Responsabilità del vettore

La responsabilità del vettore nel trasporto di cose

La responsabilità del vettore nel trasporto di cose: breve introduzione al contratto di trasporto e analisi della responsabilità del vettore alla luce degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di responsabilità del debitore

 

Introduzione: il contratto di trasporto

Per introdurci alla disamina della responsabilità del vettore nel trasporto di cose è opportuno analizzare brevemente il contratto di trasporto.

La nozione di contratto di trasporto è contenuta dal nostro Codice civile nel Libro IV, titolo III, capo VIII “Del trasporto”, all’art. 1678, che recita:

Col contratto di trasporto, il vettore si obbliga, verso un corrispettivo, a trasferire persone o cose da un logo a un altro”.

 

Alla diversa natura dell’oggetto del trasporto si collega la distinzione tra due sottotipi cui la legge ha riservato apposita disciplina:

  • il trasporto di persone (artt. 1681-1682 c.c.) e
  • il trasporto di cose (artt. 1683-1702 c.c.).

 

Risulta opportuno precisare che il contratto di trasporto appartiene alla tipologia dei c.d. contratti d’opera ed è, in generale, un contratto consensuale ad effetti obbligatori; inoltre, benché nella sua definizione codicistica si faccia esplicito riferimento al requisito del “corrispettivo”, l’opinione prevalente tende ad escludere che l’onerosità sia un elemento indefettibile di tale rapporto, che di conseguenza può essere anche gratuito e talvolta di mersa cortesia[1].

 

Gli obblighi (in generale) del vettore

Il vettore deve adempiere all’obbligazione di trasporto mettendo le cose a disposizione del destinatario “nel luogo, nel termine e con ne modalità indicate dal contratto o, in mancanza, dagli usi” (art. 1687, comma 1, c.c.). Se la riconsegna non deve eseguirsi presso il destinatario, il vettore deve dargli prontamente avviso dell’arrivo delle cose trasportate (art. 1687 comma 2, c.c.).

La responsabilità del vettore rileva anche in caso di perdita o di avaria delle cose che gli sono consegnate per il trasporto, dal momento in cui le riceve a quello in cui le riconsegna al destinatario. I rischi afferenti le merci gravano dunque su di egli, salvo che non provi che la perdita o l’avaria siano derivate da caso fortuito, dalla natura o dai vizi delle cose stesse, dal loro imballaggio o, ancora, da fatto imputabile al mittente o al destinatario.

Le parti possono pattiziamente stabilire presunzioni sul caso fortuito per eventi che normalmente, in relazione alle condizioni e ai mezzi del trasporto, possono discenderne. La giurisprudenza tuttavia accoglie una nozione di caso fortuito assai restrittiva, da valutarsi sulla base di una prudente valutazione qualificata in ossequio ai canoni di diligenza di cui all’art. 1176 c.c., tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e delle possibili misure idonee ad elidere od attenuare il rischio del danno o della perdita del carico.

 

Inadempimento o impossibilità della prestazione

Come per ogni contratto, in termini generali, l’art. 1218 c.c. costituisce la norma centrale in tema di responsabilità da inadempimento. La norma stabilisce che “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno”.

Da una prima lettura del testo viene in rilievo che l’obbligo di risarcire il danno segue ad ogni inesattezza nell’esecuzione della prestazione dovuta, e questo non solo nel caso di inadempimento, ma anche nei casi in cui la prestazione eseguita risulti inesatta.

La norma prosegue stabilendo che la responsabilità e il conseguente risarcimento del danno siano di norma addebitabili al debitore salvo che non provi “che l’inadempimento o il ritardo siano causati da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Viene dunque in rilievo la necessità di capire quando c’è responsabilità e cosa sia l’impossibilità.

