Acquistare un cavallo: tra natura giuridica, vizi e contratto di compravendita
Quale è la disciplina per acquistare un cavallo? Dal contratto di compravendita ai vizi, ci sono vari elementi da tenere in considerazione
Introduzione
Molto spesso le parti, quando l’oggetto della compravendita è un cavallo, stipulano solo accordi verbali oppure redigono una semplice scrittura privata. Essa pertanto non è opponibile ai terzi ma ha efficacia soltanto fra le parti. Questa tipologia di accordi è basata interamente sulla fiducia tra venditore e compratore, ma rimane comunque scoperta da una piena tutela contrattuale. Infatti gli avvocati specializzati in equine law[1] consigliano sempre a chi si accinge a vendere o a comprare un cavallo di stipulare un apposito contratto di compravendita. Come acquistare un cavallo allora?
Questo articolo ha lo scopo di fornire le indicazioni necessarie al fine di stipulare un contratto di compravendita tale da fornire un elevato grado di tutela e garanzia limitandone di conseguenza i rischi.
La natura giuridica del cavallo
Occorre preliminarmente fornire qualche informazione sulla natura giuridica del cavallo[2] inteso come bene oggetto di un contratto.
Nel nostro ordinamento giuridico i beni vengono classificati in beni mobili e beni immobili, i primi inoltre si distinguono in beni mobili registrati (per es. automobili, imbarcazioni) e non registrati. Orbene il cavallo rientra tra i beni mobili non registrati.
Pertanto la disciplina dei beni mobili non registrati segue il principio del “possesso vale titolo”, secondo cui la proprietà di un bene si trasmette quando ricorrono determinati presupposti:
- Un titolo idoneo al trasferimento
- La consegna del bene
- La buona fede dell’acquirente
Sotto il profilo della validità del trasferimento relativa alla proprietà del cavallo non ci sono regole particolari, pertanto, come precedentemente detto, è sempre consigliata una forma scritta valida ai fini probatori.
La disciplina relativa ai vizi
Nel Codice Civile, l’art. 1490 prevede che il venditore è tenuto a garantire il bene venduto immune da vizi che lo rendano inidoneo all’uso a cui è destinato o ne diminuiscano il valore.
Questo principio opera anche nel caso in cui nel contratto non ci sia alcuna clausola relativa ai vizi redibitori.
La garanzia prevista dall’articolo in esame opera allorquando il vizio sia preesistente alla vendita e il compratore non era a conoscenza del vizio durante la trattativa dell’acquisto.
In questo caso il compratore può riconsegnare il cavallo al venditore, il quale per contro sarà tenuto a restituire il prezzo con il rimborso delle relative spese.
L’acquirente decade inoltre dal diritto alla garanzia se non denuncia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta (in alcuni casi il termine può variare fino a 40 giorni). L’azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna del cavallo.
L’art. 1496 c.c, il quale disciplina espressamente la vendita di animali, prevede inoltre che la materia sulla garanzia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o dagli usi locali, nel caso in cui manchino queste fonti, si osservano le disposizioni dell’art.1490 c.c.
Prima di acquistare un cavallo è importante conoscere i vizi redibitori che in genere sono individuati:
- Ballo dell’orso
- Tic d’appoggio
- Oftalmite periodica
- Atassia spinale
- Morva
- Corneggio
Inoltre gli usi locali possono disciplinare ulteriori modalità che permettono l’esercizio dell’azione redibitoria.
Natura del cavallo e garanzie contrattuali
Occorre altresì precisare che in genere i cavalli vengono acquistati con finalità differenti (sportiva- agonistica, riproduzione, trekking, da lavoro.).
Pertanto durante la stipula del contratto volta ad acquistare un cavallo è bene che le parti valutino l’effettiva capacità dell’animale a svolgere le finalità per le quali esso viene acquistato. Ciò è possibile farlo mediante una visita preventiva svolta preferibilmente dal proprio veterinario di fiducia.
In ogni caso il cavallo dovrà presentare le specifiche attinenze e qualità per il quale viene acquistato; per esempio, se l’animale viene comprato per svolgere competizioni da salto ostacoli è necessario che presenti tutte le caratteristiche di un cavallo specialista in tale disciplina.
Per completezza di esposizione è necessario precisare che è nulla una garanzia relativa alle prestazioni sportive del cavallo se esso, nonostante presenti le caratteristiche e le qualità suddette, non raggiunga determinati risultati agonistici. Il successo atletico è una variante che dipende dal binomio cavallo-cavaliere, anzi molto spesso la percentuale grava[3] più sul cavaliere che sul cavallo, pertanto da questo punto di vista la performance è incerta.
In diritto il principio aliud pro alio opera quando il bene della compravendita è diverso da quello concordato. A riguardo l’art. 1453 c.c prevede i rimedi dell’azione di risoluzione o dell’adempimento.
