Le concessioni demaniali marittime: dibattito e (in)decisioni
Le concessioni demaniali marittime e il dibattito che ha interessato la materia, un lungo viaggio non ancora giunto a conclusione
Concessioni di beni demaniali e diritto di insistenza
Quando si parla di concessioni amministrative si fa riferimento a quelle ipotesi in cui l’amministrazione attribuisce a terzi, con il loro consenso, il godimento di utilità relative a beni pubblici, demaniali o patrimoniali. Si tratta di contratti attraverso i quali la pubblica amministrazione consente ai privati di esercitare diritti in ordine a beni e ad attività che sarebbero per loro indisponibili, in quanto sostanzialmente riservate ai pubblici poteri.
Esempio classico di concessione amministrativa è quella balneare, si tratta di un contratto stipulato tra un ente pubblico (concessionario) e un terzo (concedente, gestore) che prevede il diritto d’uso e sfruttamento, nei limiti tassativi di legge e dietro pagamento di un canone, di una zona litorale. La concessione balneare, va precisato, non ha necessariamente come finalità quella di creare uno stabilimento turistico. Ogni concessione può avere uso ricreativo, commerciale, industriale, dedicato alla pesca, alla ricerca o allo sviluppo del territorio.
Quanto specificato ci consente di inquadrare il problema relativo ai profili di frizione tra l’attuale quadro normativo (in attesa e, auspicata, evoluzione) e il principio di libera concorrenza, in particolare, rispetto alla disciplina del c.d. diritto di insistenza e, con specifico riferimento ai beni demaniali con finalità turistico-ricreative, al sistema del loro rinnovo automatico.
Occorre premettere che quando si parla di diritto di insistenza si fa riferimento alla posizione giuridica del concessionario ad essere preferito agli altri concorrenti nel momento in cui, scadendo la concessione, si deve procedere ad una nuova assegnazione.
Nel dettaglio, a proposito delle concessioni demaniali marittime, la previgente formulazione dell’art. 37 del codice della navigazione prevedeva che
“1. Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell’amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico.
2. Al fine della tutela dell’ambiente costiero, per il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime per attività turistico-ricreative è data preferenza alle richieste che importino attrezzature non fisse e completamente amovibili. È altresì data preferenza alle precedenti concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze.”.
A causa dell’evidente incidenza negativa sulla concorrenza il comma 2 della disposizione citata fu interpretato con particolare rigore dal Consiglio di Stato.
Attraverso un’interpretazione conforme al diritto comunitario, la giurisprudenza nazionale ha da sempre affermato che il concessionario di un bene demaniale non vanta un diritto al rinnovo del rapporto, sicché, qualora il diniego fosse stato conforme a ragionevolezza e, in tal guisa, l’amministrazione intendesse esperire una procedura competitiva, tale scelta non avrebbe necessitato di ulteriori precisazioni.
Si tendeva quindi, anche prima della parziale modifica dell’art. 37 cod. nav. ad opera dell’art. 1, comma 18, D.L. 30 dicembre 2019, n. 194, a privilegiare la gara e quindi a contenere il diritto di insistenza, in modo da garantire la libertà di circolazione, l’imparzialità, la trasparenza e, soprattutto, la libera concorrenza.
Problemi analoghi si sono posti anche in relazione al regime delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative per cui la normativa nazionale[1] prevedeva il rinnovo automatico di sei anni in sei anni, fatta salva l’ipotesi dell’eventuale insorgenza di situazioni che giustificassero la revoca, da parte della p.a., per specifici motivi inerenti al pubblico uso o per altre ragioni di pubblico interesse.
La normativa europea e le procedure di infrazione a carico dell’Italia
L’assetto così delineato ha cominciato ad essere messo in dubbio dalla famigerata direttiva[2] servizi 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein) che, sulla scorta di quanto già ribadito dalla giurisprudenza amministrativa nazionale, statuiva un principio importante: per il rilascio di nuove concessioni e per il rinnovo di quelle in scadenza si sarebbero dovute seguire e applicare le regole di evidenza pubblica, trasparenti e imparziali, che consentissero anche a nuovi operatori di concorrere, in posizione di parziale parità, per l’ottenimento della gestione dei beni demaniali.
Pertanto nel gennaio 2009 la Commissione Europea inviava all’Italia una lettera di messa in mora nella quale contestava la compatibilità delle norme nazionali, che prevedevano il diritto di insistenza e il rinnovo automatico delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, con i principi di libertà di stabilimento, partita di trattamento e non discriminazione sanciti dal TFUE e dalla direttiva Bolkestein.
Dopo l’invio, nel maggio 2010, di una ulteriore messa in mora complementare a carico dell’Italia dovuta al tentativo di “resistere” del nostro paese alle motivazioni addotte nella prima lettera dalla Commissione, il Parlamento, nel febbraio 2011, abrogava il diritto di insistenza e, nel dicembre 2011, abrogava anche la norma nazionale che prevedeva il rinnovo automatico delle concessioni di sei anni in sei anni. Questo allineamento nazionale conduceva, nel febbraio 2012, la Commissione ad archiviare la procedura di infrazione avviata quattro anni prima.
Tuttavia, con la stessa norma[3] con la quale il Parlamento aveva proceduto ad abrogare il diritto di insistenza, sancito dall’art. 37 del codice della navigazione, si decideva di prorogare fino al 31 dicembre 2025 la durata delle concessioni demaniali marittime non ancora scadute, annunciando altresì, una riforma generale del diritto marittimo che avrebbe dovuto consentire una conciliazione della materia con i diritti sanciti a livello europeo.
