Lo scioglimento delle Camere
Il potere di scioglimento delle Camere è una prerogativa riservata al Capo dello Stato. Ma quando può essere esercitata questa prerogativa?
Il potere di scioglimento delle Camere quale prerogativa del Capo dello Stato
Il potere di scioglimento delle Camere è affidato, dall’art. 88 Cost., al Presidente della Repubblica, il quale può, “sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”. La Costituzione è chiara nell’attribuire tale potere al Capo dello Stato. Tuttavia, essa si limita soltanto a stabilire il detentore di tale potere, non prevedendo quali siano i casi in cui tale prerogativa può essere esercitata, e prevedendo espressamente soltanto un limite.
Lo scioglimento delle Camere avviene senz’altro alla scadenza naturale della legislatura, e cioè decorsi i cinque anni di durata in carica delle Camere ex art. 60, co. 1, Cost. Nel periodo intercorrente la data di scioglimento delle Camere e quello di riunione delle nuove Camere, i poteri delle precedenti sono prorogati. Pertanto, un primo caso di scioglimento delle Camere è la scadenza naturale di esse, ogni cinque anni, con conseguente rinnovo delle stesse da parte dell’elettorato attivo.
Tuttavia, le Camere potrebbero essere sciolte anche anticipatamente, e cioè prima della scadenza naturale di esse. Il dettato costituzionale, infatti, non limita il potere del Presidente della Repubblica alle sole ipotesi di scadenza naturale delle Camere, ma lascia ampio spazio di discrezionalità al Capo dello Stato.
E proprio perché trattasi di discrezionalità, è necessario stabilire dei limiti a tale potere, limiti che sono stati il più delle volte tratti implicitamente dalla posizione di terzietà assunta dal Capo dello Stato nell’assetto costituzionale ed istituzionale.
Il semestre bianco
Unico limite esplicito previsto dal dettato costituzionale al potere di scioglimento delle Camere è quello ex art. 88, co. 2, Cost.: il Presidente della Repubblica, infatti, non può esercitare tale potere negli ultimi sei mesi del mandato presidenziale (c.d. semestre bianco)[1].
La ratio di tale limite – l’unico esplicitamente previsto dalla Costituzione – è da ravvisarsi nell’intenzione del Costituente di evitare che il Presidente della Repubblica in carica possa sciogliere le Camere auspicando nella formazione di una maggioranza parlamentare a sostengo della sua rielezione. Quindi si tratta di evitare una strumentalizzazione dell’istituto dello scioglimento anticipato delle Camere.
Dall’altra parte, lo stesso art. 88 Cost. prevede che questa prerogativa possa essere utilizzata nel caso in cui il semestre bianco coincida in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi di legislatura: in tal caso, il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere.
Quali sono gli altri limiti?
Come si è detto, quello del semestre bianco è l’unico limite esplicitamente previsto dal dettato costituzionale. È da chiedersi, allora, se vi siano e, se sì, quali siano gli ulteriori limiti a tale prerogativa presidenziale.
Innanzitutto, il potere può essere esercitato non solo nei confronti di entrambe le Camere, ma anche nei confronti di una sola di esse. Tuttavia, nella prassi, non si è mai ravvisata l’esigenza di sciogliere anticipatamente una sola Camera, se non per permettere l’elezione contestuale di entrambe le Camere. Precedentemente, infatti, le Camere non avevano la medesima durata in carica: la Camera dei Deputati aveva una durata in carica di cinque anni, mentre il Senato della Repubblica durava in carica sei anni. Per effetto della l. cost. n. 2/1963 si è attribuita ad entrambe le Camere la medesima durata in carica, attuando maggiormente il c.d. bicameralismo perfetto (o paritario) voluto dal Costituente.
Pertanto, lo scioglimento di una sola Camera era collegato esclusivamente ad esigenze tecniche, ma non ad esigenze politiche e motivi politici, non essendovi stato uno scioglimento in tal senso né precedentemente, né successivamente la riforma costituzionale.
Ma nulla vieterebbe al Presidente, stante l’attuale dettato costituzionale, un potere di scioglimento monocamerale. Tuttavia, ciò inciderebbe in maniera profonda sugli assetti costituzionali. Senz’altro il potere di scioglimento monocamerale non è possibile esclusivamente a causa di maggioranze alternative all’interno di esse: al Presidente della Repubblica non compete, infatti, una valutazione squisitamente politica e ciò potrebbe portare ad una decisione arbitraria del Capo dello Stato.
In tali casi si può ragionare soltanto in astratto, non avendo a disposizione casi concreti, ma comunque – ad avviso di chi scrive – anche se in astratto il potere del Capo dello Stato è esercitabile anche nei confronti di una sola Camera, la norma è da considerarsi sostanzialmente non più applicata per desuetudine. Attenzione però: si parla di “non applicazione” e non di abrogazione. Sappiamo bene, infatti, come qualsiasi modifica o addirittura abrogazione di una norma costituzionale necessita del particolare procedimento legislativo di riforma costituzionale ex art. 138 Cost.[2]
E non vi è nulla di strano nel ritenere una norma costituzionale non applicata: diversi sono gli esempi di non applicazione di disposizioni costituzionali: si pensi, a titolo di esempio, all’art. 39, co. 2 ss., Cost., oppure all’art. 78 Cost.
Pertanto, un primo limite sembrerebbe comunque quello di esercitare detto potere nei confronti di entrambe le Camere.
Scioglimento anticipato di entrambe le Camere
Ma quando effettivamente entrambe le Camere possono essere sciolte anticipatamente?
Ebbene, innanzitutto il potere di scioglimento delle Camere (sia scioglimento monocamerale che bicamerale) passa preliminarmente dall’audizione dei Presidenti delle Camere soggette a scioglimento. Difatti, l’art. 88 Cost. stabilisce l’obbligo, in capo al Presidente della Repubblica, di sentire i Presidenti delle Camere che intende sciogliere, i quali esprimono un loro parere, ritenuto obbligatorio ma non vincolante.
Il potere di scioglimento anticipato di entrambe le Camere è però da ritenersi una extrema ratio, una scelta finale affidata dal Presidente della Repubblica qualora si versi in uno stato di crisi politica ed istituzionale irrimediabile.
Difatti, tale potere è ormai relegato alle ipotesi di crisi di governo non componibili: soltanto qualora, in caso di crisi di governo, il Parlamento non sia in grado di esprimere alcuna maggioranza, e pertanto non si possa formare nessun Governo che goda del sostegno della maggioranza parlamentare, il Presidente della Repubblica potrà procedere allo scioglimento anticipato delle Camere e indire nuove elezioni per il rinnovo delle stesse.
Diverse sono le valutazioni che comunque il Capo dello Stato è chiamato a fare prima di poter arrivare allo scioglimento anticipato, ma trattasi comunque di valutazioni non politiche: il Presidente della Repubblica è infatti super partes, terzo tra le parti, arbitro e mediatore del gioco politico, e non può assumere alcuna scelta politica. La sua decisione di scioglimento delle Camere deve essere volta esclusivamente a superare uno stallo istituzionale che potrebbe ripercuotersi negativamente sulla vita dei consociati, e non può quindi essere guidata da esigenze o scelte politiche.
Natura dell’atto di scioglimento delle Camere
Circa la natura dell’atto di scioglimento delle Camere, in dottrina sono invalse diverse posizioni.
Innanzitutto, dato che il potere è riservato dalla Costituzione espressamente al Presidente della Repubblica, si dovrebbe trattare di un potere strettamente presidenziale, e di conseguenza l’atto dovrebbe essere un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale. Ciò lo so rinviene anche dalla previsione del semestre bianco: se il Presidente non può sciogliere le Camere per sperare in una maggioranza che sia favorevole alla sua rielezione, allora ciò induce a considerare il potere come strettamente presidenziale.