La Cassazione in una sua pronuncia in cui ha affrontato il tema di animali affetti da brucellosi e inidonei all’impiego per i quali erano stati acquistati, ha previsto che “il bene è completamente diverso da quello pattuito in quanto, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l’utilità richiesta”
Recesso dal contratto
Sotto il profilo delle possibilità di recesso, generalmente in questa tipologia di compravendita l’acquirente può chiedere il recesso al compratore entro due settimane, per esempio a causa del mancato ambientamento del cavallo nella nuova scuderia oppure per incompatibilità tra cavallo- cavaliere.
Il recesso avviene mediante la riconsegna del cavallo e la restituzione del prezzo già versato dal compratore nonché dal pagamento di una somma di denaro a favore del venditore come corrispettivo del recesso.
Cosa deve contenere un contratto di compravendita di un cavallo
Oltre agli elementi caratteristici di un contratto di compravendita in questo caso, il primo requisito da indicare sono i dati sia delle parti che del cavallo. Le informazioni relative all’oggetto della compravendita (il cavallo) sono contenute nei documenti ufficiali, Passaporto e APA, i quali dovranno essere consegnati al nuovo proprietario in seguito alla sottoscrizione del contratto.
È fondamentale accertare la effettiva proprietà del cavallo desumibile dal Passaporto.
Un ulteriore elemento da sottolineare è l’accertamento delle effettive vaccinazioni del cavallo, esse sono indicate nel libretto rilasciato dalla ASL. Il cavallo pertanto deve aver effettuato il Coggin’s test contro l’anemia infettiva.
Le parti, inoltre, potranno anche stabilire un periodo di prova prima dell’acquisto, che di solito viene stabilito in trenta giorni. In questo caso è importante che le parti si accordino sulle modalità di mantenimento e le varie spese per evitare eventuali discussioni in seguito.
Conclusione
È altresì necessario indicare al lettore che il passaggio di proprietà del cavallo è a carico del venditore, il quale deve compilare un apposito modulo, effettuare un versamento all’AIA (Associazione italiana allevatori) e consegnare all’ufficio competente della propria provincia la comunicazione di vendita con i relativi documenti. Successivamente sarà l’ufficio a registrare il passaggio di proprietà annotandolo sul passaporto.
Concludo con una breve riflessione per chi si accinge ad acquistare un cavallo per la prima volta. Acquistare un cavallo comporta delle grandi responsabilità per il proprietario in quanto si tratta pur sempre di un animale che può avere svariati comportamenti, come causare danni alle altre persone oltre che a sé stesso se non custodito nella maniera adeguata. Si tratta, inoltre, di animali molto sensibili per i quali è necessaria una cura con un elevato grado di attenzione.
Per questi motivi è fondamentale che prima di accingersi a redigere un contratto di compravendita di un cavallo ci sia alla base una ponderata decisione.
Informazioni
[1] Ramo del diritto di matrice anglosassone che si occupa del mondo dei cavalli prevalentemente sportivi
[2] Per DirittoConsenso tra l’altro è stato pubblicato un altro articolo attinente al mondo equino: Benedetta Probo infatti ha scritto sui profili di responsabilità extracontrattuale nell’attività di gestione di maneggio. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/11/responsabilita-extracontrattuale-gestione-di-maneggio/
[3] Cass. n. 10916/2010
La disciplina penale sugli incendi
Analisi giuridica relativa alla disciplina penale sugli incendi e il rapporto con altre fattispecie
Disciplina penale sugli incendi: iniziamo con l’art 423 c.p.
La disciplina penale sugli incendi è regolamentata dal Titolo VI del codice penale relativo ai delitti contro l’incolumità pubblica.
L’art. 423 c.p, sanziona colui che cagionando un incendio mette in pericolo, mediante la sua condotta attiva o omissiva, un numero indeterminato di persone.
L’elemento soggettivo che si configura nella fattispecie in esame è il dolo[1] generico in quanto è sufficiente che il soggetto attivo agisca ponendo in essere una condotta tale da far scaturire un incendio, che consiste appunto nell’elemento oggettivo della norma.
Sotto il profilo della colpa invece l’articolo di riferimento è fornito dalla fattispecie di cui all’art. 449 c.p. il quale recita “chiunque al di fuori delle ipotesi previste nel secondo comma dell’art. 423 bis, cagiona per colpa un incendio o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo titolo, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
Si configura l’incendio colposo allorquando l’evento non è voluto dall’agente, ma si realizza per causa della sua negligenza, imprudenza, imperizia.
Il codice penale non fornisce una definizione precisa di cosa debba intendersi per incendio, per cui si fa riferimento alla definizione fornita dalla giurisprudenza maggioritaria che ritiene l’incendio essere “un fuoco di grandi proporzioni, dotato di incontrollabile forza espansiva, di notevoli capacità distruttive, caratterizzato da una inarrestabile potenzialità offensiva”.