Con legge n. 221/2012, inoltre, il legislatore italiano statuiva una seconda proroga della durata delle concessioni, spostandola al 31 dicembre 2020 e motivandola con la dichiarata necessità di garantire, per il periodo intercorrente, l’operatività delle concessioni in essere e la necessità dello studio, con conseguente successiva emanazione, di una nuova disciplina organica della materia.
A mettere un primo punto fermo sul contenzioso apertosi in materia di concessioni demaniali tra Italia e Commissione Europea è stata la Corte di Giustizio dell’Unione Europea che, sulle proroghe indiscriminate e generalizzate, ha condannato il nostro Paese con la celebre sentenza “Promoimpresa” del 14 luglio del 2016.
Con tale pronuncia la CGUE ha ribadito la contrarietà ai principi di libera concorrenza, trasparenza e pubblicità della nostra disciplina nazionale.
L’importanza di tale approdo giurisprudenziale è stata incrementata dalla successiva sentenza del 30 gennaio 2018 emanata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia nella causa C-360/15 Visser. Con tale pronuncia la Corte di giustizia ha chiarito che tutte le disposizioni del capo terzo della direttiva Bolkestein, disciplinanti la libertà di stabilimento dei prestatori di servizi, compreso quindi l’art. 12, relativo alle autorizzazioni, “devono essere interpretate nel senso che si applicano anche ad una situazione i cui elementi rilevanti si collocano all’interno di un solo Stato membro”.
Così statuendo, la Corte ha esteso la platea dei potenziali controinteressati alla proroga automatica delle concessioni: non più qualche decina di operatori economici di altri Stati membri, ma a migliaia di imprese balneari italiane potenziali candidate alla concessione di un’area demaniale che si sono viste riconoscere dalla Corte UE il “diritto” ad una procedura pubblica di aggiudicazione della concessione stessa.
Nonostante il quadro europeo chiaro, evidentemente contrario agli indirizzi che il legislatore italiano negli anni ha provveduto a dare in materia di proroghe e concessioni demaniali, con la legge di bilancio per il 2019[4] è stata disposta l’estensione della durata delle concessioni demaniali marittime per 15 anni ovvero sino al 1° gennaio 2034.
Tale scelta è stata giustificata dalla finalità di assicurare la tutela e la custodia delle coste italiane, costituenti risorse basilari per il paese e, al tempo stesso, di proteggere l’occupazione e il reddito delle imprese balneari venutesi a trovare in situazione di grave crisi a causa dei consistenti danni patiti a seguito dei cambiamenti climatici e dei frequenti eventi calamitosi e straordinari.
Ancor più di recente, la legge 17 luglio 2020 n. 77 ha statuito che, ferma restando l’estensione di 15 anni delle concessioni, “per le necessità di rilancio del settore turistico e al fine di contenere i danni, diretti e indiretti, causati dall’emergenza epidemiologica da Covid-19”, le amministrazioni competenti non potranno avviare o proseguire procedimenti amministrativi per il rilascio o per l’assegnazione con procedure di evidenza pubblica delle aree che, alla data di entrata in vigore della legge (luglio 2020), siano già oggetto di concessione.
Dunque, il legislatore oltre a ribadire l’estensione della durata delle concessioni al 1° gennaio 2034 ha espressamente vietato, sino a quella data, ogni procedura pubblica concorrenziale.
Infine, il con il c.d “decreto agosto”[5], nel prevedere che l’estensione quindicennale si applichi anche alle concessioni lacuali e fluviali e alle concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture nautiche, la proroga è stata implicitamente ribadita anche per le concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo.
A rendere ancora più incerto e intricato il quadro complessivo, inoltre, è nuovamente intervenuta la Commissione Europea, la quale, nel dicembre 2020, ha avviato nei confronti dell’Italia un formale procedimento di infrazione, indirizzando al Ministero degli affari Esteri una lettera di costituzione in mora, nella quale si sostiene che anche l’estensione disposta dalla legge 145/2018 è in contrasto con il diritto europeo e con la sentenza della Corte Ue del 14 luglio 2016, ancora precisando il contrasto della disciplina interna con i principi di libera concorrenza e di libertà di stabilimento, ribadendo l’obbligo di assegnazione delle concessioni mediante procedure aperte, pubbliche, trasparenti e imparziali.
L’intervento europeo, che ha suscitato accese discussioni, ha comunque avuto l’effetto pratico di indurre molti dirigenti e funzionari comunali a rifiutare la formalizzazione dell’estensione, così da bloccare i relativi procedimenti di concessione.
Sul punto si registra una divergenza di opinione fra gli interpreti.
A titolo d’esempio, si consideri la sentenza n. 1742/2019 del Tar Catanzaro. Questa, nell’affermare l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di un’impresa balneare volta ad ottenere il riconoscimento della validità dell’estensione quindicennale, ha espressamente statuito la piena validità ed efficacia della normativa nazionale, ordinando al Comune di adottare i necessari atti conseguenti.
Tale tipo di impostazione non è rimasta isolata, infatti, anche il Tar Lecce, con due sentenze gemelle del novembre 2020, ha accolto il ricorso proposta da alcuni balenerai avverso i provvedimenti del Comune di appartenenza che avevano provveduto, seguendo gli indirizzi di derivazione europea, ad annullare l’estensione delle concessioni in precedenza rilasciati.
Dubbi e contrasti: l’intervento delle Plenarie 17 e 18/21 del Consiglio di Stato
Nel districato e complesso quadro sin qui delineato, con due sentenze gemelle fondamentali[6] l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta mettendo la parola fine – sarà davvero così? – al regime delle proroghe indiscriminate delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali.