Tuttavia, l’art. 89 Cost. prevede l’istituto della controfirma ministeriale, secondo cui nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal ministro proponente o competente per materia. Tale previsione potrebbe configurare una natura di atto formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo, dato che l’atto dovrebbe essere controfirmato dal Governo e, dunque, magari anche proposto da questo.
Altro orientamento assume, invece, una posizione intermedia, ritenendo l’atto di scioglimento anticipato delle Camere come un “atto complesso”, alla cui formazione partecipano sia il Governo che il Presidente della Repubblica.
In astratto, sembrano ammissibili tutte le ipotesi testé illustrato.
Ma bisogna comunque guardare al concreto e all’assetto costituzionale: molto spesso, nella prassi, il potere si è spostato in capo al Governo, il quale ha rassegnato le sue dimissioni dando vita ad una crisi di governo non componibile. Ed ecco che allora l’atto diviene formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo.
Informazioni
R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, XVII edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2016;
Alessia Fusco, Ripensando all’effettiva vigenza dell’art. 88, comma 1, ultima parte, della costituzione, in https://www.giurcost.org/studi/fusco.htm;
L. Gianniti – N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, il Mulino, Bologna, 2018.
[1] Per approfondimento cfr. DE RESPINIS, Il semestre bianco, http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/23/il-semestre-bianco/
[2] Per approfondimento cfr. DE LUCIA, La revisione costituzionale: tra procedimento e limiti, http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/19/la-revisione-costituzionale-tra-procedimento-e-limiti/
Ergastolo ostativo: possibile illegittimità?
La Corte Costituzionale affida tempo un anno al Parlamento per modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo e renderla compatibile ai principi costituzionali e sovranazionali
I reati ostativi e l’ergastolo ostativo: brevi cenni
I reati ostativi[1] sono una particolare categoria di reati previsti dall’art. 4-bis[2] della l. n. 354/1975 (legge sull’ordinamento penitenziario), nei confronti dei quali il legislatore effettua un giudizio presuntivo di pericolosità sociale, derivante appunto dal titolo di reato per il quale il soggetto viene condannato o internato. In termini più semplici, il legislatore presume che gli autori di tali reati siano socialmente pericolosi, in ragione del fatto che si tratta di reati di elevato disvalore, di reati abbastanza gravi, e proprio in ragione di tale presunzione si prevede un regime differente, in cui è vietato l’accesso ai benefici se non a particolari condizioni.
I reati ostativi sono previsti, a livello sostanziale, dal codice penale: la legge penitenziaria si è limitata soltanto ad effettuare questo particolare giudizio di pericolosità sociale nei confronti di quei soggetti che hanno commesso tali reati, prevedendo un generale divieto di accesso ai benefici che la stessa legge penitenziaria prevede nei confronti di coloro che, invece, commettono “reati comuni”.
Precisamente, nei confronti di tali tipi di reato sarà esclusa la concessione di alcuni benefici, salvo intervengano le particolari condizioni previste per ogni fascia di reato[3], e precisamente sarà esclusa la concessione:
- Della possibilità di lavorare all’esterno dell’istituto penitenziario;
- Delle misure alternative alla detenzione, quali la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale, oltre che l’affidamento in prova ai servizi sociali.
È espressamente esclusa dal novero dei benefici che non possono essere concessi la liberazione anticipata: pertanto, anche il detenuto o internato condannato per uno dei reati ostativi ex art. 4-bis potrà beneficiare dello sconto di pena di 45 giorni ogni semestre di buona condotta.
Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019[4], è stata estesa la possibilità di ottenere i permessi premio anche i condannati ai reati ostativi che non collaborano con la giustizia, alle particolari condizioni previste dalla stessa Consulta, ossia:
- Che sia venuta meno l’attualità della partecipazione all’associazione criminale;
- Che non vi sia il pericolo di ripristino dei collegamenti con l’associazione criminale.
Il riferimento alla collaborazione con la giustizia è molto importante, perché è proprio questa condizione che è al centro del dibattito giurisprudenziale, e precisamente al centro del dialogo tra la Corte EDU e la Corte costituzionale, soprattutto per quanto riguarda l’ergastolo ostativo.
Si ha ergastolo ostativo quando il soggetto ha commesso uno dei particolari delitti indicati nell’art. 4-bis e per il quale ha ricevuto la pena dell’ergastolo. Si rientra senz’altro nella c.d. “prima fascia” dei reati ostativi, potendo soprattutto questi portare alla condanna all’ergastolo, specie per delitti-fine commessi avvalendosi delle condizioni ex art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso).
Ergastolo: fine pena mai?
Ad oggi anche l’ergastolo[5] non è più un “fine pena mai”, e quindi una pena perpetua, potendo divenire anch’esso una pena detentiva temporanea, e ciò per effetto della liberazione condizionale.
La liberazione condizionale, prevista dall’art. 176 c.p., è quell’istituto in virtù del quale il detenuto, previa espiazione di parte di pena, potrà essere dimesso dall’istituto penitenziario e, dunque, tornare in libertà, venendo tuttavia sottoposto alle misure di sicurezza personale non detentiva della libertà vigilata. Il che comporta l’assoggettamento di colui che beneficia della liberazione condizionale al rispetto di una serie di prescrizioni imposte dal tribunale di sorveglianza, competente a concedere la misura.
Ebbene, anche il condannato all’ergastolo può beneficiare della liberazione condizionale, purché abbia scontato un tratto cospicuo di pena, ossia 26 anni, o pena inferiore per effetto delle detrazioni conseguenti alla liberazione anticipata[6]. Pertanto, il condannato all’ergastolo potrà uscire dall’istituto penitenziario e potrà, decorsi 5 anni dalla concessione del beneficio, vedere estinta la sua pena: ecco come l’ergastolo ormai non è più una pena detentiva perpetua.
Ergastolo ostativo, Corte EDU e Corte Costituzionale
L’ergastolo ostativo – come si è detto – si ha quando il soggetto viene condannato per uno dei reati ostativi previsti dall’art. 4-bis l. n. 354/1975 e, dalla commissione di tali reati, deriva appunto la pena dell’ergastolo[7].
La Corte EDU, nel 2019, nell’ormai importantissimo caso Viola c. Italia[8], ha avuto modo di affermare che il mancato accesso ai benefici non può essere basato – nel caso di reato ostativo – sul solo presupposto della mancanza di collaborazione con la giustizia. Questo perché, ad avviso della Corte di Strasburgo, la mancanza della collaborazione con la giustizia potrebbe derivare anche da situazioni personali e soggettive, specie nel caso di affiliazione con associazione mafiosa, in cui è alto il pericolo per l’incolumità personale del soggetto che collabora e dei suoi familiari: proprio ciò potrebbe indurre il soggetto a non collaborare.
La Corte di Strasburgo, quindi, invitava a compensare l’assenza di collaborazione con la giustizia con altri criteri che permettono di accertare la redenzione e il ravvedimento del soggetto, non guardando unicamente alla collaborazione con la giustizia. Pertanto, la Corte EDU condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, il quale prevede il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
Successivamente, la Corte costituzionale, proprio su impulso della Corte EDU, con sent. n. 253/2019 richiamata supra, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui, in relazione ai reati commessi ex art. 416-bis c.p., non permetteva l’accesso ai permessi premio pur in assenza di collaborazione con la giustizia, nei termini esplicitati nel paragrafo primo.
Ma l’art. 4-bis è oggetto anche di altra questione di legittimità pendente dinanzi alla Corte costituzionale. Precisamente, la Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, con ordinanza del 3 giugno 2020 (ord. n. 1003/2020), ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 4-bis e 58-ter l. n. 354/1975 e art. 2 d.l. n. 152/1991, “nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia”[9].
Pertanto, secondo il collegio rimettente, le norme impugnate sarebbero costituzionalmente illegittime sulla base delle norme parametro ex artt. 3, 27, co. 3 e 117, co. 1, Cost.[10], e sarebbero costituzionalmente illegittime nella parte in cui escludono, in assenza di collaborazione con la giustizia, l’accesso alla liberazione condizionale.