Per fare ciò è possibile mettere in luce due prospettive che hanno orientato il dibattito in materia di responsabilità c.d. contrattuale, nonché una terza elaborata a partire dagli anni ’80 da Luigi Mengoni, che si colloca a cavallo tra le precedenti due:

  1. Impossibilità oggettiva assoluta, è molto probabilmente la tesi che ha mosso il legislatore nel 1942 e ricalca letteralmente il modo di intendere le responsabilità alla luce del disposto dell’art. 1218 c.c.: il debitore può essere liberato solo da una impossibilità oggettiva e assoluta. Vi è l’idea che il debitore possa liberarsi soltanto provando una impossibilità derivante da fatti che esulano totalmente dalla sua sfera di controllo, si libera solo se prova il caso fortuito o la forza maggiore che hanno avuto come conseguenza l’inadempimento. Si tratta di una tesi molto rigorosa che si radica su un’idea forte del rapporto obbligatorio e della posizione del creditore rispetto al debitore.
  2. Impossibilità dovuta a colpa, tesi sostenuta da parte della dottrina[2], opposta alla precedente, che propone una lettura dell’art. 1218 c.c. alla luce di quanto disposato dall’art. 1176 c.c., che, obbligando il debitore al rispetto del canone di diligenza, configura per converso, la colpa quando tale canone viene violato. L’effetto di una simile impostazione è il rischio di un indebolimento del vincolo giuridico che lega le parti, cioè il rischio che la stabilità del rapporto possa vacillare in quanto potrebbe astrattamente sempre ipotizzarsi un tentativo del debitore di liberarsi dall’obbligazione assumendo una qualche difficoltà nell’esecuzione della prestazione.
  3. Impossibilità oggettiva e relativa, tesi di ispirazione tedesca che propone una lettura sistematica degli artt. 1218 e 1176 c.c. per cui, è necessario conservare una componente oggettiva della responsabilità imposta dall’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone l’oggettività connotante l’impossibilità della prestazione, a tal fine continuando a muoversi nell’ambito di una responsabilità contrattuale che non può fondarsi esclusivamente sulla colpa; al contempo, tuttavia, si sostiene che occorra modulare in modo più elastico il giudizio di responsabilità, in quanto vi sarebbero una serie di casi in cui il dato oggettivo non atterrebbe alla sfera interna dell’organizzazione di impresa del debitore. Da qui il motivo per cui la tesi viene definita oggettiva e relativa: si conserva una natura non strettamente colposa della responsabilità da inadempimento modulando il giudizio sulla c.d. oggettiva possibilità prestatoria. Alla luce di tale ricostruzione logica possiamo dire che la prestazione oggetto dell’obbligazione non si qualifica in termini astratti e assoluti, ma si identifica nella concretezza della fonte di quell’obbligazione che da contenuto alla prestazione oggetto dell’obbligazione stessa.

 

(Segue) La responsabilità del vettore

In virtù di tale ultima tesi (impossibilità oggettiva e relativa) è stata letta la responsabilità del vettore nel trasporto di cose.

Sul punto la ormai pacifica giurisprudenza[1] è orientata nel ritenere che poiché l’art. 1218 c.c. pone espressamente a carico del debitore la prova che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, la generica prova della diligenza non può essere sufficiente ad esonerarlo da responsabilità, essendo necessario dimostrare lo specifico impedimento che ha reso impossibile la sua prestazione o, quanto meno, dimostrare che questo non sia in alcun modo a lui imputabile.

Il debitore dovrà dunque dimostrare la propria assenza di colpa e l’uso della diligenza spiegata per rimuovere gli ostacoli frapposti da altri all’esatto adempimento.

Per capire tale orientamento si prenda ad esempio un soggetto che si obbliga a trasportare merci avendo stipulato un contratto con un contenuto determinato: la ditta Alpha trasporterà un certo tipo di beni da Roma a Milano entro l’arco di una giornata e sarà onerata di sostenete i costi del carburante e del trasporto. Poniamo ora che tale pattuizione divenga impossibile, nei limiti di quanto stabilito, per un’improvvisa chiusura autostradale. La questione che viene in rilievo è: si può ancora affermare che l’esecuzione della prestazione sia possibile e, soprattutto, rispondente a quella dedotta in obbligazione? Evidentemente l’improvvisa chiusura autostradale inciderà oggettivamente sui tempi e sui costi di trasporto, dunque la prestazione non sarà più possibile secondo quanto dedotto ma risulterà comunque materialmente eseguibile, a patto che siano spese risorse maggiori e che sia impiegato del tempo in più. La questione che si pone allora è: il debitore è ancora tenuto a eseguire la prestazione? E, di conseguenza, potrà essere ritenuto responsabile per inadempimento nonostante l’impossibilità oggettiva sopravvenuta della prestazione?