Le due sentenze citate hanno sancito:
- la natura self-executing della direttiva Bolkestein e, pertanto, la sua diretta applicazione nel sistema normativo nazionale italiano;
- la preclusione della sussistenza del diritto alla prosecuzione del rapporto in capo agli attuali concessionari, per evidente contrasto con la disciplina comunitaria dei provvedimenti amministrativi concessori;
- una proroga sino al 31 dicembre 2023 delle concessioni in essere al fine di evitare un significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una loro immediata cessazione.
In questa sede è utile, tuttavia, analizzare nello specifico le repliche che la Plenaria espone rispetto agli argomenti di critica utilizzati nei rispettivi ricorsi.
Con riferimento all’art. 49 TFUE (recante il divieto delle restrizioni alla libertà di stabilimento) veniva messo in discussione la mancanza del requisito, nel caso di specie, dell’interesse transfrontaliero certo.
E ancora, con rispetto alla direttiva Bolkestein, si riteneva che non potesse essere qualificata come autorizzazione di servizio la concessione demaniale marittima e che questa, inoltre, non si potesse qualificare come una risorsa naturale scarsa. Ciò in quanto, l’art 12 della Direttiva ritiene che quando il numero di autorizzazioni per un determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali, gli stati membri possano procedere attraverso una procedura di selezione con garanzie di pubblicità e trasparenza.
La replica della Plenaria a tali critiche muove dalla considerazione che l’interesse transfrontaliero certo sussista, nelle ipotesi in esame, sulla base della considerazione che non si debba considerare la singola controversia, il singolo oggetto della vertenza, ma più complessivamente la risorsa oggetto di considerazione.
Il patrimonio costiero nazionale italiano infatti viene a costituire un bene di particolare rilevanza anche dal punto di vista della tutela della concorrenza e della libera circolazione in quanto tale patrimonio esercita un’indiscutibile capacità attrattiva verso le imprese di altri stati membri.
Il Consiglio di Stato evidenzia che, in ogni caso, la disciplina automatica di rinnovo delle concessioni si pone in contrasto con la direttiva 123/2006 Bolkestein, la quale prescinde dal requisito dall’interesse transfrontaliero certo.
A tal proposito, la Direttiva servizi è una c.d. direttiva di liberalizzazione, la cui disciplina è volta ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di circolazione, garantendo quindi l’implementazione del sistema concorrenziale. Suo obiettivo primario non è quello di armonizzare le discipline nazionali, ma è quello di eliminare gli ostacoli alla libera concorrenza.
Questo comporta che vada confermato l’impianto argomentativo della pronuncia della Corte di Giustizia sulla base della considerazione che non si possa ritenere non sussistente il requisito della scarsità naturale.
Vero è, infatti, che il nostro paese si caratterizza per una particolare vastità sotto il profilo dell’esposizione costiera ma, vero è anche che attualmente il 60 – 70 % delle coste italiane sono oggetto di concessione demaniale marittima e perciò non sono da considerarsi “libere”.
A tal proposito, va inoltre considerato che parte delle spiagge e coste oggi “libere” soffrono dell’erosione costiera e/o presentano uno stato di abbandono, risultando di conseguenza inutilizzabili.
Quando si parla di risorsa naturale scarsa, occorre verificare se sussista una disponibilità sufficiente per permettere lo svolgimento di attività da parte di altri operatori economici. Nel merito, alla luce dell’analisi economico-giuridica condotta dal Consiglio di Stato, può darsi una risposta negativa proprio sulla base del fatto che la scarsità della risorsa è da individuare laddove questa non sia sufficiente a consentire lo svolgimento di attività ad operatori economici diversi rispetto agli attuali concessionari.
Secondo ulteriori critiche esposte, l’inquadramento giuridico delle concessioni svaluterebbe l’elemento del servizio, soffermandosi sull’attribuzione del diritto a sfruttare il bene senza tenere in considerazione l’esercizio dell’attività.
Si tratta di una distinzione fra il profilo autorizzatorio, che consente l’utilizzazione di un bene pubblico e il profilo concessorio, che consente di esercitare l’attività di servizio.
La risposta dell’Adunanza Plenaria, a tal proposito, muove dall’ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto europeo conducendo a considerare la concessione, a prescindere dalla sua qualificazione giuridica, ed evidenziando quei profili di vantaggio economicamente rilevante di cui gode il concessionario e che, di fatti, sono sottratti all’assetto concorrenziale.
In fin dei conti si tratta di un fenomeno locativo di proprietà demaniale vincolato al corrispettivo di un canone che peraltro, secondo l’attuale regime, viene considerato basso rispetto al potenziale giro di affari miliardario che potrebbe generare l’apertura al mercato concorrenziale delle concessioni demaniali marittime in Italia.
Conclusioni
Addivenire a delle conclusioni sul tema delle concessioni balneari, alla luce della disciplina, dei principi europei e della giurisprudenza nazionale, da ultimo definitivamente pronunciatasi con le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria n. 17 e 18/2021, risulta paradossalmente semplice, nonostante l’evoluzione della materia che, come in parte visto, è stata lunga e travagliata.
Ad oggi, tuttavia, non c’è certezza se non sul fatto che le attuali concessioni resteranno in vigore sino al 31 dicembre 2023, come stabilito dal Consiglio di Stato, e che non saranno considerate come valide ulteriori proroghe.
Ma allora cosa manca? La legge. Infatti, ad oggi, il grande assente resta il legislatore italiano, il cui intervento definitivo in materia è ormai atteso da molti (troppi) anni. Decisioni e indecisioni, restano incertezza e proclami.
Informazioni
Consiglio di Stato, sent. Ad. Plen. n. 17-18/2021.
[1] L. 16 marzo 2001, n 88.
[2] Per un approfondimento sulle fonti europee: Regolamenti e direttive dell’UE – DirittoConsenso.