L’art. 423 bis c.p. disciplina inoltre la tipologia di incendi che vanno a colpire particolari beni, quali boschi, selve, foreste e vivai forestali comportando un modello sanzionatorio ben più grave rispetto a quello previsto dal precedente articolo 423 c.p.
L’elemento distintivo tra le due fattispecie (incendio e incendio boschivo) è identificabile anche in base albene che viene colpito dall’incendio; nell’art. 423 c.p. il bene è generico, nel successivo articolo 423 bis invece si tratta di beni ambientali quali boschi e foreste.
A tal proposito occorre precisare che con la fattispecie di cui all’art. 423 bis c.p. il legislatore ha posto l’attenzione oltre che sull’incolumità pubblica, quale bene giuridico principale, anche sulla tutelaambientale in base a quanto si denota dal comma IV dello stesso articolo.
La norma che si pone a chiusura dei reati di incendio nel codice penale è quella relativa alle circostanze aggravanti previste dall’art. 425 c.p.
La natura delle varie aggravanti deriva dalla particolare esposizione a pericolo che viene a determinarsi in caso di incendio. Il pericolo per la pubblica incolumità è infatti maggiore qualora vengano coinvolti edifici abitati o luoghi di lavoro in cui sono presenti persone, ovvero su oggetti che, per la loro natura, sono più pericolosi, come i materiali infiammabili.
Rapporto tra incendio e danneggiamento
Il legislatore ha previsto la norma di cui all’art. 424 c.p., la quale disciplina il caso in cui l’agente appicchi il fuoco al solo scopo di danneggiare la cosa propria o altrui.
La fattispecie in esame si differenzia sotto il profilo soggettivo dall’art. 423 c.p. in quanto postula il dolo specifico.
La condotta dell’agente infatti è volta, con la specifica intenzione, a provocare il danneggiamento, anche se dal fatto possa sorgere il pericolo di un incendio.
Nel caso in cui manchi l’effettivo pericolo la condotta integra il reato di danneggiamento[2].
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel considerare l’art. 424 c.p.come un reato di pericolo, pertanto una simile struttura delittuosa non consente di configurare il tentativo.
A tal proposito risulta essere interessante la posizione della giurisprudenza maggioritaria la quale ha statuito che “non è configurabile il tentativo nel delitto di danneggiamento seguito da incendio, previsto dall’art. 424 cod. pen., trattandosi di fattispecie di pericolo per la cui punibilità è necessario che sia sorto quanto meno il pericolo di un incendio, condizione quest’ultima sufficiente per integrare la consumazione del delitto, in assenza della quale, invece, il fatto è qualificabile come danneggiamento, nella forma consumata o tentata” (Cassazione penale sez. II – 08/03/2017, n. 17558).
La ratio dell’incompatibilità del tentativo nei reati di pericolo è sottesa alla “strutturale anticipazione della soglia di tutela in base alla quale il reato è già perfetto in presenza di semplici atti preparatori, sia perché sul piano astratto vi è una incompatibilità tra l’art. 56 c.p. e le fattispecie incriminatrici del cd. “delitto di attentato” in cui si concreta la figura del reato a consumazione anticipata, sia perché diversamente si finirebbe per punire il pericolo di un pericolo, con inaccettabile arretramento della soglia di tutela e violazione del canone di offensività della condotta[3]”.
Appare opportuno analizzare la condotta criminosa tenuta dall’agente che appicchi un incendio su cosa propria al fine di ottenere profitto a svantaggio dell’assicurazione.
In una tale azione delittuosa operano i reati di cui all’art. 424 c.p e 642 c.p. (fraudolento danneggiamento di beni) con l’aggravante prevista dall’art. 61 n. 2 c.p.
La distruzione di cose proprie al fine di ottenere un profitto dall’assicurazione può essere cagionata con qualsiasi mezzo, ma se quest’ultimo costituisce di per sé reato concorre materialmente con quello di fraudolenta distruzione di cosa propria.
Se il mezzo adoperato è l’incendio che cagiona un pericolo per la pubblica incolumità, ne consegue che il delitto di cui all’art. 423 c.p, aggravato dall’art 61 c.p. n.2, concorre con quello previsto dall’art 642 c.p.
Se pur il fatto commesso sia unico, vengono violate diverse disposizioni di legge, senza che ricorra l’ipotesi di reato complesso di cui all’art 84 c.p.[4].
La corte irrobustisce il suo ragionamento sul presupposto dell’assoluta diversità dei beni giuridici tutelati.
“Sussiste concorso formale di reati, e non assorbimento, fra il reato di cui all’art. 642 cod. pen. e quello di cui all’art. 423, comma secondo, aggravato ai sensi dell’art 61, n. 2, cod. pen., allorché la fraudolenta distruzione della cosa propria sia avvenuta tramite incendio da cui sia derivato un pericolo per la pubblica incolumità, trattandosi di fattispecie di reato che tutelano diversi beni giuridici e non ricorrendo l’ipotesi del reato complesso di cui all’art. 84 cod. pen.”[5].