La Consulta ha affermato come la previsione legislativa degli articoli impugnati (artt. 4-bis e 58-ter l. n. 354/1975 e art. 2 d.l. n. 152/1991), sia effettivamente in contrasto con la normativa sovranazionale, e precisamente con l’art. 3 CEDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo (e ricordiamo che i principi della CEDU sono vincolanti per come interpretati dalla Corte). Infatti, la Consulta avalla e accoglie l’orientamento espresso nella sentenza Viola c. Italia, affermando appunto che la mancanza di collaborazione con la giustizia potrebbe anche non essere sintomo di attualità e continuità dei rapporti con l’associazione criminosa, ma potrebbe derivare da situazioni soggettive esterne al reo, e potrebbe quindi anche prescindere dall’appartenenza all’associazione mafiosa.
Ma la Corte costituzionale va oltre: afferma infatti, che la collaborazione con la giustizia non è sintomo di sicuro ravvedimento del soggetto, il quale potrebbe strumentalizzare la collaborazione con la giustizia col sol fine di accedere ai benefici, pur non venendo meno quell’affectio societatis con l’associazione di tipo mafioso: la cessazione di tale affectio, difatti, deve essere il presupposto di una collaborazione genuina con la giustizia.
La Corte costituzionale, tuttavia, in un’ottica di “collaborazione istituzionale” – questi i termini che usa la Consulta – e quindi in un’ottica di rispetto degli equilibri istituzionali imposti da Costituzione, non dichiara l’illegittimità costituzionale ma, con ordinanza n. 97/2021, sospende il giudizio di costituzionalità (e anche il giudizio a quo, ossia il giudizio pendente dinanzi alla Corte di Cassazione, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale) invitando il Parlamento ad intervenire ed affrontare la materia, perché “spetta in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione […]; mentre compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”.
Cosa bisogna attendere
Occorrerà quindi attendere un intervento del legislatore entro maggio 2022 (data fissata dalla Corte per l’udienza di trattazione della questione di legittimità dopo la sospensione), e – se effettivamente il legislatore dovesse intervenire – analizzare anche in che termini e con che modalità ha posto fine all’incompatibilità dell’attuale disciplina con la Costituzione. Nel caso in cui, invece, non dovesse intervenire, sicuramente la Corte – dati i presupposti dell’ordinanza di sospensione – dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme censurate, ma anche in tal caso occorrerà analizzare in che termini avverrà la declaratoria di incostituzionalità, per poi valutare le ripercussioni sulla normativa e gli eventuali (e non sicuri) interventi del legislatore ex post la dichiarazione di incostituzionalità.
Informazioni
A. Diddi, Manuale di diritto penitenziario, seconda edizione, 2020, Pacini giuridica
Ordinanza Corte Costituzionale n. 97/2021 https://www.giurcost.org/decisioni/2021/0097o-21.html
[1] Per un’analisi dettagliata dei reati ostativi v. R. Giorli, “L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e i permessi premio”, in DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/30/larticolo-4-bis-dellordinamento-penitenziario-e-i-permessi-premio/.
[2] Testo dell’articolo 4-bis, comma 1: “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge o a norma dell’articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies e 630 del codice penale, all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni.”
[3] Le condizioni per l’accesso ai benefici variano a seconda che del tipo di reato che è stato commesso e a second della “fascia” in cui questo rientra. Per i reati di “prima fascia” (co. 1), è richiesta la collaborazione effettiva; per i reati previsti dal comma 1-ter è necessario che sia esclusa l’attualità dei collegamenti con l’associazione criminosa; per i reati previsti dal comma 1-quater è necessario che sia stato intrapreso un percorso di osservazione della personalità per almeno un anno, stante la particolare categoria di reati (si parla di reati a sfondo sessuale); infine, per i reati previsti dal comma 1-quinquies è necessario che sia intrapreso un programma di riabilitazione previsto per coloro che commettono reati sessuali a danno dei minorenni, per recuperarli appunto dalle parafilie di cui sono affetti e che hanno portato a tali tipi di reati.
[4] Ibidem
[5] Qui per ergastolo si intende la pena prevista dall’art. 22 c.p., che il legislatore – sulla base di scelte di politica criminale, rientranti nella sua piena discrezionalità – prevede nei confronti di alcuni reati. Pertanto, non si fa riferimento all’ergastolo ostativi ex art. 4-bis l. n. 354/1975.
[6] La liberazione anticipata comporta, infatti, la detrazione di 45 giorni di pena detentiva ogni 6 mesi di effettiva espiazione della pena, qualora nel semestre il soggetto abbia tenuto una condotta regolare ed abbia, quindi, raggiunto esiti positivi nel suo trattamento rieducativo. In tal caso, quindi, il soggetto potrà beneficiare di tale riduzione di pena, con la conseguenza che in un anno effettivo di detenzione il soggetto – qualora possa beneficiare in entrambi i semestri della liberazione anticipata, sussistendone i presupposti – può scontare in realtà un anno tre mesi di pena (45 giorni per due semestri, e quindi 90 giorni). In virtù di ciò si può affermare che il condannato all’ergastolo, che abbia beneficiato della liberazione anticipata, può ottenere la liberazione condizionale ben prima di aver scontato effettivamente 26 anni, e ciò per effetto della riduzione di pena derivante dalla liberazione anticipata stesa.
[7] Infatti, l’art. 4-bis l. n. 354/1975 prevede diversi reati da cui può derivare la pena dell’ergastolo. Uno su tutti è l’art. 416-bis c.p., che prevede l’associazione di tipo mafioso. Infatti, da tale reato potrebbe derivare la commissione di delitti-fine che portano alla pena dell’ergastolo, e quindi il soggetto potrebbe essere condannato, oltre che per il reato ex art. 416-bis c.p., anche per il delitto-fine che comporta la pena dell’ergastolo: in tal caso si applicherà l’ergastolo ostativo poiché appunto l’art. 416-bis rientra tra i reati ostativi. E proprio l’ergastolo ostativo in relazione a tale delitto è stato al centro della giurisprudenza EDU e costituzionale.
[8] Per approfondimento sul caso Viola c. Italia e, in generale, sulle altre garanzie previste dall’ordinamento nazionale e sovranazionale in materia penale, si v. G. De Lucia, “Diritto penale e garanzie penali supreme”, in DirittoConsenso http://www.dirittoconsenso.it/2019/07/09/diritto-penale-e-garanzie-costituzionali-supreme/
[9] Ritenuto in fatto dell’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale: https://www.giurcost.org/decisioni/2021/0097o-21.html
[10] Per approfondimento circa il contenuto di tali principi, si v. G. De Lucia, “Diritto penale e garanzie penali supreme”, in DirittoConsenso http://www.dirittoconsenso.it/2019/07/09/diritto-penale-e-garanzie-costituzionali-supreme/
Il Presidente della Repubblica
Ruolo e funzioni del Presidente della Repubblica quale Capo dello Stato e garante della Costituzione
Il Presidente della Repubblica, ossia il Capo dello Stato
Ai sensi dell’art. 87, co. 1, Cost. il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato[1] e rappresenta l’unità nazionale. Pertanto, essendo Capo dello Stato, egli è la prima carica nel nostro ordinamento e la più importante, date anche le funzioni che lo stesso art. 87 Cost., ma che anche altre disposizioni esplicitamente ovvero a seguito di lettura in combinato e, dunque, di interpretazione, attribuiscono a tale figura.
Il Presidente della Repubblica assume una posizione di terzietà rispetto a tutte le altre istituzioni democratiche presenti nel nostro assetto costituzionale: è super partes rispetto agli organi costituzionali che concorrono a formare la nostra forma di governo. Pertanto, egli non potrà ingerire negli affari del Governo o del Parlamento, anche se – come si vedrà – a volte svolge un ruolo decisivo nei confronti di questi.