[3] D.L. “Milleproroghe” n. 194/2009 convertito con L. n. 25/2010.
[4] L. 30 dicembre 2018 n. 145.
[5] D.L. 14 agosto 2020 n. 104.
[6] Ad. Plen. Consiglio di Stato n. 17-18/2021.
La responsabilità del vettore nel trasporto di cose
La responsabilità del vettore nel trasporto di cose: breve introduzione al contratto di trasporto e analisi della responsabilità del vettore alla luce degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di responsabilità del debitore
Introduzione: il contratto di trasporto
Per introdurci alla disamina della responsabilità del vettore nel trasporto di cose è opportuno analizzare brevemente il contratto di trasporto.
La nozione di contratto di trasporto è contenuta dal nostro Codice civile nel Libro IV, titolo III, capo VIII “Del trasporto”, all’art. 1678, che recita:
“Col contratto di trasporto, il vettore si obbliga, verso un corrispettivo, a trasferire persone o cose da un logo a un altro”.
Alla diversa natura dell’oggetto del trasporto si collega la distinzione tra due sottotipi cui la legge ha riservato apposita disciplina:
- il trasporto di persone (artt. 1681-1682 c.c.) e
- il trasporto di cose (artt. 1683-1702 c.c.).
Risulta opportuno precisare che il contratto di trasporto appartiene alla tipologia dei c.d. contratti d’opera ed è, in generale, un contratto consensuale ad effetti obbligatori; inoltre, benché nella sua definizione codicistica si faccia esplicito riferimento al requisito del “corrispettivo”, l’opinione prevalente tende ad escludere che l’onerosità sia un elemento indefettibile di tale rapporto, che di conseguenza può essere anche gratuito e talvolta di mersa cortesia[1].
Gli obblighi (in generale) del vettore
Il vettore deve adempiere all’obbligazione di trasporto mettendo le cose a disposizione del destinatario “nel luogo, nel termine e con ne modalità indicate dal contratto o, in mancanza, dagli usi” (art. 1687, comma 1, c.c.). Se la riconsegna non deve eseguirsi presso il destinatario, il vettore deve dargli prontamente avviso dell’arrivo delle cose trasportate (art. 1687 comma 2, c.c.).
La responsabilità del vettore rileva anche in caso di perdita o di avaria delle cose che gli sono consegnate per il trasporto, dal momento in cui le riceve a quello in cui le riconsegna al destinatario. I rischi afferenti le merci gravano dunque su di egli, salvo che non provi che la perdita o l’avaria siano derivate da caso fortuito, dalla natura o dai vizi delle cose stesse, dal loro imballaggio o, ancora, da fatto imputabile al mittente o al destinatario.
Le parti possono pattiziamente stabilire presunzioni sul caso fortuito per eventi che normalmente, in relazione alle condizioni e ai mezzi del trasporto, possono discenderne. La giurisprudenza tuttavia accoglie una nozione di caso fortuito assai restrittiva, da valutarsi sulla base di una prudente valutazione qualificata in ossequio ai canoni di diligenza di cui all’art. 1176 c.c., tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e delle possibili misure idonee ad elidere od attenuare il rischio del danno o della perdita del carico.
Inadempimento o impossibilità della prestazione
Come per ogni contratto, in termini generali, l’art. 1218 c.c. costituisce la norma centrale in tema di responsabilità da inadempimento. La norma stabilisce che “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno”.
Da una prima lettura del testo viene in rilievo che l’obbligo di risarcire il danno segue ad ogni inesattezza nell’esecuzione della prestazione dovuta, e questo non solo nel caso di inadempimento, ma anche nei casi in cui la prestazione eseguita risulti inesatta.
La norma prosegue stabilendo che la responsabilità e il conseguente risarcimento del danno siano di norma addebitabili al debitore salvo che non provi “che l’inadempimento o il ritardo siano causati da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Viene dunque in rilievo la necessità di capire quando c’è responsabilità e cosa sia l’impossibilità.
Per fare ciò è possibile mettere in luce due prospettive che hanno orientato il dibattito in materia di responsabilità c.d. contrattuale, nonché una terza elaborata a partire dagli anni ’80 da Luigi Mengoni, che si colloca a cavallo tra le precedenti due:
- Impossibilità oggettiva assoluta, è molto probabilmente la tesi che ha mosso il legislatore nel 1942 e ricalca letteralmente il modo di intendere le responsabilità alla luce del disposto dell’art. 1218 c.c.: il debitore può essere liberato solo da una impossibilità oggettiva e assoluta. Vi è l’idea che il debitore possa liberarsi soltanto provando una impossibilità derivante da fatti che esulano totalmente dalla sua sfera di controllo, si libera solo se prova il caso fortuito o la forza maggiore che hanno avuto come conseguenza l’inadempimento. Si tratta di una tesi molto rigorosa che si radica su un’idea forte del rapporto obbligatorio e della posizione del creditore rispetto al debitore.
- Impossibilità dovuta a colpa, tesi sostenuta da parte della dottrina[2], opposta alla precedente, che propone una lettura dell’art. 1218 c.c. alla luce di quanto disposato dall’art. 1176 c.c., che, obbligando il debitore al rispetto del canone di diligenza, configura per converso, la colpa quando tale canone viene violato. L’effetto di una simile impostazione è il rischio di un indebolimento del vincolo giuridico che lega le parti, cioè il rischio che la stabilità del rapporto possa vacillare in quanto potrebbe astrattamente sempre ipotizzarsi un tentativo del debitore di liberarsi dall’obbligazione assumendo una qualche difficoltà nell’esecuzione della prestazione.