Rapporto tra incendio e crollo
Per comprendere appieno la disciplina penale sugli incendi è bene inquadrare un altro reato. Ulteriore fattispecie del codice penale con la quale il reato di incendio collide spesso è il reato di crollo di cui all’art. 434 c.p.
In questo caso gli artt. 424 c.p. e 434 c.p. tutelano il medesimo bene giuridico: l’incolumità pubblica.
Pertanto la soluzione prospettata dalla giurisprudenza equivale al riconoscimento dell’assorbimento dell’incendio nel reato più grave, il crollo.
Nel caso in cui un incendio venga scaturito al fine di provocare il crollo di una costruzione l’agente risponderà solo del delitto di crollo in quanto “i delitti di crollo (o altro disastro doloso di cui all’art. 434) e di incendio siano posti in essere mediante la stessa condotta materiale, arrecando un’identica offesa agli interessi tutelati, sussiste tra essi un rapporto di sussidiarietà o di consunzione, nel senso che, se il reato di crollo viene commesso cagionando un incendio, trova applicazione soltanto la norma che incrimina il crollo doloso aggravato in quanto reato più grave.[6]
Il rapporto di consunzione si manifesta allorquando due norme presentano un grado offensivo differente di un medesimo bene giuridico, per cui se gli elementi fattuali riconducono ad un’unica condotta delittuosa che interessa più norme, viene applicato il reato più grave (la norma che disciplina il trattamento penale più severo).
Infliggere anche la sanzione per la condotta meno grave comporterebbe un ingiusto trattamento sanzionatorio a carico dell’agente.
Conclusioni
I reati di incendio in Italia sono aumentati notevolmente negli ultimi anni durante la stagione estiva comportando gravi conseguenze per l’intero ecosistema, l’economia e il turismo.
Si tratta di un fenomeno criminoso da non sottovalutare in quanto il 60% dei roghi è di natura dolosa. La disciplina penale sugli incendi quindi rimane fondamentale per tutelare il patrimonio boschivo e forestale italiano.
In conclusione, a parere di chi scrive, pur inasprendo il quadro sanzionatorio della disciplina penalistica, il miglior modo per tutelare l’ambiente o fermare le fiamme è quello di non farle nascere[7].
Informazioni
Cass pen sez I, 17/05/2019 n. 29294
Boniello, Rv. 123478; Sez. 1, n. 7745 del 15/05/1996, Borello, Rv. 205525
Cassazione penale sez. I, 09/04/2018, n.39767
Cass. pen, sez I, 24/01/2006, n. 7629
https://www.italiachecambia.org/2020/08/emergenza-incendi-italia-brucia-ancora-mano-uomo/
www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
[1] Per maggiori approfondimenti sul dolo http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
[2] Cass pen sez I, 17/05/2019 n. 29294
[3] In merito all’impossibilità di configurare il tentativo rispetto a reati di pericolo si vedano da ultimo Sez. 6, n. 34667 del 05/05/2016 – dep. 05/08/2016, P.G. in proc. Arduino e altri, Rv. 26770401 rispetto al delitto di subornazione previsto dall’art.377 cod.pen., Sez. 3, n. 41776 del 16/04/2013 – dep. 10/10/2013, V, Rv. 25689901
[4] Boniello, Rv. 123478; Sez. 1, n. 7745 del 15/05/1996, Borello, Rv. 205525
[5] Cassazione penale sez. I, 09/04/2018, n.39767
[6] Cass. pen, sez I, 24/01/2006, n. 7629
[7] https://www.italiachecambia.org/2020/08/emergenza-incendi-italia-brucia-ancora-mano-uomo/
Il tentativo
Come dottrina e giurisprudenza chiariscono le difficoltà interpretative legate all’idoneità e univocità degli atti per la configurazione del tentativo
Introduzione
Il tentativo è una delle figure di diritto penale che pone ai giuristi non poche difficoltà riguardo i presupposti della sua configurazione. Lo scopo che mi prefiggo con questo articolo è quello di fornire quanto più possibile i rudimenti relativi alla figura del delitto tentato.
Le teorie più importanti sul tentativo
Il concetto moderno di tentativo[1] è stato indicato per la prima volta dai giureconsulti italiani del medioevo che ravvisarono nella figura incriminatrice in esame il concetto latino “cogitare, agere, sed non perficere”.
Tale concezione è stata riportata nel nostro codice penale nel primo comma dell’art. 56 c.p. secondo cui:
“Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
Occorre precisare che nella sua struttura, il tentativo si presenta in maniera completa sotto il profilo dell’ elemento soggettivo, il quale ha come presupposto il dolo[2], e in maniera incompleta sotto il profilo oggettivo, in quanto l’ipotesi delittuosa delineata dal legislatore si è verificata solo in parte.