Inoltre, il Presidente della Repubblica rappresenta, unitamente alla Corte Costituzionale, un organo di garanzia costituzionale, per i motivi che si diranno. Basti ora sottolineare che, a differenza della Corte Costituzionale, che rappresenta una garanzia costituzionale ex post, ossia dopo l’emanazione della legge, il Presidente della Repubblica rappresenta una garanzia costituzionale ex ante.
Tuttavia, la Costituzione – come si è detto – non prevede dettagliatamente le funzioni del Presidente della Repubblica, limitandosi a delineare soltanto i caratteri generali della sua funzione e del suo ruolo. Infatti, gli attribuisce esplicitamente i poteri più rilevanti, stabilisce esplicitamente la sua irresponsabilità politica e pone alcuni limiti al suo potere, ma non prevede tutte quelle funzioni che, ad oggi, sono effettivamente esercitate dal Capo dello Stato: pertanto, la maggior parte delle funzioni che oggi esercita il Presidente della Repubblica sono frutto della prassi presidenziale (si pensi, ad es., alle consultazioni in occasione della formazione del Governo, che non sono previste da alcuna disposizione costituzionale).
Elezione del Presidente della Repubblica
Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino italiano[2] che abbia compiuto i 50 anni di età e goda dei diritti civili e politici (art. 84 Cost.). La carica di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica e qualsiasi altra professione: una volta che il soggetto viene nominato Capo dello Stato non potrà più esercitare, per tutta la durata del suo mandato, la sua precedente professione o carica.
Il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune[3], su iniziativa del Presidente della Camera dei Deputati che, trenta giorni prima della scadenza del mandato, convoca il Parlamento in seduta comune, integrato da tre delegati regionali (ad eccezione della Valle d’Aosta, che ne ha uno) eletti dai rispettivi Consigli regionali. Nel caso di impedimento permanente, morte o dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera provvede alla convocazione del Parlamento in seduta comune entro quindici giorni.
Nel caso in cui le Camere siano sciolte, o se mancano meno di tre mesi dalla loro cessazione, all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica procederanno le nuove Camere entro quindici giorni dalla loro prima riunione: in tal caso, i poteri del Presidente della Repubblica scaduto sono prorogati fino all’elezione del suo successore.
Per l’elezione sono previste particolari maggioranze (maggioranze qualificate) da parte del Parlamento in seduta comune: infatti, è necessaria la maggioranza dei 2/3 dell’Assemblea, e viene pertanto eletto – per i primi tre scrutini – colui che raggiunge il voto dei 2/3 del Parlamento; dopo il terzo scrutinio la maggioranza si abbassa a quella assoluta, e quindi sarà necessario il voto favorevole del 50%+1 dei membri del Parlamento in seduta comune. Lo scrutinio è segreto.
La ratio di queste particolari maggioranze qualificate è da ricercarsi nel voler evitare che il Presidente della Repubblica sia espressione della maggioranza parlamentare in auge in quel determinato contesto storico-politico, ma che sia espressione invece di un ampio consenso parlamentare, consenso che tuttavia si riduce dopo il terzo scrutinio, per evitare che la situazione di stallo che si ha nei primi tre scrutini si protragga per troppo tempo, lasciando la carica scoperta.
Giuramento dinanzi le Camere e durata del mandato
Una volta eletto, il Presidente della Repubblica presta giuramento dinanzi al Parlamento in seduta comune, stavolta non più integrato dai delegati regionali: la prassi vuole che questo giuramento venga accompagnato da un discorso di insediamento, con il quale illustra le linee di azione alle quali si atterrà durante il proprio mandato.
La durata della carica è di sette anni. Anche la durata così lunga del mandato ha una sua ratio: infatti, si vuole “staccare” il Presidente della Repubblica dalla maggioranza parlamentare che lo ha eletto – dato che il Parlamento dura in carica cinque anni –, garantendo ancora di più la posizione di terzietà.
Nulla vieta che il Presidente della Repubblica possa essere rieletto: ne è un esempio la rielezione di Giorgio Napolitano nel 2013. Inoltre, alcuna disposizione costituzionale vieta che il Presidente della Repubblica scaduto possa concorrere alle elezioni nazionali.
Durante la carica il Presidente della Repubblica dispone di un assegno personale e di una dotazione, ossia nell’attribuzione del patrimonio indisponibile dello Stato e di alcuni immobili per la residenza del Presidente e per gli uffici presidenziali.
La carica può cessare, oltre che per scadenza naturale del mandato, anche per morte, impedimento permanente, dimissioni, decadenza per effetto della perdita di uno dei requisiti di eleggibilità, destituzione da parte della Corte costituzionale per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione.
Una volta che il Presidente della Repubblica ha cessato il suo mandato, egli diviene di diritto senatore a vita, tranne che nelle ipotesi di destituzione, di morte e di impedimento permanente.
Le funzioni del Presidente della Repubblica
L’art. 87 Cost. elenca una serie di funzioni che vengono attribuite in via esclusiva al Presidente della Repubblica. Ma dal dettato costituzionale si possono ricavare ulteriori funzioni.
Il Presidente della Repubblica gioca un ruolo chiave nella crisi di Governo e nella formazione dell’Esecutivo. Infatti, egli nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri (art. 92 Cost.). Inoltre, il Presidente della Repubblica, una volta aperta una crisi di governo, potrà o esercitare immediatamente il suo potere ex art. 92 Cost. oppure sciogliere anticipatamente le Camere: quest’ultima strada è da considerarsi come una extrema ratio, percorribile cioè soltanto qualora, a seguito delle consultazioni, non emerga una maggioranza parlamentare capace di dare la fiducia al Governo[4]. Tuttavia, il potere di scioglimento delle Camere non può essere esercitato negli ultimi sei mesi di mandato (c.d. semestre bianco), e questo per evitare che il Presidente della Repubblica sciolga il Parlamento con l’auspicio che si crei una nuova maggioranza che appoggi la sua rielezione.
Quanto alle consultazioni, si tratta di una prassi presidenziale, sviluppatasi fin dall’inizio della Repubblica. Tuttavia, trattandosi di prassi e non trattandosi di una regola sancita dalla Costituzione, il Capo dello Stato potrebbe anche non procedere alle consultazioni nell’ipotesi in cui la maggioranza parlamentare è così vasta da non lasciare spazi a dubbi circa la conseguente formazione del Governo. Il Capo dello Stato, infatti, conferisce l’incarico di formare il Governo alla personalità manifestata dalla maggioranza parlamentare (data da un partito uti singuli oppure, come accade il più delle volte, frutto di una coalizione)[5], ma qualora tale maggioranza parlamentare – frutto delle elezioni – sia palese, assoluta, il Presidente potrebbe anche non procedere a consultazioni, conferendo direttamente l’incarico: e dato che non si tratta di una regola costituzionalizzata, non si configurerebbe neanche il reato di attentato alla Costituzione ex art. 90 Cost. Ma comunque il Presidente della Repubblica ha sempre proceduto alle consultazioni, anche quando queste potevano sembrare del tutto superficiali.
Tra le altre funzioni attribuite al Presidente della Repubblica vi è la ratifica dei trattati internazionali, predisposti dal Governo ed eventualmente autorizzati dal Parlamento, qualora ciò sia richiesto dalla Costituzione (cfr. artt. 81 e 87 Cost.); accredita i rappresentanti diplomatici esteri; dichiara lo stato di guerra previa deliberazione delle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari; conferisce le onorificenze della Repubblica; indice referendum e le elezioni per il rinnovo delle Camere; concede la grazia e commuta le pene; autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi; emana il decreto di scioglimento dei Consigli regionali e la rimozione del Presidente della Giunta regionale che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge (art. 126 Cost.); presiede il Consiglio supremo di difesa e il Consiglio Superiore della Magistratura.
La promulgazione della legge
Ulteriore potere attribuito dalla Costituzione al Presidente della Repubblica è quello di promulgare le leggi. Precisamente, il Presidente della Repubblica deve procedere alla promulgazione della legge entro un mese dalla sua approvazione da parte del Parlamento.