Sulla base di quanto sostenuto da dottrina e giurisprudenza la società Alpha non potrà essere ritenuta responsabile per il mancato trasporto delle merci da Roma a Milano in quanto, evidentemente, l’evento che ha reso impossibile la prestazione non poteva essere in alcun modo previsto e superato usando gli ordinari canoni di diligenza. Lo specifico impedimento – il blocco autostradale – non essendo in alcun modo imputabile alla società di trasporto potrà dunque essere allegato per provare ogni assenza di responsabilità del vettore. Tuttavia quest’ultimo per far fronte alle circostanze sopravvenute sarà onerato di chiedere istruzioni al mittente, provvedendo nel frattempo alla custodia delle cose. Il mittente potrà, a questo punto, apportare modifiche al contenuto del contratto (indicando ad esempio percorsi di viaggio alternativi) in modo da impedire la sua risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.).

 

Conclusioni

In conclusione possiamo dunque affermare che la responsabilità del vettore nel trasporto di cose è una responsabilità presunta.

La tesi dell’impossibilità oggettiva e relativa è quella che meglio riesce a coniugare le norme ex artt. 1218 e 1176 c.c., con quest’ultima che viene identificata nello sforzo richiesto al debitore per superare le ragioni di difficoltà nell’esecuzione della prestazione; al contempo, l’obbligazione non impone al debitore di andare oltre il concetto di possibilità della prestazione rispetto a quanto dedotto in obbligazione.

Informazioni

U. BRECCIA e altri, Diritto Privato, Tomo secondo, UTET Giuridica, 2014;

M. BIANCA, Diritto Civile V, La responsabilità, Giuffrè Francis Lefebvre, 2015

[1] Elementi diversi da quanto invece previsto dal contratto di deposito in albergo e della responsabilità dell’albergatore: per un approfondimento su questo contratto rimando a Il contratto di deposito in albergo – DirittoConsenso.

[2] v. in particolare, M. BIANCA in Diritto Civile V., La responsabilità

[3] v. Cass. 17/05/2002 n. 7214; Cass. 05/08/2002 n. 11717


Sanzioni amministrative

Illeciti e sanzioni amministrative: evoluzione e problematica

Breve analisi dell’evoluzione giuridica degli illeciti e delle sanzioni amministrative alla luce dei dettami provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo

 

Introduzione alle sanzioni amministrative

L’illecito amministrativo si configura quando un soggetto viola una disposizione di legge. Tale violazione tuttavia viene ritenuta dall’ordinamento “meno grave” e dunque passibile di essere punita mediante una sanzione amministrativa.

L’illecito amministrativo si differenzia dall’illecito penale sulla base di una valutazione di pericolosità del soggetto agente. Laddove vi sia un maggior allarme sociale, l’ordinamento punisce la condotta del reo in modo più “forte”, sussumendola per tale ragione in una fattispecie di reato; laddove invece si ravvisi una minore pericolosità sociale il legislatore punisce la condotta dell’agente per il mezzo di sanzioni di tipo amministrativo.

Per esempio: sono illeciti penali il furto, la rapina, il peculato, il sequestro di persona, la violenza sessuale, l’omicidio; sono considerati illeciti amministrativi le violazioni del Codice della Strada[1] oppure, salvo le ipotesi di reato, le violazioni di quanto disposto dal T.U.L.P.S. (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza[2]).

 

La disciplina nazionale delle sanzioni amministrative

Nell’ordinamento italiano non esiste una nozione positiva di “sanzione amministrativa”, per diverso tempo il suo inquadramento concettuale è stato oggetto di disputa.