Secondo un’autorevole dottrina[3], il tentativo può manifestarsi sotto un duplice aspetto:
- Tentativo incompiuto: il caso in cui il ladro, sorpreso mentre sta scassinando la porta, fugge via.
- Tentativo compiuto: si pensi al caso in cui il soggetto attivo spara un colpo di pistola che va a vuoto contro il soggetto passivo.
In sintesi, nel primo caso il tentativo è incompiuto perché il ladro non ha acquisito l’impossessamento del bene ai fini della configurazione del furto. Nella seconda ipotesi invece non si è verificato l’evento morte in seguito all’azione dolosa commessa dall’agente. Occorre altresì precisare che queste due forme di tentativo le ritroviamo nell’art. 56 c.p. nella parte in cui recita “se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
Pertanto, le sottese difficoltà anticipate in fase introduttiva le si rinviene nei due requisiti aggiuntivi per la sua configurabilità enunciate dall’art. 56 c.p :
- Gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto
- L’idoneità degli atti.
Prima di esaminare questi due requisiti, è necessario affrontare preliminarmente la ratio sottesa alla punizione del tentativo nonostante la sua parziale oggettività.
Perché il tentativo è punibile?
Un’autorevole dottrina[4], ha ritenuto che ciò che giustifica la punizione del reato tentato è la violazione volontaria di un precetto penale.
Secondo un altro Autore[5] invece il tentativo non è soltanto intenzione, ma intenzione manifestata; esso è un proponimento tradotto in un’azione che opera nel campo esteriore e come tale rilevante per il diritto che, per giunta, rivela un’individualità capace di ribellarsi alla legge.
Queste due enunciazioni si basano solo sul manifesto carattere antigiuridico del tentativo.
Per un terzo Autore[6], queste due posizioni dottrinali non sono sufficienti a fornire una spiegazione approfondita sulla ratio della punibilità del tentativo.
A modo di vedere di quest’ultima teoria, il presupposto dell’incriminazione del tentativo è da ravvisarsi non in un concetto generale della figura giuridica in esame bensì nell’analisi comparativa di ogni singolo reato che si manifesta nel caso di specie.
Occorre altresì precisare che la fattispecie di cui all’art. 56 c.p è un reato a sé stante che opera sempre affiancando un altro reato, precisamente un delitto. Nel tentato omicidio, per esempio, opera il combinato disposto di cui all’art 56 e 575 c.p.
Avendo chiaro questo concetto risulta di facile comprensione la teoria in esame, dalla quale si desume che la nozione di punizione del tentativo si può capire in base al modo in cui il legislatore ha creduto di configurare l’ipotesi astratta del singolo reato.
In sintesi riguardo la punibilità del tentativo che viene disciplinata dai commi successivi al primo nell’art. 56 c.p, vi sono svariate teorie, ma ciò che accomuna le diverse interpretazioni sta nel fatto che il tentativo è punibile sulla base del presupposto che in esso vi sono tutti caratteri antisociali anzidetti con l’aggiunta dei presupposti dell’idoneità e dell’univocità.
Univocità ed idoneità degli atti: quando sussistono
Sotto il profilo dell’univocità, la difficoltà sta nel rispondere al quesito “quando un atto può essere considerato diretto in modo non equivoco a commettere un delitto?”
Un noto Autore[7] è stato indotto ad interpretare il requisito dell’univocità sulla base dell’intenzione criminosa, consistente in un mero fatto psichico che non può essere accertato direttamente ma desunto principalmente dal comportamento esteriorizzato dal soggetto.
Per contro, un autorevole dottrina[8] ha ritenuto non accoglibile questa soluzione trattandosi di un mero dato soggettivo “se il legislatore l’avesse ritenuta sufficiente avrebbe usato l’espressione: atti diretti a commettere un delitto.”
Le parole del codice pronunciate nella disposizione “atti diretti in modo non equivoco” hanno invece un evidente carattere oggettivo dell’azione. Pertanto, secondo questa teoria, se l’univocità consiste in una condotta oggettiva del reo è necessario che sia posta in essere un’azione che, secondo l’id quod plerumque accidit, non viene compiuta se non per commettere quel dato fatto criminoso”[9].
Il requisito dell’univocità oggettiva importa che l’azione abbia avuto determinate condizioni:
- La chiara evidenza del fine a cui tende l’azione
- L’esclusione di un’apprezzabile probabilità che il reo desista dal condurla a termine
Sotto il profilo dell’idoneità degli atti, va precisato che, secondo l’Antolisei, il tentativo è punibile perché alla sua base vi è la radice di una forte probabilità di pericolo.
Di conseguenza il requisito dell’idoneità, tassativamente richiesto dal codice, deve considerarsi sussistente in tutti quei casi in cui il soggetto attivo ha agito con un piano criminoso che esteriormente presentava buone probabilità di successo.