È proprio nel procedimento di promulgazione della legge che si manifesta la funzione di garanzia costituzionale del Presidente della Repubblica. Infatti, egli accerta che la legge sia stata approvata secondo le prescrizioni costituzionali in materia di procedimento legislativo e soprattutto verifica la sua rispondenza ai principi costituzionali: qualora il Presidente della Repubblica ravvisi profili di illegittimità costituzionale potrà re-inviare la legge alle Camere, per sottoporla ad una nuova approvazione parlamentare.
Tuttavia, il potere di re-inviare la legge alle Camere potrà essere esercitato esclusivamente una volta sola, con la conseguenza che se il Parlamento approva nuovamente la legge il Presidente della Repubblica ha l’obbligo di promulgarla: qualora non lo faccia allora potrà essere messo in stato d’accusa dinanzi alla Corte Costituzionale dal Parlamento in seduta comune, poiché si sostanzierà il reato di attentato alla Costituzione. L’obbligo di promulgazione dopo il primo rinvio e nuova approvazione da parte delle Camere ha la sua ratio nel fatto che il Presidente della Repubblica non ha funzioni di indirizzo politico, né funzioni legislative o esecutive, e quindi non è lecita una sua interferenza nella volontà legislativa, segno in tal caso di una compartecipazione nella funzione legislativa, ma segno anche di manifestazione di un proprio indirizzo politico, e ciò dunque contrasterebbe con la Costituzione.
La dottrina costituzionale si è interrogata se la promulgazione da parte del Capo dello Stato possa ritenersi come parte integrante del procedimento legislativo. Infatti, la promulgazione concede efficacia alla legge, e quindi fino a quando essa non interviene la legge è priva di efficacia. Ma comunque la dottrina è orientata nel senso di negare che la promulgazione sia parte integrante del procedimento legislativo: questo sia per le ragioni su esposte in materia di rinvio alle Camere, sia perché l’art. 70 Cost. attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad entrambe le Camere, escludendo pertanto la partecipazione di altri organi: solo il Parlamento può emanare la legge. L’atto di promulgazione, pertanto, conferisce esclusivamente efficacia alla legge.
La responsabilità del Presidente della Repubblica
Il Presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, e a conferma di ciò vi è la mancanza di una disposizione costituzionale che permette la sua rimozione anticipata nel caso di responsabilità politica.
Ruolo chiave nella irresponsabilità del Presidente della Repubblica è giocato dalla c.d. controfirma ministeriale: infatti, l’art. 89 Cost. afferma che nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Pertanto, con la controfirma la responsabilità si trasferisce dal Presidente della Repubblica (che comunque firma l’atto) al membro del Governo controfirmante, e quindi si trasferisce la responsabilità al Governo; nel caso in cui il ministro proponente manchi, allora l’atto viene firmato dal ministro competente per materia. La controfirma è anche requisito di validità dell’atto adottato dal Presidente della Repubblica.
Per quanto riguarda invece la responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica, egli risponderà esclusivamente degli atti posti in essere al di fuori delle proprie funzioni: solo in questo caso nei confronti del Presidente della Repubblica sorgerà responsabilità al pari di un normale cittadino. Invece, per gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni, il Presidente della Repubblica non risponderà, nemmeno una volta cessato il suo mandato, se non nei soli casi di alto tradimento ed attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.).
Nelle ipotesi previste dall’art. 90 Cost. il Parlamento in seduta comune potrà mettere in stato d’accusa il Capo dello Stato, e competente a giudicarlo sarà la Corte Costituzionale, la quale potrà destituirlo qualora si accerti la sua responsabilità per alto tradimento o attentato alla Costituzione.
Informazioni
R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2016
P. CARETTI – U. DE SERVIO, Diritto costituzionale e pubblico, Giappichelli Editore, Torino, 2017
E. SPAGNA MUSSO, Diritto costituzionale, CEDAM, Padova, 1992
A. PISANESCHI, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2016
[1] Storicamente, il Presidente della Repubblica, in quanto a funzioni, può essere equiparato al Re, e precisamente le funzioni che precedentemente lo Statuto Albertino del 1848 affidava al Re, oggi sono affidate dalla Costituzione repubblicana al Capo dello Stato. Si pensi, a titolo di esempio, alla promulgazione della legge: oggi tale potere è affidato al Presidente della Repubblica, ma precedentemente questo ruolo era affidato al Re. Pertanto, il Presidente della Repubblica può essere assimilato, mutatis mutandis, al Re delineato dallo Statuto Albertino. Inoltre, così come il Presidente della Repubblica, anche il Re era il Capo dello Stato.
[2] La disposizione, in attuazione degli artt. 3 e 51 Cost, stabilisce che può ricoprire la carica di Capo dello Stato qualsiasi cittadino italiano, indipendentemente dal sesso. Quindi, nulla osta all’eventuale elezione di un Capo dello Stato di sesso femminile, anche se – fino ad oggi – il ruolo è stato ricoperto solo da cittadini di sesso maschile.
[3] Il Parlamento in seduta comune è l’organo composto da tutti i parlamentari, di entrambi i rami del Parlamento (deputati e senatori), per lo svolgimento di alcune particolari funzioni. Precisamente, esso viene presieduto dal Presidente della Camera dei Deputati, e il Parlamento si riunisce in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica, per il suo giuramento, per decidere sulla messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, per la votazione dell’elenco dei cittadini dal quale si sorteggiano i membri aggregati alla Corte costituzionale per giudicare sulle accuse mosse nei confronti del Presidente della Repubblica, per l’elezione dei cinque giudici costituzionali, per l’elezione di 1/3 dei componenti del CSM.
[4] Si ricordi, infatti, che la nostra forma di governo è una forma di governo parlamentare, e cioè il Parlamento – almeno sulla Carta e formalmente – è titolare di una sua centralità, e tra Governo e Parlamento intercorre una relazione di fiducia: venuta meno questa fiducia viene meno anche il Governo. Per un approfondimento sulle forme di governo si veda F. PACILÈ, “Le varie forme di governo parlamentare”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/10/le-varie-forme-di-governo-parlamentare/
[5] Si ribadisce quanto detto nella nota 4: non avrebbe senso conferire l’incarico ad una personalità esponente di una minoranza parlamentare, per il semplice fatto che il Governo formato da questa non riceverebbe la fiducia necessaria affinché l’Esecutivo possa ufficialmente operare, e si aprirebbe quindi prematuramente una crisi di Governo. Per questo, il Presidente della Repubblica conferisce mandato sempre all’esponente della maggioranza parlamentare, per questioni di stabilità politica e per evitare tali crisi premature di Governo. Si veda, limitatamente alla crisi di Governo e ai poteri del Presidente della Repubblica in tal caso G. DE LUCIA, “Governo Conte e crisi di governo”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2019/08/15/governo-conte-e-crisi-di-governo/
Libertà di riunione e di associazione
Libertà di riunione e libertà di associazione: differenze tra due diritti fondamentali del nostro ordinamento
La libertà di riunione e la libertà di associazione sono la stessa cosa?
La libertà di riunione e la libertà di associazione sono due tra i diritti fondamentali (rectius, costituzionali) che vengono garantiti dalla nostra Carta, i quali sono attuazione quindi dell’art. 2 Cost[1].
I due diritti di libertà sembrerebbero affini, sembrerebbe che la libertà di riunione coincida con la libertà di associazione, ma non è così: essi sono due diritti di libertà ben distinti. Ciò lo si evince in prima battuta dal testo costituzionale, il quale dedica alle due libertà due articoli, ossia gli artt. 17 e 18 Cost.:
- L’art. 17 Cost. stabilisce che “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”, e quindi riconosce la libertà di riunione.
- L’art. 18 Cost., invece, riconosce la libertà di associazione, affermando che “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”.
Quindi, il fatto che libertà di riunione e libertà di associazione costituiscono due diritti di libertà distinti si evince innanzitutto dal dettato costituzionale. Ma comunque non è agevole la differenza tra riunione e associazione, poiché essi hanno anche dei punti di contatto: infatti, entrambi sono costituiti dalla plurisoggettività e dal perseguimento di uno scopo comune.