A tal proposito si è lungamente dibattuto se la sanzione amministrativa appartenesse al campo delle sanzioni in senso tecnico, volte ad assicurare la cura di un interesse pubblico mediante l’adozione di un provvedimento amministrativo; o se fosse invece considerabile un istituto accessorio all’esercizio della funzione amministrativa, da inquadrare nel campo della tutela di un interesse già individuato dal legislatore in sede di configurazione della fattispecie.

A cercare di mettere ordine, nel tentativo di realizzare un intervento organico di depenalizzazione, è intervenuto il legislatore con la L. n. 689/1981[3] recante lo statuto delle sanzioni amministrative. Il risultato di tale intervento legislativo è stata la creazione di una sorta di cesura nel nostro ordinamento tra:

  • Sanzioni pecuniarie in “senso stretto” considerate come misure afflittive pecuniarie alle quali fu applicato lo statuto giuridico tipico del sistema penale, recante garanzie procedimentali tipiche (colpevolezza, tipicità, contraddittorio) e la cui giurisdizione fu rimessa al giudice ordinario;
  • Sanzioni rispristinatorio-interdittive “in senso lato” le quali differivano dalle prime sotto il profilo procedimentale, in quanto sottoposte alla L. n. 241/1990 perché considerate manifestazione tipica del potere autoritativo; sotto il profilo punitivo, perchè non sottoposte ai principi di legalità, tassatività e colpevolezza; ed infine sotto il profilo giurisdizionale, dal momento che la loro giurisdizione fu rimessa al giudice amministrativo, che esercitava su di esse un sindacato concepito sulla funzione amministrativa.

 

Gli interventi della Corte Edu

Questo assetto di divaricazione concettuale e giuridico-normativo tra sanzioni amministrative “in senso stretto” e sanzioni amministrative “in senso lato” è stato oggetto di diverse sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo[4] che, penetrando nel nostro ordinamento, hanno creato una vera e propria frattura sistemica nell’ambito di questo riparto.

In realtà la Corte Edu già a partire dal 1976 con la celebre sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi aveva già avuto modo di elaborare una più precisa e puntuale nozione sostanziale di pena per il tramite dell’elaborazione di tre criteri identificativi al fine di scongiurare che le principali garanzie dello statuto punitivo previste dalla CEDU (in particolare quelle previste dagli artt. 6[5] e 7[6]), fossero disapplicabili negli ordinamenti dei vari paesi per il mezzo di vaste operazioni di depenalizzazione, così dando vita a fenomeni di c.d. “truffa delle etichette”.

I criteri elaborati dalla Corte Edu (c.d. criteri Engel) si sostanziano in tre indici tra loro alternativi – pur potendo ricorrere congiuntamente – delle misure afflittive che proprio per la loro natura dovranno essere sottoposte alle garanzie della CEDU:

  1. Criterio formale della “rilevanza della qualificazione dell’illecito operata dall’ordinamento nazionale”. Si afferma che la CEDU estende il suo raggio applicativo a tutte le misure qualificate dagli ordinamenti nazionali come penali. Si tratta di un criterio formale, che recepisce la qualificazione interna nazionale.
  2. Criterio sostanziale “teleologico”. Indice che include nella nozione di pena in senso convenzionale tutte quelle misure votate ad una funzione punitivo-deterrente, che in quanto tali rientreranno nelle garanzie previste dalla CEDU.
  3. Criterio sostanziale della “gravità o severità del sacrificio imposto”. Qualora la misura non abbia una esclusiva finalità punitivo-deterrete ma ne possieda anche una ripristinatoria e/o di tutela dell’interesse pubblico, rientrerà nel campo delle garanzie CEDU qualora si caratterizzi per la sua severità o comunque imponga un sacrificio (personale o patrimoniale) al consociato.

 

Gli interventi della Corte Edu hanno dato vita ad una vera e propria decostruzione dello statuto giuridico delle sanzioni amministrative. L’effetto è stato quello di elevare le garanzie per esse previste così da includerle nell’orbita applicativa dello statuto della pena in tal modo accomunandole alle sanzioni penali.