Secondo un processo induttivo, l’Autore ha ritenuto quindi che il giudizio sull’idoneità non debba essere formulato ex post, alla stregua delle singole circostanze esistenti nel caso di specie, ma per mezzo di un giudizio ex ante.
“Il magistrato in altre parole, deve riportarsi al momento in cui l’azione è stata posta in essere, ed esprimere il giudizio tenendo conto delle circostanze che in quel momento potevano essere conosciute. Egli riterrà idonea l’azione quando, sulla base di tali elementi, si presenta adeguata rispetto al risultato a cui era diretta: la riterrà inidonea negli altri casi.”
È interessante notare inoltre come questa teoria abbia trovato forma nella recente sentenza della Cassazione, secondo cui:
“In tema di delitto tentato, l’accertamento della idoneità degli atti deve essere compiuto dal giudice di merito secondo il criterio di prognosi postuma, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni prevedibili del caso”[10].
Qualora manchi il requisito dell’idoneità dell’azione si ha la figura giuridica di cui all’art. 49 c.p, definita “reato impossibile”.
Nel secondo comma il codice recita:
“la punibilità è altresì esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.
Il classico esempio di scuola del reato impossibile è la condotta del soggetto attivo volta ad uccidere il soggetto passivo mediante la somministrazione di acqua e zucchero invece che di veleno.
Occorre altresì precisare che il terzo comma dell’art. 49 c.p prevede che se nonostante il tentativo non sia configurabile per i motivi suesposti, concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilità per il reato effettivamente commesso.
Orientamento giurisprudenziale
Alla luce di quanto espresso sin ora, a parere di chi scrive, è necessario estrapolare a questo punto due fattori:
- La forte probabilità del pericolo scaturente dalla condotta
- Il giudizio ex ante operato dal giudice per la valutazione dell’univocità degli atti.
A mio modo di vedere, questi due elementi, inglobati dagli autori nel vasto oceano della dottrina, rappresentano i punti cardine su cui la giurisprudenza ha orientato la sua posizione. Infatti è possibile notare come in una recente pronuncia la Cassazione ha enunciato che:
“nell’ottica dell’art 56, gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori ed atti esecutivi, poichè ciò che assume significato è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso nonchè la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta“[11].
In questo contesto la Cassazione supera la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi poiché ciò che veramente rileva è l’idoneità e l’univocità da valutarsi con giudizio ex ante in base alle circostanze del caso di specie.
Sempre nella stessa sentenza, la Cassazione continua “ai fini del delitto tentato, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi cioè affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo.”
Risulta evidente come la seconda condizione sulla probabilità del pericolo ricavata dalla dottrina si faccia strada in questa massima. La quale, insistendo nel superamento della bipartizione tra atti preparatori ed esecutivi, pone in rilievo il fattore che la condotta criminosa possa essere presa in considerazione ai fini della configurabilità del tentativo, dal momento in cui sia iniziata la sua attuazione con la significativa probabilità di conseguire lo scopo criminoso.
Pertanto a conferma di questa analisi risultano innumerevoli le recenti sentenze che seguono questo orientamento giurisprudenziale.
Conclusioni: la giurisprudenza può esistere senza la dottrina?
In conclusione, consapevoli delle difficoltà interpretative inerenti al delitto tentato siamo partiti dalla struttura normativa, abbiamo affrontato l’analisi relativa alla ratio della punibilità del tentativo per poi soffermare l’attenzione sulla dottrina.
Gli Autori ci hanno indicato la strada e i principi su cui la Cassazione ha soffermato il proprio orientamento giurisprudenziale che ha fornito infine la chiave di volta.
Alla luce di quanto appena esposto mi preme sottolineare una mia posizione che ritiene la dottrina essere anticipatrice alla giurisprudenza, anche nel mondo dei pratici i quali lamentano costantemente che nei libri dei giuristi non si trova mai niente.
Giungo al termine di questo mio breve scritto facendo mie le parole del Siniscalco il quale recita “nessuna luce per la risoluzione dell’ardua questione può trarsi dalla giurisprudenza, la quale, priva di un chiaro indirizzo, è quanto mai incerta ed oscillante”.