Allora la dottrina ha distinto le due fattispecie facendo leva sul carattere temporaneo della riunione, mentre l’associazione sarebbe caratterizzata dalla stabilità, che si evince dalla presenza di un patto sociale, di un atto con il quale l’associazione si costituisce per raggiungere, nel tempo, il proprio scopo. Quindi, la differenza si baserebbe soprattutto su carattere della stabilità-temporaneità.
La libertà di riunione
Come si è detto, la libertà di riunione è riconosciuta dall’art. 17 Cost. Questo afferma che i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.
Dal primo comma dell’art. 17 Cost. quindi si evincono i due limiti-requisiti essenziali: la riunione deve essere pacifica, e quindi la riunione non deve dar luogo ad alcuna forma di violenza, di prevaricazione, che potrebbe avvenire per il mezzo delle armi. La riunione, pertanto, non deve provocare danni a cose e persone, e non deve quindi mettere in pericolo o addirittura ledere la sicurezza e l’incolumità pubblica.
Occorre fare una distinzione preliminare, dopo aver tracciato precedentemente la distinzione tra riunioni e associazione. L’altra distinzione che occorre fare è tra riunione e assembramenti: infatti, la riunione è la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo per perseguire uno scopo comune, e presuppone quindi un accordo tra i soggetti; l’assembramento, invece, è una “riunione” occasionale, nel senso che è una compresenza occasionale e causale di persone, non preventivamente accordata.
Per le riunioni private e per quelle che si svolgono in luogo aperto al pubblico (ad es., un cinema, un teatro, un circolo ecc.) non è richiesto il preavviso: pertanto queste possono essere poste in essere in qualsiasi momento senza che sia necessario il preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza, e pertanto non possono neanche essere vietate preventivamente, né essere sciolte: il loro scioglimento può avvenire soltanto qualora all’interno di esse sia stato posto in essere un comportamento penalmente rilevante, e quindi un reato, che legittima l’autorità di pubblica sicurezza ad intervenire.
Diverso discorso, invece, per quanto riguarda le riunioni in luogo pubblico: in tal caso, infatti, la Costituzione afferma che deve essere dato preavviso alle autorità, e queste possono vietarle preventivamente soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
Pertanto, a differenza delle riunioni private o che si svolgono in luogo aperto al pubblico, per le riunioni che si svolgono in luogo pubblico deve essere dato preventivo avviso alle autorità: non si tratta, però, di richiesta di autorizzazione, ma soltanto di una comunicazione alla stessa: l’autorità può vietare la riunione preventivamente soltanto se esistono fondati rischi per la sicurezza e l’incolumità pubblica.
Occorre però chiarire cosa si intende per luogo privato, luogo aperto al pubblico e luogo pubblico:
- Il luogo privato è quel luogo che è soggetto all’esclusivo potere di godimento e di disposizione da parte di un soggetto privato (il proprietario);
- il luogo aperto al pubblico è un luogo che è materialmente distinto dal luogo pubblico, e al quale è consentito l’accesso a determinate condizioni (ad es., l’essere socio, oppure comprare il biglietto);
- il luogo pubblico, invece, è quel luogo in cui tutti possono effettuare l’accesso senza preventiva autorizzazione, senza possedere alcun requisito, in quanto luogo che appartiene alla comunità e perciò a cui si può accedere liberamente.
Quali sono gli effetti del mancato preavviso?
L’orientamento più accoglibile sarebbe quello secondo cui il mancato preavviso – nel caso si tratti di riunione in luogo pubblico – non comporta lo scioglimento della riunione stessa, purché la riunione rispetti i requisiti di cui al 1° comma dell’art. 17, e quindi sia pacifica e si svolga senz’armi.
Pertanto, l’autorità di pubblica sicurezza può intervenire e sciogliere la riunione qualora questa diventi potenzialmente pregiudizievole per l’incolumità e la sicurezza pubblica, e quindi perda i caratteri previsti dallo stesso art. 17 Cost.; in caso contrario, la riunione non potrà essere sciolta e/o vietata.
La libertà di associazione
L’art. 18 Cost. prevede, come si è detto, la libertà di associazione, riconoscendo ai cittadini il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Si ritiene che per associazione si debba intendere un’organizzazione stabile tra persone, che intendono perseguire un determinato scopo comune. L’associazione si ricollega, pertanto, all’art. 2 Cost., il quale stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, costituendo l’associazione, quindi, una formazione sociale.
Per associarsi non è necessaria alcuna autorizzazione e l’associazione non richiede, per la sua costituzione, la preventiva autorizzazione[2] da parte della Pubblica Amministrazione.
La libertà di associazione è garantita sia in positivo, sia in negativo:
- libertà di associazione “in positivo” significa che tutti possono liberamente associarsi, entrando a far parte di un’associazione già esistente o costituendo egli stesso una nuova associazione;
- libertà di associazione “in negativo”, invece, significa che è riconosciuta, sempre dallo stesso art. 18 Cost., anche la libertà di non associarsi.
Inoltre, è necessario che l’associazione non persegua fini che siano vietati ai singoli dalla legge penale, e quindi non deve perseguire fini illeciti, e cioè non deve essere volta ad attuare comportamenti che siano previsti dalla legge penale come reati: in caso contrario si potrà concretizzare il reato di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) oppure di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), qualora ne ricorrano i presupposti[3]. Ma comunque, l’art. 18 Cost. è attento a specificare che l’associazione non debba perseguire fini che siano vietati ai singoli dalla legge penale: ciò che è permesso fare, dalla legge penale, ai singoli, è permesso fare anche all’associazione, costituendo quest’ultima proiezione delle persone che la compongono.
Il 2° comma dell’art. 18 Cost., inoltre, vieta le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. Lo scopo della norma è quello che di evitare che si creino associazioni che possano sovvertire l’ordinamento costituito, l’ordinamento statuale. Si è affermato che la ratio del divieto consiste anche nel fatto che si voglia evitare che le associazioni, qualora abbiano fine politico, si giovino dell’utilizzo di mezzi violenti – quali anche quelli militari appunto – anziché del pacifico confronto e della civile dialettica.
Per associazione segreta si intende quell’associazione che occulta i fini che persegue al fine di sovvertire l’ordinamento democratico (si pensi, ad es., alla Loggia P2), ma non si intende quell’associazione che resta nascosta occultando la sua esistenza, qualora persegua dei fini leciti (ad es., la massoneria).
La disposizione di cui all’art. 18 Cost. è ricollegabile alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, la quale afferma che è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partita fascista: vi è un collegamento tra le due disposizioni poiché il partito fascista era un partito paramilitare, che faceva utilizzo di armi e dello squadrismo, e una volta ricostruito questo potrebbe avere come fine il sovvertire l’ordinamento costituzionale e democratico.
Specificazione dell’art. 18 Cost.
Per trattare fino in fondo la libertà di riunione e la libertà di associazione bisogna fare un’ultima considerazione. L’art. 18 Cost. trova una sua specificazione negli artt. 39 e 49 Cost.
Precisamente, l’art. 39 Cost. al 1° comma riconosce la libertà di organizzazione sindacale, e anch’essa è garantita (così come la libertà di associazione ex art. 18 Cost.), tanto in positivo quanto in negativo: significa che il lavoratore può liberamente costituire una nuova associazione sindacale[4] oppure liberamente aderire ad associazioni sindacale già esistenti, senza per questo essere discriminato sul posto di lavoro (libertà in positivo); oppure il lavoratore è libero anche di non aderire ad alcuna associazione sindacale, non potendo essere pertanto obbligato a farne parte.
L’art. 49 Cost., invece, afferma il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, riconoscendo pertanto la libertà di associazione politica, sulla stregua della libertà di associazione ex art. 18 Cost.