La portata innovativa della giurisprudenza CEDU non si è limitata però all’imposizione di una prospettiva sostanzialistica, capace di attrarre tutte le sanzioni afflittive o comunque più simili al paradigma penalistico nel campo del penale. In realtà – e qui sta forse uno degli aspetti più innovativi – la CEDU ha imposto di far propria anche una nuova e ben più ampia nozione (sostanziale) di sanzione in senso stretto, ossia di sanzione che reclama, per il cittadino, pienezza di tutele.

Deve dunque qualificarsi come penale quella sanzione amministrativa che, ove anche presenti un contenuto e delle finalità non punitive in senso stretto, si caratterizzi per la gravità della punizione cui è sottoposto il consociato.

Detto in altri termini, un provvedimento dei pubblici poteri è considerabile sanzione penale quando, pur privo dei caratteri sostanziali tipici di quest’ultima, si caratterizza per l’elemento della gravità del pregiudizio inflitto quale conseguenza di un’accertata violazione normativa[7].

 

Le ripercussioni interne della giurisprudenza della Corte Edu

La giurisprudenza della Corte Edu in Italia ha trovato il suo principale strumento ricettivo nella Corte Costituzionale dinanzi alla quale sono state proposte una serie di questioni relative a fattispecie e sanzioni che, secondo il giudice rimettente, pur rientrando nella nozione di pena in senso convenzionale non erano destinatarie delle garanzie previste dalla CEDU.

Per capire la portata che i criteri sanciti dalla Corte Edu hanno avuto nel nostro ordinamento indagheremo in questa sede due corollari cardine del nostro sistema: il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in senso sfavorevole e il principio di colpevolezza, leggendoli alla luce del recepimento della giurisprudenza europea.

 

Divieto di retroattività

A partire dalla sentenza n. 196/2010, seguita dalla sentenza n. 104/2014, la Corte Costituzionale non solo ha fatto applicazione dell’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU per affermare che il legislatore in relazione ad una sanzione amministrativa quale la confisca (originariamente considerata sezione in senso lato) è tenuto a rispettare il divieto di retroattività della legge penale più sfavorevole[8]; ma ha anche operato una lettura retroattiva dell’art. 25, comma 2 Cost., che prima di allora veniva considerato precettivo solo con riguardo al sistema penale e che con tale pronuncia la Consulta ritiene sia riconducibile anche alle sanzioni amministrative aventi un particolare effetto afflittivo.

Viene dunque sancito che, anche con riferimento alle sanzioni amministrative in senso lato, venga introdotto il divieto di retroattività rispetto a condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge recante la sanzione.

È importante sottolineare come questa pronuncia abbia esteso tale principio anche alle sanzioni amministrative pecuniarie, le quali godevano del riconoscimento del divieto di irretroattività solo a livello di legislazione ordinaria ma non anche a livello costituzionale.

 

Principio di colpevolezza

La giurisprudenza della Corte Edu ha influito sullo statuto delle sanzioni amministrative e sul principio di colpevolezza con particolare riguardo alla misura della confisca urbanistica.

In passato era discusso se il giudice penale, nel procedere per il reato di lottizzazione abusiva, potesse disporre la confisca di immobili abusivi anche nel contesto di una intervenuta prescrizione.

Con le sentenze n. 239/2009 e n. 49/2015 la Corte Costituzionale ha ripreso quanto statuito dalla Corte Edu con la sentenza Sud Fondi Srl c. Italia del 2009 con la quale si era precisato che fosse possibile disporre una confisca urbanistica nel contesto di un procedimento penale che si fosse chiuso in rito, a condizione che il giudice avesse accertato in motivazione e con cognizione piena, la responsabilità del lottizzatore e dei terzi acquirenti in mala fede.

Si nota un’estensione delle garanzie proprie del principio in esame allo statuto della sanzione amministrativa. La Corte Edu ha ribadito che, ai fini dell’applicazione di una sanzione penale in senso convenzionale, la responsabilità del reo debba sempre essere fondata sull’accertamento di un coefficiente soggettivo di colpevolezza. Non sono più autorizzati automatismi sanzionatori.