Informazioni
Cavallo, Il delitto tentato, p. 58
Antolisei, Manuale di diritto penale, p. 487
Manzini, Trattato, vol II, p. 537
Maggiore, Diritto penale, p. 414
Carrara, Programma, p. 358
Scarano, Il tentativo, p.7
http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
Cass. pen. Sez II, 12/07/2019. n 36311
Cass. pen. Sez V, 20/05/2019. n 33497
[1] Cavallo, il delitto tentato, p. 58
[2] Per approfondimenti sul dolo si consiglia: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
[3] Antolisei, Manuale di diritto penale, p. 487
[4] Manzini, Trattato, vol. II, p. 537
[5] Maggiore, Diritto penale, p. 414
[6] Antolisei, Manuale diritto penale, p. 500
[7] Carrara, Programma, p. 358
[8] Scarano, il tentativo, p. 7
[9] Cavallo, il delitto tentato, p. 58,
[10] Cass. pen. Sez II, 12/07/2019. n 36311
[11] Cass. pen. Sez V, 20/05/2019. n 33497
Il dolo d'impeto: brevi cenni
Quei moti dell’animo e il dolo d’impeto
Conosci te stesso
“Conosci te stesso”. Queste parole erano incise presso l’ingresso del tempio di Delfi, sede dell’oracolo caro ad Apollo. Parole apparentemente semplici ma profonde a cui da migliaia di anni l’uomo tenta di dare un significato, forse per trovare una spiegazione a quei moti dell’animo che scaturiscono da una forza interiore motrice e misteriosa che a volte sembra irrefrenabile, le passioni. Si parlerà in questo articolo di dolo d’impeto.
Non è un caso che nel poema omerico Odisseo frenava l’impeto del proprio cuore vedendo con gli occhi la casa saccheggiata dai nemici e la propria sposa costantemente assediata, riuscendo solo mediante la fredda gestione delle proprie emozioni ad ottenere la vittoria finale. Mentre Achille, la cui “ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei, si ritrovò nell’ade a dire piangente “Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba; piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.” Ulisse, umano e fragile, trasformato in vecchio da Atena, riuscì a vincere le passioni e a rivedere finalmente la luce. Achille, figlio della dea Teti, quasi immortale, incontrollabile, si ritrovò sconfitto a rimpiangere la vita nell’ade.
Cos’è dunque il dolo d’impeto, inteso come elemento soggettivo del reato, se non un moto irrefrenabile dell’animo umano scaturito dalle passioni?
Dolo d’impeto: la dottrina
Dalla definizione di un autorevole dottrina[1], il dolo è costituito dal concorso di due elementi:
- Il momento intellettuale, inteso come la rappresentazione anticipata del fatto che costituisce il reato.
- Il momento volitivo, quale sforzo del volere diretto alla realizzazione del fatto rappresentato.
L’art. 42 c.p., oltre a ribadire il principio di legalità, precisa che nessuno può essere punito se non ha commesso il fatto con “coscienza e volontà”. Su queste due parole la dottrina ha ampiamente dibattuto per risolvere il nodo interpretativo che si viene a creare.
Interessante lo studio degli atti automatici positivi o negativi che secondo l’Autore[2], vanno distinti in due gruppi
- Atti che possono essere impediti dalla volontà mediante i suoi poteri d’arresto e di impulso.
- Atti che si svolgono al di fuori di ogni possibile controllo del volere.
Orbene soltanto i primi possono essere presi in considerazione ai fini della configurazione del dolo. Esso, proprio per il diverso atteggiarsi della previsione e della volontà, non assume sempre la stessa veste in quanto possono configurarsi diversi profili.
Uno di questi è il dolo d’impeto. Si tratta di una forma di dolo che si verifica quando il delitto viene commesso per una volontà improvvisa. Viene considerato, ai fini della valutazione dell’intensità del dolo, come la forma meno grave in contrapposizione alla premeditazione che costituisce una delle aggravanti ai sensi dell’art. 577 comma 3, c.p.
Per la premeditazione occorre[3]:
- un intervallo temporale ampio tra l’insorgere e l’esecuzione del proposito criminoso,
- un consolidamento determinato da una ponderata riflessione e
- una persistenza, tenace ed interrotta.
Contrapposta alla premeditazione vi è lo stato d’ira, considerato dall’ art 62 c.p come una delle circostanze attenuanti generiche.
Dal confronto di queste due disposizioni, a parere di chi scrive, verrebbe da pensare che il legislatore abbia in qualche modo considerato l’azione umana scaturita da un moto interiore irrefrenabile come una condotta ad antigiuridicità attenuata, nonostante l’applicazione della pena.
Furor brevis est: la giurisprudenza
Lo stato d’ira, secondo Cicerone ha una natura temporanea molto breve, “è una perturbazione dell’animo destinata a placarsi”. Una forza misteriosa capace di ottenebrare la ragione per un breve arco temporale prima di rilasciare lo spazio alla lucidità mentale. Seneca nel “De ira” la classifica come la peggiore delle passioni. Secondo Orazio “furor brevis est”.
La improvvisa determinazione del volere che caratterizza il dolo d’impeto si traduce in una compatibilità tra questo e lo stato d’ira. Come riconosciuto in un caso di omicidio scaturito da infedeltà coniugale nel quale il dolo d’impeto ha costituito risposta immediata ad uno stimolo esterno senza alcuna programmazione preventiva, si è avuta una riduzione della pena in quanto secondo gli ermellini l’assassino uccise per un impeto di rabbia, un’esplosione d’ira[4].