- Impossibilità oggettiva e relativa, tesi di ispirazione tedesca che propone una lettura sistematica degli artt. 1218 e 1176 c.c. per cui, è necessario conservare una componente oggettiva della responsabilità imposta dall’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone l’oggettività connotante l’impossibilità della prestazione, a tal fine continuando a muoversi nell’ambito di una responsabilità contrattuale che non può fondarsi esclusivamente sulla colpa; al contempo, tuttavia, si sostiene che occorra modulare in modo più elastico il giudizio di responsabilità, in quanto vi sarebbero una serie di casi in cui il dato oggettivo non atterrebbe alla sfera interna dell’organizzazione di impresa del debitore. Da qui il motivo per cui la tesi viene definita oggettiva e relativa: si conserva una natura non strettamente colposa della responsabilità da inadempimento modulando il giudizio sulla c.d. oggettiva possibilità prestatoria. Alla luce di tale ricostruzione logica possiamo dire che la prestazione oggetto dell’obbligazione non si qualifica in termini astratti e assoluti, ma si identifica nella concretezza della fonte di quell’obbligazione che da contenuto alla prestazione oggetto dell’obbligazione stessa.
(Segue) La responsabilità del vettore
In virtù di tale ultima tesi (impossibilità oggettiva e relativa) è stata letta la responsabilità del vettore nel trasporto di cose.
Sul punto la ormai pacifica giurisprudenza[1] è orientata nel ritenere che poiché l’art. 1218 c.c. pone espressamente a carico del debitore la prova che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, la generica prova della diligenza non può essere sufficiente ad esonerarlo da responsabilità, essendo necessario dimostrare lo specifico impedimento che ha reso impossibile la sua prestazione o, quanto meno, dimostrare che questo non sia in alcun modo a lui imputabile.
Il debitore dovrà dunque dimostrare la propria assenza di colpa e l’uso della diligenza spiegata per rimuovere gli ostacoli frapposti da altri all’esatto adempimento.
Per capire tale orientamento si prenda ad esempio un soggetto che si obbliga a trasportare merci avendo stipulato un contratto con un contenuto determinato: la ditta Alpha trasporterà un certo tipo di beni da Roma a Milano entro l’arco di una giornata e sarà onerata di sostenete i costi del carburante e del trasporto. Poniamo ora che tale pattuizione divenga impossibile, nei limiti di quanto stabilito, per un’improvvisa chiusura autostradale. La questione che viene in rilievo è: si può ancora affermare che l’esecuzione della prestazione sia possibile e, soprattutto, rispondente a quella dedotta in obbligazione? Evidentemente l’improvvisa chiusura autostradale inciderà oggettivamente sui tempi e sui costi di trasporto, dunque la prestazione non sarà più possibile secondo quanto dedotto ma risulterà comunque materialmente eseguibile, a patto che siano spese risorse maggiori e che sia impiegato del tempo in più. La questione che si pone allora è: il debitore è ancora tenuto a eseguire la prestazione? E, di conseguenza, potrà essere ritenuto responsabile per inadempimento nonostante l’impossibilità oggettiva sopravvenuta della prestazione?
Sulla base di quanto sostenuto da dottrina e giurisprudenza la società Alpha non potrà essere ritenuta responsabile per il mancato trasporto delle merci da Roma a Milano in quanto, evidentemente, l’evento che ha reso impossibile la prestazione non poteva essere in alcun modo previsto e superato usando gli ordinari canoni di diligenza. Lo specifico impedimento – il blocco autostradale – non essendo in alcun modo imputabile alla società di trasporto potrà dunque essere allegato per provare ogni assenza di responsabilità del vettore. Tuttavia quest’ultimo per far fronte alle circostanze sopravvenute sarà onerato di chiedere istruzioni al mittente, provvedendo nel frattempo alla custodia delle cose. Il mittente potrà, a questo punto, apportare modifiche al contenuto del contratto (indicando ad esempio percorsi di viaggio alternativi) in modo da impedire la sua risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.).
Conclusioni
In conclusione possiamo dunque affermare che la responsabilità del vettore nel trasporto di cose è una responsabilità presunta.
La tesi dell’impossibilità oggettiva e relativa è quella che meglio riesce a coniugare le norme ex artt. 1218 e 1176 c.c., con quest’ultima che viene identificata nello sforzo richiesto al debitore per superare le ragioni di difficoltà nell’esecuzione della prestazione; al contempo, l’obbligazione non impone al debitore di andare oltre il concetto di possibilità della prestazione rispetto a quanto dedotto in obbligazione.
Informazioni
U. BRECCIA e altri, Diritto Privato, Tomo secondo, UTET Giuridica, 2014;
M. BIANCA, Diritto Civile V, La responsabilità, Giuffrè Francis Lefebvre, 2015
[1] Elementi diversi da quanto invece previsto dal contratto di deposito in albergo e della responsabilità dell’albergatore: per un approfondimento su questo contratto rimando a Il contratto di deposito in albergo – DirittoConsenso.
[2] v. in particolare, M. BIANCA in Diritto Civile V., La responsabilità
[3] v. Cass. 17/05/2002 n. 7214; Cass. 05/08/2002 n. 11717
Illeciti e sanzioni amministrative: evoluzione e problematica
Breve analisi dell’evoluzione giuridica degli illeciti e delle sanzioni amministrative alla luce dei dettami provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo
Introduzione alle sanzioni amministrative
L’illecito amministrativo si configura quando un soggetto viola una disposizione di legge. Tale violazione tuttavia viene ritenuta dall’ordinamento “meno grave” e dunque passibile di essere punita mediante una sanzione amministrativa.