 

Conclusioni

L’affermarsi della categoria della sanzione amministrativa “penale” è frutto della crescente interazione del contesto nazionale con quello europeo. Con il passare degli anni infatti le garanzie previste dalla CEDU sono gradualmente penetrate nel nostro sistema e con esse si è fatta largo la necessità di bilanciarle con i diritti e gli interessi costituzionalmente protetti.

Proprio grazie a tale interazione, in applicazione dei c.d. criteri Engel e di successivi ulteriori orientamenti, la Corte Edu è giunta a riconoscere la natura sostanzialmente penale di numerose sanzioni qualificate sul piano nazionale come formalmente amministrative, con la conseguenza di estendere ad esse le garanzie di cui agli artt. 6 e 7 CEDU.

Informazioni

FOCARELLI, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001.

[1] D.Lgs. n. 285/1992.

[2] R.D. 18.6.1931 n.773.

[3] G.U. LEGGE 24 novembre 1981, n. 689.

[4] Vedi Corte Edu, A e B c. Norvegia, 2016; Corte Edu, Sud Fondi Srl c. Italia, 2009; Corte Edu. Grande Stevens c. Italia, 2014.

[5] Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, TITOLO I, art. 6 “Diritto a un equo processo”.

[6]  Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, TITOLO I, art. 7 “Nulla poena sine lege”.

[7] Cfr. FOCARELLI, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001.

[8] Il principio di irretroattività nel diritto penale – DirittoConsenso.


Durata del contratto

Durata del contratto e disciplina del "termine"

È corretto parlare di durata del contratto? Se sì, quanto dura, o può durare, un contratto? Analizziamo la disciplina del termine dettata in materia dal Codice civile

 

Introduzione

Quando si parla di durata del contratto si fa implicitamente riferimento alla disciplina del termine contrattuale.

Le parti, in ossequio a quanto loro riconosciuto dall’ordinamento rispetto alla libertà di autodeterminazione del contenuto contrattuale (art. 1322 c.c.[1]), possono inserire un “termine” per determinare la durata del contratto o per pattuire entro quando dovrà essere adempiuta lobbligazione.

 

Natura e tipi di termine

Nel nostro ordinamento esistono due tipologie di termine che si distinguono a seconda della funzione ad essi attribuita:

  • Termine di adempimento, riferito al momento in cui dovrà essere eseguita l’obbligazione, artt. 1183 e ss. c.c. (es. Tizio concede in prestito a Caio una somma di denaro pattuendo che questa dovrà essergli restituita entro il 31 dicembre 2024);
  • Termine di efficacia, riferito al periodo in cui il rapporto dovrà produrre i suoi effetti (es. Tizio concede in locazione a Caio un appartamento dal 1° gennaio 2023 al 1° gennaio 2027). Tale tipologia di termine incide sulla durata del contratto e sui suoi effetti: se e da quando questi si produrranno (c.d. termine iniziale); se e da quando questi cesseranno di prodursi (c.d. termine finale).

 

Il termine di efficacia è ricompreso tra gli elementi accidentali del contratto insieme alla condizione (art. 1353 c.c.[2]) e al modus (onere gravante su un atto di liberalità a carico del beneficiario). Occorre precisare che il termine si distingue dalla condizione per la certezza dell’evento futuro cui è legato, consiste infatti in un evento futuro e certo dal quale dipende proprio l’efficacia del contratto o la sua cessazione.

Va precisato tuttavia che tale grado di certezza non esiste riguardo al momento in cui detto evento si verificherà. Per tale ragione possiamo distinguere tra:

  • Termine determinato: vi è certezza sul fatto che il termine giungerà e vi è certezza su quando giungerà (es. il 18 dicembre del 2023);
  • Termine indeterminato: vi è certezza sul fatto che il termine giungerà ma non vi è certezza su quando giungerà (es. il giorno della morte di Tizio).

 

Alla luce di tale classificazione in dottrina[3] si è sostenuto che il termine di efficacia possa essere o meno pattuito così come possa essere o meno determinato. Il termine di adempimento invece risulta essenziale rispetto ad unobbligazione: può essere o meno determinato, ma intrinsecamente esiste sempre. Non è infatti possibile immaginare un’obbligazione senza che questa porti all’esecuzione di quanto nella stessa dedotto. Diversamente, un’obbligazione siffatta sarebbe non solo priva di causa, ma anche inutile[4].