Una storica pronuncia della Cassazione, richiamando sostanzialmente le intuizioni di Cicerone e Orazio, ha affermato che: “In tema di omicidio volontario, l’immediata e spontanea opera di soccorso della vittima da parte dell’agente non è di per sé incompatibile con l’intenzione di uccidere. Tale incompatibilità nella comune esperienza non esiste affatto quando l’azione è determinata da uno stato d’ira e sorretta da un dolo d’impeto, che facilmente si risolve e lascia spazio alla pronta risipiscenza non appena si manifestino le conseguenze negative della condotta.“
Inoltre, una recente sentenza[5] ha riaffermato i requisiti che occorrono ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione sulla base dell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale.
Gli elementi devono essere:
- lo “stato d’ira“, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il “fatto ingiusto altrui”;
- il “fatto ingiusto altrui”, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale;
- un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta.
Per motivi di completezza va specificato che secondo la Suprema Corte[6] l’attenuante in oggetto, pur non richiedendo i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, non sussiste ogni qualvolta la sproporzione fra il fatto ingiusto altrui e il reato commesso sia talmente grave e macroscopica da escludere o lo stato d’ira ovvero il nesso causale fra il fatto ingiusto e l’ira.
Compatibilità del dolo d’impeto con le aggravanti dei motivi abietti e futili
Utile anche considerare che gli stati emotivi e passionali, ai sensi dell’art. 90 c. p, non incidono sull’imputabilità del soggetto attivo. Essi, secondo un’autorevole dottrina, attenuano l’intensità del dolo, i quali possono anche essere interpretati come un segno di maggiore pericolosità del reo a delinquere[7] (per esempio gli psicopatici esplosivi[8]).
Inoltre occorre rilevare in punto di compatibilità del dolo d’impeto con le aggravanti dei motivi abietti o futili che la Corte di Cassazione ha statuito, in una storica sentenza che ha avviato un orientamento consolidato dalle successive pronunce, che “per l’introiezione delle condizioni soggettive che integrano la circostanza dei motivi abbietti e futili, peraltro preesistenti in forza del comportamento eventualmente antecedente del soggetto nei confronti della vittima, sia sufficiente che l’agente ne percepisca in modo cosciente la sussistenza o meglio la persistenza. In altri termini, “l’aver agito per motivi abbietti o futili” – richiesto dalla norma in esame – non impone una puntuale e diversa intenzionalità specifica, ma è adeguatamente sostenuto dalla mera coscienza del permanere delle condizioni, dell’atteggiamento costituente il motivo abbietto o futile. Tale sussunzione psicologica, poiché all’evidenza non necessita di meditazione e ricerca, nè di tempi lunghi, ma si concentra nella mera rappresentazione delle ridette condizioni, è dunque pienamente compatibile in astratto anche con quella risposta immediata o quasi immediata in cui si risolve il dolo d’impeto”[9]. (Cass. pen, sez I, 28/05/2009, n. 24894).
In sintesi, la sussumibilità sotto il profilo della compatibilità del dolo d’impeto con i motivi abietti o futili di cui all’art 61 c.p. è da rinvenire nell’indole del soggetto attivo che potrebbe essere potenzialmente pericolosa tale da indurlo a compiere atti criminosi al verificarsi di una condizione futile o abietta.
In conclusione
Le osservazioni fin qui svolte sul dolo d’impeto quale affascinante figura soggettiva e le sue compatibilità con le attenuanti e aggravanti previste dal codice penale, possono essere considerate come punto d’avvio per una più attenta e articolata analisi della pena e della sua concreta capacità rieducativa con riferimento alla specifica condotta delittuosa.
Informazioni
F. Antolisei, Manuale di diritto penale;parte generale, Giuffrè, p. 363, 2003.
F. Mantovani, Diritto penale, CEDAM, p. 334
Cass pen, sez I, 26/02/2019, n. 35991
Cass pen, sez 5, 14/11/2003, n. 604
Cass. pen, sez I, 28/05/2009, n. 24894
Blog “arte di salvarsi” https://artedisalvarsi.wordpress.com/2018/02/19/il-terra-terra-degli-psicopatici-quotidiani-parte-ii/
[1] F. Antolisei, Manuale di diritto penale;parte generale, Giuffrè, p. 363, 2003.
[2] Idem
[3] F. Mantovani, Diritto penale, CEDAM, p. 334
[4] Cass pen, sez I, sent 24 febbraio 2015, n. 8163
[5] Cass pen, sez I, 26/02/2019, n. 35991
[6] Cass pen, sez 5, 14/11/2003, n. 604
[7] F. Mantovani, Diritto penale, CEDAM, p.333
[8] Soggetti con scatti di rabbia immediati e frequenti. https://artedisalvarsi.wordpress.com/2018/02/19/il-terra-terra-degli-psicopatici-quotidiani-parte-ii/