forma di violenza (ne parlerò approfonditamente) che è punita dalla legge italiana. Il 09 agosto 2019 infatti è entrata in vigore la legge n. 69/2019, mediaticamente nota come Codice Rosso, la quale ha introdotto modifiche in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, introducendo una nuova fattispecie di reato nel Codice Penale con l’art. 612 ter rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000
La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”.
Il fenomeno descritto è quello del Revenge Porn, che non consiste nel semplice invio, condivisione o diffusione di materiale sessualmente esplicito, ma si tratta di un vero e proprio abuso psicologico, la cui peculiarità è la mancanza del consenso da parte del soggetto leso, che ha portato nel peggiore dei casi anche al suicidio delle vittime coinvolte, come abbiamo potuto costatare purtroppo in un caso di Revenge Porn divenuto mediatico: il caso Cantone.
Caso Cantone: quando i social network possono ucciderti
Ed è proprio grazie al caso Cantone che in Italia è stato possibile finalmente creare una normativa ad hoc riempendo il vuoto normativo che era presente nell’ordinamento. Esso è stato il caso “madre” che ha messo in luce la totale mancanza di misure a tutela di chi subisce questo abuso nel sistema italiano, ma altresì numerose lacune inerenti il diritto della rete.
Infatti, la vittima ottenne un provvedimento d’urgenza con il quale eliminare i contenuti sessualmente espliciti, ma non il diritto all’oblio: il diritto di essere dimenticata dalla rete. Simbolo dell’irreversibilità della pubblicazione di tali contenuti sul web, i contenuti ad oggi non sono stati eliminati del tutto, continuando a martoriare la memoria di una vittima la cui “colpa” è stata quella di esprimere la sua sessualità senza aver previsto di poter essere un giorno a portata di click per pura vendetta da parte di un uomo in cui aveva riposto la sua fiducia. Una vittima la cui “colpa” è stata quella di esprimere la propria libertà sessuale e di non essere a conoscenza che a breve sarebbe stata considerata quasi come un pezzo di carne, una figurina da osservare e schernire. Una “colpa” che le è costata cara, perché Tiziana è stata portata a togliersi la vita.
A partire dal caso Cantone vi è stato un susseguirsi di petizioni e tentativi di far luce su un abuso che spesso in Italia non veniva considerato come tale, forse complice il fatto che quando si tratta di Internet si tende a minimizzare i fenomeni perché avvengono in una cornice “virtuale” nella quale i carnefici si sentono quasi protetti e invincibili, basta pensare anche a fenomeni come il cyber bullismo e il cyber stalking. Le varie condotte, ovviamente sono diverse su un piano giuridico, ma accomunate dalla gravità di un comportamento umano pericoloso finalizzato a ledere alcuni dei più basilari diritti della persona.
Dalla lesione dei diritti della personalità alle lacune del diritto del Web
Per ciò che concerne il Revenge Porn, infatti, vi è una totale lesione dei diritti della personalità[1]. Il primo dei diritti compromessi infatti, è il diritto all’immagine, che per quanto non specificato, rientra necessariamente nei diritti assoluti costituzionalmente riconosciuti ex art. 2.
Il Revenge Porn viola anche il diritto alla riservatezza e all’intimità privata sancito dall’Art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Infatti, ogni individuo ha diritto a tenere segreta la propria sfera intima, il cui fondamento giuridico è senza dubbio nell’art. 2 della Costituzione già citato, ma altresì nel diritto alla privacy[2] evocato dagli artt. 617 e 615-bis del Codice Penale , il quale punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni “Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614”.
L’assenza del consenso ad oggi rende l’atto illecito sia sotto il profilo patrimoniale che non patrimoniale.
Per quanto riguarda il risarcimento infatti, è garantito a prescindere dall’accertamento del reato, in quanto si tratta di una violazione della dignità sociale e professionale della persona, valore costituzionalmente protetto. Una tutela può senza dubbio essere fornita anche ai sensi dell’art. 2043 del codice civile che regola il risarcimento per fatto illecito, secondo cui: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Il Revenge Porn, oltre a ledere il diritto alla reputazione (lesione della dignità dell’individuo indipendentemente dall’attività svolta), può compromettere infatti anche la reputazione professionale, che comporta un discredito commerciale dell’individuo nel settore in cui opera lavorativamente, come dimostrato dalla recente sentenza del Tribunale di Roma n.9992/2019, la quale ha dichiarato legittima la revoca dell’incarico nei confronti di una vittima poiché l’evento era considerato lesivo del rapporto di fiducia con l’agenzia datrice di lavoro, creando un danno d’immagine all’azienda.
Ma torniamo nuovamente al già citato Caso Cantone, il Tribunale di Napoli Nord ritenne sussistente la responsabilità del provider che venuto a conoscenza del fatto non si attivò per impedirne la diffusione. Secondo la giurisprudenza, infatti, i provider sono esenti da responsabilità per gli illeciti compiuti tramite i propri servizi, salvo non intervengano in alcun modo nel contenuto o sullo svolgimento di tali operazioni. Quest’ultima tesi, è stata molto dibattuta in quanto un controllo potrebbe essere considerato una violazione della libertà di impresa e del principio giuridico di neutralità della rete.
Il Revenge Porn è un reato che senza dubbio mette in risalto le lacune di un diritto che non sempre è attuabile in rete, ma rende ancora più attuale una piaga per la nostra società: la violenza di genere, essendo purtroppo soprattutto le donne discriminate nella manifestazione della propria sessualità, complice una società che va certamente rieducata al rispetto del corpo delle donne.
Certamente sono stati fatti grandi passi nel nostro Paese per contrastare i reati sessuali, ma complici perplessità giuridiche e morali c’è ancora molto lavoro da fare sul piano legislativo, culturale e sociale.
Informazioni
Salvatore D’Angelo, “Il caso Tiziana Cantone, i social network e la web reputation” in Diritto.it
Cesare Parodi, “La tutela della persona nella realtà telematica: Revenge Porn e Cyberstalking” in Magistratura indipendente
[1] https://universityequipe.com/corpi-non-figurine-uniti-contro-revenge-porn?fbclid=IwAR0nWaWt86oHOJVctIE7l8tDIXQ__TiY0ZbUw5vp6gVWUcRpCy2vGRXRgN4
[2] Su cosa sia il diritto alla privacy, invito a leggere l’articolo di Roberto Giuliani per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
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