Le due tipologie di termine sino ad ora analizzate possono comunque coesistere all’interno dello stesso contratto. Si pensi ad un contratto di locazione in cui venga limitata la durata del rapporto per un certo periodo di tempo (termine di efficacia) e in cui siano fissati i termini di pagamento in determinate date prestabilite (termini di adempimento).

 

Termine: elemento essenziale o elemento accidentale del contratto?

Il termine, come già precisato, è ricompreso tra i c.d. elementi accidentali del contratto dal momento che la sua esistenza e la sua determinazione sono liberamente lasciate alla disponibilità delle parti.

Tuttavia c’è chi ha sostenuto che, in realtà, il termine sia da considerarsi elemento essenziale del contratto nonostante la sua mancata previsione nell’elenco di cui all’art. 1325 c.c. recante i requisiti (essenziali) del contratto.

Secondo tale interpretazione non potrebbe ipotizzarsi l’esistenza di un contratto a tempo indefinito. Ogni rapporto giuridico ha inevitabilmente un inizio e una fine e per alcuni il termine risulta caratterizzare l’intera fattispecie.

Si pensi all’usufrutto dove la temporaneità ai sensi dell’art. 979 c.c. c.1: “la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario” risulta caratterizzante la causa dell’intero istituto; o alla locazione[5] nella quale una parte si obbliga nei confronti di un’altra a far godere un bene mobile o immobile per un dato tempo e dietro corrispettivo determinato.

Pare allora corretto sostenere che il carattere della essenzialità del termine vada letto alla luce di quanto disposto dall’art. 1457 c.c. che recita:

Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne lesecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto si intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.

 

In tale ipotesi il Codice civile attribuisce rilevanza al termine con riferimento al suo mancato rispetto, in quanto costituisce elemento essenziale al soddisfacimento dell’interesse della controparte.

Tale assunto pare legittimare la qualificazione del termine quale elemento accidentale del contratto, che diventa tuttavia essenziale nel momento in cui le parti ne pattuiscono l’esistenza[6].

 

Conclusioni

Per rispondere dunque alla domanda: “quanto dura, o può durare, un contratto?” dobbiamo inevitabilmente fare riferimento alla c.d. autonomia contrattuale riconosciuta ai contraenti dal già citato art. 1322 c.c. Tale disposizione considera le parti libere di determinare il contenuto del contratto e le clausole che regoleranno il loro rapporto, nel rispetto dei limiti di legge.

Ciò significa che i contraenti hanno facoltà di pattuire liberamente il prezzo della cosa venduta, le modalità di esecuzione della prestazione, il tempo dell’esecuzione e, altresì, la durata del contratto.

Le parti dunque non devono necessariamente adottare i c.d. modelli contrattuali “nominati”, ma possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, elaborando così schemi di fatto non contemplati dalla legge ma che essi ritengano più confacenti alle loro esigenze[7].

Va precisato tuttavia che, in tale spazio di libertà contrattuale concesso ai contraenti, la bussola disciplinare deve inevitabilmente seguire le norme recanti le disposizioni sul contratto in generale.

Informazioni

Torrente – Schlesinger, Giuffrè Editore, ed. XXV, 2021;

Commentario breve al Codice Civile a cura di Giorgio Cian, CEDAM, ed. 2020;

Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999;

Enc. Dir., Giuffrè, 2015;

Banca dati De Jure.

[1] Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge [41 Cost.] e dalle norme corporative. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare [1323], purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

[2] Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro e incerto.

[3] Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999, p. 883 e ss.

[4] Cfr. voce Termine, in Enc. Dir., Giuffrè, 2015.

[5] http://www.dirittoconsenso.it/2022/03/22/introduzione-al-contratto-di-locazione/

[6] L’essenzialità è una caratteristica che deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto (Cass. 3710/2013).

[7] Torrente – Shelesinger, Giuffrè Editore, ed. XXV, 2021.