L’illecito amministrativo si differenzia dall’illecito penale sulla base di una valutazione di pericolosità del soggetto agente. Laddove vi sia un maggior allarme sociale, l’ordinamento punisce la condotta del reo in modo più “forte”, sussumendola per tale ragione in una fattispecie di reato; laddove invece si ravvisi una minore pericolosità sociale il legislatore punisce la condotta dell’agente per il mezzo di sanzioni di tipo amministrativo.
Per esempio: sono illeciti penali il furto, la rapina, il peculato, il sequestro di persona, la violenza sessuale, l’omicidio; sono considerati illeciti amministrativi le violazioni del Codice della Strada[1] oppure, salvo le ipotesi di reato, le violazioni di quanto disposto dal T.U.L.P.S. (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza[2]).
La disciplina nazionale delle sanzioni amministrative
Nell’ordinamento italiano non esiste una nozione positiva di “sanzione amministrativa”, per diverso tempo il suo inquadramento concettuale è stato oggetto di disputa.
A tal proposito si è lungamente dibattuto se la sanzione amministrativa appartenesse al campo delle sanzioni in senso tecnico, volte ad assicurare la cura di un interesse pubblico mediante l’adozione di un provvedimento amministrativo; o se fosse invece considerabile un istituto accessorio all’esercizio della funzione amministrativa, da inquadrare nel campo della tutela di un interesse già individuato dal legislatore in sede di configurazione della fattispecie.
A cercare di mettere ordine, nel tentativo di realizzare un intervento organico di depenalizzazione, è intervenuto il legislatore con la L. n. 689/1981[3] recante lo statuto delle sanzioni amministrative. Il risultato di tale intervento legislativo è stata la creazione di una sorta di cesura nel nostro ordinamento tra:
- Sanzioni pecuniarie in “senso stretto” considerate come misure afflittive pecuniarie alle quali fu applicato lo statuto giuridico tipico del sistema penale, recante garanzie procedimentali tipiche (colpevolezza, tipicità, contraddittorio) e la cui giurisdizione fu rimessa al giudice ordinario;
- Sanzioni rispristinatorio-interdittive “in senso lato” le quali differivano dalle prime sotto il profilo procedimentale, in quanto sottoposte alla L. n. 241/1990 perché considerate manifestazione tipica del potere autoritativo; sotto il profilo punitivo, perchè non sottoposte ai principi di legalità, tassatività e colpevolezza; ed infine sotto il profilo giurisdizionale, dal momento che la loro giurisdizione fu rimessa al giudice amministrativo, che esercitava su di esse un sindacato concepito sulla funzione amministrativa.
Gli interventi della Corte Edu
Questo assetto di divaricazione concettuale e giuridico-normativo tra sanzioni amministrative “in senso stretto” e sanzioni amministrative “in senso lato” è stato oggetto di diverse sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo[4] che, penetrando nel nostro ordinamento, hanno creato una vera e propria frattura sistemica nell’ambito di questo riparto.
In realtà la Corte Edu già a partire dal 1976 con la celebre sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi aveva già avuto modo di elaborare una più precisa e puntuale nozione sostanziale di pena per il tramite dell’elaborazione di tre criteri identificativi al fine di scongiurare che le principali garanzie dello statuto punitivo previste dalla CEDU (in particolare quelle previste dagli artt. 6[5] e 7[6]), fossero disapplicabili negli ordinamenti dei vari paesi per il mezzo di vaste operazioni di depenalizzazione, così dando vita a fenomeni di c.d. “truffa delle etichette”.
I criteri elaborati dalla Corte Edu (c.d. criteri Engel) si sostanziano in tre indici tra loro alternativi – pur potendo ricorrere congiuntamente – delle misure afflittive che proprio per la loro natura dovranno essere sottoposte alle garanzie della CEDU:
- Criterio formale della “rilevanza della qualificazione dell’illecito operata dall’ordinamento nazionale”. Si afferma che la CEDU estende il suo raggio applicativo a tutte le misure qualificate dagli ordinamenti nazionali come penali. Si tratta di un criterio formale, che recepisce la qualificazione interna nazionale.
- Criterio sostanziale “teleologico”. Indice che include nella nozione di pena in senso convenzionale tutte quelle misure votate ad una funzione punitivo-deterrente, che in quanto tali rientreranno nelle garanzie previste dalla CEDU.
- Criterio sostanziale della “gravità o severità del sacrificio imposto”. Qualora la misura non abbia una esclusiva finalità punitivo-deterrete ma ne possieda anche una ripristinatoria e/o di tutela dell’interesse pubblico, rientrerà nel campo delle garanzie CEDU qualora si caratterizzi per la sua severità o comunque imponga un sacrificio (personale o patrimoniale) al consociato.
Gli interventi della Corte Edu hanno dato vita ad una vera e propria decostruzione dello statuto giuridico delle sanzioni amministrative. L’effetto è stato quello di elevare le garanzie per esse previste così da includerle nell’orbita applicativa dello statuto della pena in tal modo accomunandole alle sanzioni penali.
La portata innovativa della giurisprudenza CEDU non si è limitata però all’imposizione di una prospettiva sostanzialistica, capace di attrarre tutte le sanzioni afflittive o comunque più simili al paradigma penalistico nel campo del penale. In realtà – e qui sta forse uno degli aspetti più innovativi – la CEDU ha imposto di far propria anche una nuova e ben più ampia nozione (sostanziale) di sanzione in senso stretto, ossia di sanzione che reclama, per il cittadino, pienezza di tutele.
Deve dunque qualificarsi come penale quella sanzione amministrativa che, ove anche presenti un contenuto e delle finalità non punitive in senso stretto, si caratterizzi per la gravità della punizione cui è sottoposto il consociato.
Detto in altri termini, un provvedimento dei pubblici poteri è considerabile sanzione penale quando, pur privo dei caratteri sostanziali tipici di quest’ultima, si caratterizza per l’elemento della gravità del pregiudizio inflitto quale conseguenza di un’accertata violazione normativa[7].