I partiti politici rappresentano un’associazione di persone con una ideologia politica comune, che concorrono “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Per politica nazionale però non deve intendersi esclusivamente la politica a livello centrale, ossia quella gestita dall’Esecutivo e dal Parlamento, ma anche la politica a livello locale. Pertanto, rientrano nella copertura ex art. 49 Cost. quelle associazioni politiche che concorrono non solo a partecipare alle Camere del Parlamento, ma anche alle Assemblee degli enti territoriali (Regioni, Comuni, Città metropolitane). Anche per le associazioni politiche valgono i limiti previsti dall’art. 18 Cost., ossia non possono essere segrete, non possono avere carattere militare, e non è possibile riorganizzare il partito fascista ex XII disp. fin.
Informazioni
R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, 2019.
P. Caretti – G. Tarli Barbieri, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli Editore, Torino, 2017.
A. Pisaneschi, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, 2018.
[1] In materia di diritti costituzionale v. G. DE LUCIA, “I diritti costituzionali”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/20/i-diritti-costituzionali/
[2] Il carattere della mancanza di autorizzazione permette di distinguere l’attuale sistema da quello fascista, in cui era invece previsto un controllo preventivo da parte dell’autorità pubblica e l’associazione poteva quindi essere repressa sul nascere qualora si riteneva andasse contro i principi del partito fascista e potesse, quindi, essere sovversiva o comunque pregiudicare la stabilità del partito fascista
[3] Cfr. L. VENEZIA, “L’articolo 416 bis del codice penale italiano”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2018/06/07/l-articolo-416-bis-del-codice-penale-italiano/
[4] È grazie alla libertà sindacale ex art. 39, co. 1, Cost. che, successivamente all’entrata in vigore della Carta costituzionale, ha preso avvio in Italia il fenomeno del pluralismo sindacale, che si distingue nettamente dal precedente regime, in cui invece erano stati soppressi i sindacati.
Diritto alla vita e tutela della dignità
La vita e la dignità tra ordinamento costituzionale e fonti internazionali: il diritto alla vita e la tutela della dignità
Vita e dignità quali valori costituzionali interni (a cura di Gennaro De Lucia)
La nostra Costituzione costituisce il fondamento del diritto alla vita e della tutela della dignità umana. Le disposizioni che vengono in rilievo sono essenzialmente gli artt. 2 e 3 Cost.
L’art. 2 Cost.[1] stabilisce il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità: naturalmente, tra i diritti inviolabili dell’uomo, intangibili e propri dell’essere umano in quanto tale, vi rientra la vita.
La vita però non trova un riconoscimento esplicito nella nostra Carta costituzionale, in quanto nessuna disposizione prevede espressamente una tutela del diritto in questione. Il diritto alla vita viene riconosciuto implicitamente dalla Costituzione e la sua tutela costituzionale si rinviene da una lettura in combinato degli artt. 2, 27 e 32 Cost.
L’art. 3 Cost. prevede espressamente che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge ed hanno pari dignità sociale: la dignità umana, quindi, trova fondamento nell’art. 2 Cost. quale diritto inviolabile e viene riconosciuta, in misura eguale, a tutti i cittadini in conformità del principio di non discriminazione ex art. 3 Cost.
La dignità costituisce un tutt’uno con i diritti fondamentali e con la persona[2]. Infatti, i diritti fondamentali (ovvero, diritti costituzionali o inviolabili) riconosciuti dall’art. 2 Cost. ineriscono la persona umana, e sono propri dell’uomo in quanto tale: con il riconoscimento dei diritti inviolabili si riconosce, correlativamente, dignità umana. Pertanto, si può affermare che il riconoscimento dei diritti costituzionali tutelati ex art. 2 Cost. sono strumentali all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità umana.
Diritti inviolabili e dignità umana, collegati tra loro da un nesso – come abbiamo appena affermato – sono propri della persona in quanto tali, e preesistono allo stesso Stato e al diritto in generale. Infatti, si parla sempre di “riconoscimento” e mai di attribuzione dei diritti inviolabili dell’uomo e della giusta dignità umana. Pertanto, “l’uomo è anteriore allo Stato”[3] e al diritto per quanto attiene i diritti fondamentali.
Oltre all’art. 3 Cost., vi sono altri richiami espressi alla dignità nella Carta costituzionale: l’art. 36 Cost. stabilisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione che sia sufficiente ad assicurare a lui ed alla sua famiglia una vita libera e dignitosa; l’art. 41 Cost. stabilisce il rispetto della dignità umana quale limite all’iniziativa economica privata. Inoltre, vi sono altri riferimenti impliciti alla dignità umana.[4]
Diritto all’autodeterminazione tra Costituzione e legge ordinaria (a cura di Gennaro De Lucia)
Il diritto all’autodeterminazione è altro diritto inviolabile e fondamentale dell’individuo e consiste nella libera scelta del soggetto su questioni soprattutto bioetiche, questioni che attengono specialmente a trattamenti sanitari: pertanto, il diritto all’autodeterminazione inerisce al diritto alla libera scelta circa i trattamenti sanitari a cui sottoporsi e circa le cure a cui accedere. Vi è chi parla del diritto all’autodeterminazione quale diritto di libertà consistente nell’immunità da costrizioni o proibizioni[5].
Per quanto attiene il diritto all’autodeterminazione nell’ordinamento italiano, questo non trovava un riconoscimento espresso prima del 2017: infatti, la l. n. 219/2017[6] è stata la prima legge a prevedere espressamente la tutela del diritto all’autodeterminazione.
La l. n. 219/2017, in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento (DAT), all’art. 1 afferma:
“La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.”
Quindi, l’art. 1 richiama in primis gli artt. 2, 13 e 32 Cost., stabilendo che, in attuazione di essi, la l. n. 219/2017 tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona.
L’art. 2 Cost., come abbiamo visto più volte, tutela i diritti inviolabili dell’uomo e la vita, la salute, la dignità e l’autodeterminazione sono tutti diritti che rientrano sotto la tutela della disposizione costituzionale appena richiamata.
L’art. 13 Cost. tutela, invece, la libertà personale, e tale disposizione quindi è quella che si riferisce più precisamente al diritto all’autodeterminazione: libertà personale che si esplica, quindi, anche come libera scelta dei trattamenti sanitari e delle cure a cui sottoporsi.
La legge in esame, dunque, tutela il diritto all’autodeterminazione: essa disciplina il c.d. consenso informato e le DAT. Il paziente, infatti, ha il diritto di ricevere una corretta e completa informazione circa il suo stato di salute e le conseguenze dei trattamenti sanitari e delle cure alle quali sarà sottoposto, potendo scegliere liberamente se sottoporvisi o meno; con la sottoscrizione delle DAT, invece, il soggetto sceglie, dopo un’adeguata informazione da parte del medico, a quali trattamenti sottoporsi e quali trattamenti invece rifiutare, in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi (art. 4, l. n. 219/2017).
La l. n. 219/2017, quale legge che tutela il diritto all’autodeterminazione, è stata anche richiamata dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 242/2019, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. (istigazione ed aiuto al suicidio) “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” [7].
Con tale sentenza, che si inserisce nel c.d. caso Cappato, la Consulta ha preso una posizione importante, laddove in attuazione degli artt. 2, 13 e 117, co. 1, Cost., ha dato rilievo al diritto all’autodeterminazione del soggetto, il quale può liberamente scegliere di morire, ma in presenza di alcuni presupposti oggettivi: l’essere affetto da patologie irreversibili che comportano sofferenze fisiche e psichiche; che la procedura di suicidio assistito venga effettuata nel rispetto della l. n. 219/2017 e presso strutture pubbliche del SSN. Quindi, si dà comunque rilievo ad una visione oggettiva e non soggettiva di sofferenza, poiché essa deve essere valutata in termini clinici, secondo parametri medici, e non in base alla sensibilità personale, poiché ciascuno di noi ha una diversa percezione del dolore e della sofferenza fisica e psichica.