Le ripercussioni interne della giurisprudenza della Corte Edu
La giurisprudenza della Corte Edu in Italia ha trovato il suo principale strumento ricettivo nella Corte Costituzionale dinanzi alla quale sono state proposte una serie di questioni relative a fattispecie e sanzioni che, secondo il giudice rimettente, pur rientrando nella nozione di pena in senso convenzionale non erano destinatarie delle garanzie previste dalla CEDU.
Per capire la portata che i criteri sanciti dalla Corte Edu hanno avuto nel nostro ordinamento indagheremo in questa sede due corollari cardine del nostro sistema: il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in senso sfavorevole e il principio di colpevolezza, leggendoli alla luce del recepimento della giurisprudenza europea.
Divieto di retroattività
A partire dalla sentenza n. 196/2010, seguita dalla sentenza n. 104/2014, la Corte Costituzionale non solo ha fatto applicazione dell’art. 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU per affermare che il legislatore in relazione ad una sanzione amministrativa quale la confisca (originariamente considerata sezione in senso lato) è tenuto a rispettare il divieto di retroattività della legge penale più sfavorevole[8]; ma ha anche operato una lettura retroattiva dell’art. 25, comma 2 Cost., che prima di allora veniva considerato precettivo solo con riguardo al sistema penale e che con tale pronuncia la Consulta ritiene sia riconducibile anche alle sanzioni amministrative aventi un particolare effetto afflittivo.
Viene dunque sancito che, anche con riferimento alle sanzioni amministrative in senso lato, venga introdotto il divieto di retroattività rispetto a condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge recante la sanzione.
È importante sottolineare come questa pronuncia abbia esteso tale principio anche alle sanzioni amministrative pecuniarie, le quali godevano del riconoscimento del divieto di irretroattività solo a livello di legislazione ordinaria ma non anche a livello costituzionale.
Principio di colpevolezza
La giurisprudenza della Corte Edu ha influito sullo statuto delle sanzioni amministrative e sul principio di colpevolezza con particolare riguardo alla misura della confisca urbanistica.
In passato era discusso se il giudice penale, nel procedere per il reato di lottizzazione abusiva, potesse disporre la confisca di immobili abusivi anche nel contesto di una intervenuta prescrizione.
Con le sentenze n. 239/2009 e n. 49/2015 la Corte Costituzionale ha ripreso quanto statuito dalla Corte Edu con la sentenza Sud Fondi Srl c. Italia del 2009 con la quale si era precisato che fosse possibile disporre una confisca urbanistica nel contesto di un procedimento penale che si fosse chiuso in rito, a condizione che il giudice avesse accertato in motivazione e con cognizione piena, la responsabilità del lottizzatore e dei terzi acquirenti in mala fede.
Si nota un’estensione delle garanzie proprie del principio in esame allo statuto della sanzione amministrativa. La Corte Edu ha ribadito che, ai fini dell’applicazione di una sanzione penale in senso convenzionale, la responsabilità del reo debba sempre essere fondata sull’accertamento di un coefficiente soggettivo di colpevolezza. Non sono più autorizzati automatismi sanzionatori.
Conclusioni
L’affermarsi della categoria della sanzione amministrativa “penale” è frutto della crescente interazione del contesto nazionale con quello europeo. Con il passare degli anni infatti le garanzie previste dalla CEDU sono gradualmente penetrate nel nostro sistema e con esse si è fatta largo la necessità di bilanciarle con i diritti e gli interessi costituzionalmente protetti.
Proprio grazie a tale interazione, in applicazione dei c.d. criteri Engel e di successivi ulteriori orientamenti, la Corte Edu è giunta a riconoscere la natura sostanzialmente penale di numerose sanzioni qualificate sul piano nazionale come formalmente amministrative, con la conseguenza di estendere ad esse le garanzie di cui agli artt. 6 e 7 CEDU.
Informazioni
FOCARELLI, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001.
[1] D.Lgs. n. 285/1992.
[2] R.D. 18.6.1931 n.773.
[3] G.U. LEGGE 24 novembre 1981, n. 689.
[4] Vedi Corte Edu, A e B c. Norvegia, 2016; Corte Edu, Sud Fondi Srl c. Italia, 2009; Corte Edu. Grande Stevens c. Italia, 2014.
[5] Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, TITOLO I, art. 6 “Diritto a un equo processo”.
[6] Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, TITOLO I, art. 7 “Nulla poena sine lege”.
[7] Cfr. FOCARELLI, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Contributo alla determinazione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione, Padova, 2001.
[8] Il principio di irretroattività nel diritto penale – DirittoConsenso.
Durata del contratto e disciplina del "termine"
È corretto parlare di durata del contratto? Se sì, quanto dura, o può durare, un contratto? Analizziamo la disciplina del termine dettata in materia dal Codice civile
Introduzione
Quando si parla di durata del contratto si fa implicitamente riferimento alla disciplina del termine contrattuale.
Le parti, in ossequio a quanto loro riconosciuto dall’ordinamento rispetto alla libertà di autodeterminazione del contenuto contrattuale (art. 1322 c.c.[1]), possono inserire un “termine” per determinare la durata del contratto o per pattuire entro quando dovrà essere adempiuta l’obbligazione.
Natura e tipi di termine
Nel nostro ordinamento esistono due tipologie di termine che si distinguono a seconda della funzione ad essi attribuita:
- Termine di adempimento, riferito al momento in cui dovrà essere eseguita l’obbligazione, artt. 1183 e ss. c.c. (es. Tizio concede in prestito a Caio una somma di denaro pattuendo che questa dovrà essergli restituita entro il 31 dicembre 2024);
- Termine di efficacia, riferito al periodo in cui il rapporto dovrà produrre i suoi effetti (es. Tizio concede in locazione a Caio un appartamento dal 1° gennaio 2023 al 1° gennaio 2027). Tale tipologia di termine incide sulla durata del contratto e sui suoi effetti: se e da quando questi si produrranno (c.d. termine iniziale); se e da quando questi cesseranno di prodursi (c.d. termine finale).
Il termine di efficacia è ricompreso tra gli elementi accidentali del contratto insieme alla condizione (art. 1353 c.c.[2]) e al modus (onere gravante su un atto di liberalità a carico del beneficiario). Occorre precisare che il termine si distingue dalla condizione per la certezza dell’evento futuro cui è legato, consiste infatti in un evento futuro e certo dal quale dipende proprio l’efficacia del contratto o la sua cessazione.
Va precisato tuttavia che tale grado di certezza non esiste riguardo al momento in cui detto evento si verificherà. Per tale ragione possiamo distinguere tra:
- Termine determinato: vi è certezza sul fatto che il termine giungerà e vi è certezza su quando giungerà (es. il 18 dicembre del 2023);
- Termine indeterminato: vi è certezza sul fatto che il termine giungerà ma non vi è certezza su quando giungerà (es. il giorno della morte di Tizio).
Alla luce di tale classificazione in dottrina[3] si è sostenuto che il termine di efficacia possa essere o meno pattuito così come possa essere o meno determinato. Il termine di adempimento invece risulta essenziale rispetto ad un’obbligazione: può essere o meno determinato, ma intrinsecamente esiste sempre. Non è infatti possibile immaginare un’obbligazione senza che questa porti all’esecuzione di quanto nella stessa dedotto. Diversamente, un’obbligazione siffatta sarebbe non solo priva di causa, ma anche inutile[4].
Le due tipologie di termine sino ad ora analizzate possono comunque coesistere all’interno dello stesso contratto. Si pensi ad un contratto di locazione in cui venga limitata la durata del rapporto per un certo periodo di tempo (termine di efficacia) e in cui siano fissati i termini di pagamento in determinate date prestabilite (termini di adempimento).
Termine: elemento essenziale o elemento accidentale del contratto?
Il termine, come già precisato, è ricompreso tra i c.d. elementi accidentali del contratto dal momento che la sua esistenza e la sua determinazione sono liberamente lasciate alla disponibilità delle parti.
Tuttavia c’è chi ha sostenuto che, in realtà, il termine sia da considerarsi elemento essenziale del contratto nonostante la sua mancata previsione nell’elenco di cui all’art. 1325 c.c. recante i requisiti (essenziali) del contratto.
Secondo tale interpretazione non potrebbe ipotizzarsi l’esistenza di un contratto a tempo indefinito. Ogni rapporto giuridico ha inevitabilmente un inizio e una fine e per alcuni il termine risulta caratterizzare l’intera fattispecie.
Si pensi all’usufrutto dove la temporaneità ai sensi dell’art. 979 c.c. c.1: “la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario” risulta caratterizzante la causa dell’intero istituto; o alla locazione[5] nella quale una parte si obbliga nei confronti di un’altra a far godere un bene mobile o immobile per un dato tempo e dietro corrispettivo determinato.
Pare allora corretto sostenere che il carattere della essenzialità del termine vada letto alla luce di quanto disposto dall’art. 1457 c.c. che recita:
“Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto si intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.
In tale ipotesi il Codice civile attribuisce rilevanza al termine con riferimento al suo mancato rispetto, in quanto costituisce elemento essenziale al soddisfacimento dell’interesse della controparte.
Tale assunto pare legittimare la qualificazione del termine quale elemento accidentale del contratto, che diventa tuttavia essenziale nel momento in cui le parti ne pattuiscono l’esistenza[6].
Conclusioni
Per rispondere dunque alla domanda: “quanto dura, o può durare, un contratto?” dobbiamo inevitabilmente fare riferimento alla c.d. autonomia contrattuale riconosciuta ai contraenti dal già citato art. 1322 c.c. Tale disposizione considera le parti libere di determinare il contenuto del contratto e le clausole che regoleranno il loro rapporto, nel rispetto dei limiti di legge.
Ciò significa che i contraenti hanno facoltà di pattuire liberamente il prezzo della cosa venduta, le modalità di esecuzione della prestazione, il tempo dell’esecuzione e, altresì, la durata del contratto.
Le parti dunque non devono necessariamente adottare i c.d. modelli contrattuali “nominati”, ma possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, elaborando così schemi di fatto non contemplati dalla legge ma che essi ritengano più confacenti alle loro esigenze[7].
Va precisato tuttavia che, in tale spazio di libertà contrattuale concesso ai contraenti, la bussola disciplinare deve inevitabilmente seguire le norme recanti le disposizioni sul contratto in generale.
Informazioni
Torrente – Schlesinger, Giuffrè Editore, ed. XXV, 2021;
Commentario breve al Codice Civile a cura di Giorgio Cian, CEDAM, ed. 2020;
Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999;
Enc. Dir., Giuffrè, 2015;
Banca dati De Jure.
[1] Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge [41 Cost.] e dalle norme corporative. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare [1323], purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
[2] Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro e incerto.
[3] Costanza, La condizione e gli elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999, p. 883 e ss.
[4] Cfr. voce Termine, in Enc. Dir., Giuffrè, 2015.
[5] http://www.dirittoconsenso.it/2022/03/22/introduzione-al-contratto-di-locazione/
[6] L’essenzialità è una caratteristica che deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto (Cass. 3710/2013).
[7] Torrente – Shelesinger, Giuffrè Editore, ed. XXV, 2021.