Si afferma, pertanto, un diritto all’autodeterminazione strettamente correlato alla dignità umana, e nello specifico al diritto ad una vita dignitosa: diritto ad una vita dignitosa che viene compromesso e leso da situazioni in cui il soggetto è forzatamente tenuto in vita da macchinari e questi non presenta livelli sufficienti di autonomia.
Il diritto alla vita e la tutela della dignità nell’ordinamento sovranazionale (a cura di Angela Federico)
In ragione degli artt. 10 – 11 – 117 Cost., grazie ai quali è possibile configurare l’adattamento dell’ordinamento interno a quello sovranazionale, trovano ingresso nel sistema costituzionale italiano fonti europee ed internazionali, anche in materia di diritto alla vita e tutela della dignità umana.
Nel diritto internazionale consuetudinario[8] tali diritti esistenziali trovano ragion d’essere nel divieto di genocidio, torture, assassinio di massa, discriminazioni etniche e razziali, riduzione in schiavitù. Tuttavia una tutela più specifica della vita e della sua dignità è assicurata dal diritto pattizio[9]: a titolo esemplificativo si pensi alla Carta della Nazioni Unite del 1945, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio dello stesso anno, alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo del 1950[10] e, last but not least, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000[11].
Questo complesso di fonti internazionali consente di ritenere che sono maturi i tempi per riconoscere una soggettività internazionale, seppur limitata, agli individui, laddove anche essi – oltre agli Stati – sono destinatari di diritti e obblighi. In ordine ai primi è assicurata una tutela non solo sostanziale, bensì anche processuale in ragione della possibilità di ricorso ad alcune Corti internazionali[12]; in ordine agli obblighi, invece, vi è una responsabilità penale individuale (e, solo a determinate condizioni anche dello Stato) in seguito alla commissione di crimina iuris gentium[13].
La misura di quanto fin qui analizzato è data dal fatto che nella Comunità internazionale si è passati da un generale divieto di ingerenza degli affari interni ad un’erosione della domestic jurisdction a motivo della tutela dei diritti fondamentali.
La CEDU, la CDFUE e la funzione diplomatica della dignità (a cura di Angela Federico)
Un’analisi più precipua non può non riguardare il sistema integrato dei diritti fondamentali nell’ambito europeo.
Nel para-ordinamento CEDU è esplicitamente riconosciuto solo il diritto alla vita ai sensi dell’art. 2, il quale obbliga gli Stati parte a non attentare arbitrariamente alla vita dei propri cittadini, riconoscendone la titolarità alla persona. Tale ultima specificazione consente di escludere dal novero dei titolari i nascituri, di modo da consentire l’adozione di legislazioni in materia di interruzione volontaria della gravidanza, quando la sua prosecuzione arrechi rischi alla salute della gestante. La CEDU non disciplina la tutela della dignità; tuttavia la Corte di Strasburgo in 876 casi ha richiamato tale parametro al fine di una garanzia sostanziale del più generale diritto alla vita: ex multis, si veda il caso Pretty c. Regno Unito in materia di accesso ad una procedura medicalizzata di fine vita.
Diversamente la CDFUE garantisce – rispettivamente agli artt. 1 e 2 – sia la tutela della dignità che della vita. Benché vi siano questi riferimenti normativi tra le fonti UE, la Corte di Lussemburgo non ha inteso elaborare un trend unitario nella tutela della dignità: essa talvolta è utilizzata quale parametro per verificare la legittimità degli atti delle Istituzioni europee, talaltra quale diritto oggetto di bilanciamento[14].
La presenza di Carte internazionali volte alla tutela della dignità – di cui la CEDU e la CDFUE costituiscono solo un paradigma – ne evidenzia la sua funzione diplomatica: molti negoziati, avviati tra i ministri plenipotenziari per la conclusione dei trattati internazionali, trovano la loro fonte nella tutela della dignità della persona. Un recente ma zoppicante esempio è offerto, infatti, dal Trattato di proibizione delle armi nucleari firmato nel 2017 da 79 Stati, ma tuttavia non entrato in vigore per il mancato raggiungimento del numero di ratifiche necessarie.
Informazioni
U. ADAMO, “In mancanza di risposte da parte del Legislatore e in attesa di quelle che potrà comunque darne, la Corte decide sui profili della regolazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato” in Consulta online, 2019.
P. BILANCIA, “Dignità umana e fine vita in Europa. Liber amicorum per Pasquale Costanza” in Consulta online, 2020
M. D’AMICO, “Il fine vita davanti alla Corte Costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici. Considerazioni a margine della sent. n. 242/2019”, in Osservatorio Costituzionale, 2019
A. DI STASI, “Brevi considerazioni intorno all’uso giurisprudenziale della nozione di dignità umana da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea” in Temi e questioni di diritto dell’Unione europea. Scritti offerti a Claudia Morviducci, pp.861-873, Bari Cacucci Editore, 2019.
A. DI STASI, “Human Dignity as a Normative Concept. Dialogue Between European Courts (ECtHR and CJEU)?” in Judicial Power in a Globalized World. Liber Amicorum Vincent de Gaetano, pp.115-130, Springer Nature Switzerland, 2019.
L. FERRAJOLI, “Dignità e libertà”, in Rivista di filosofia del diritto, il Mulino, 2019.
[1] In materia di diritti inviolabili dell’uomo cfr. G. DE LUCIA, “I diritti costituzionali”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/20/i-diritti-costituzionali/
[2] L. FERRAJOLI, “Dignità e libertà”, in Rivista di filosofia del diritto, il Mulino, 2019
[3] Così come affermato, nella seduta del 9 settembre 1946 dell’Assemblea Costituente, da Giuseppe Dossetti, con il benestare anche di Palmiro Togliatti, il quale affermava che anche se lo Stato dovesse scomparire, questo non comporterà lo scomparire anche della persona umana e dei suoi diritti. Cfr. Resoconto stenografico della seduta del 9 settembre 1946 della Prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente
[4] Ci riferiamo, per esempio, all’art. 32 Cost., il quale stabilisce che la legge può imporre dei trattamenti sanitari (parliamo del c.d. TSO), purché rispettino la persona umana, e qui il richiamo è riferito anche alla dignità umana. Oppure si pensi anche all’art. 13 Cost., il quale stabilisce che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà, collegabile all’art. 27 Cost., il quale stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti inumani. Anche l’art. 22 Cost. può, ad avviso di chi scrive, essere considerato come un richiamo implicito alla dignità, in quanto si afferma che nessuno può essere privato, per motivi politici, della cittadinanza, della capacità giuridica e del nome, situazioni che si inseriscono comunque nell’identità personale e quindi nella dignità dell’individuo
[5] Cfr. L. FERRAJOLI, op. cit.
[6] V. più diffusamente ed approfonditamente G. IORILLO, “Vita e consenso: un excursus sulla L. 219/2017”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/16/vita-e-consenso-excursus-l-219-2017/
[7] Per un commento della sentenza v. più diffusamente G. DE LUCIA, articolo cit.; cfr. M. D’AMICO, “Il fine vita davanti alla Corte Costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici. Considerazioni a margine della sent. n. 242/2019”, in Osservatorio Costituzionale, 2019; U. ADAMO, “In mancanza di risposte da parte del Legislatore e in attesa di quelle che potrà comunque darne, la Corte decide sui profili della regolazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato”, in Consulta Online, 2019
[8] La cui norma costituzionale di adattamento è l’art. 10 Cost.
[9] La cui norma costituzionale di adattamento è l’art. 117 Cost., alla quale si aggiunge l’art. 11 Cost. quando la fonte giuridica è rappresentata da un accordo internazionale che è anche trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale
[10] Da adesso in poi CEDU
[11] Ma divenuta vincolante con il Trattato di Lisbona. Da adesso in poi CDFUE
[12] Si pensi alla Corte europea dei diritti dell’uomo che può essere adita dagli individui previo esaurimento dei ricorsi interni ovvero alla Corte di Giustizia UE limitatamente ai giudizi per carenza e di annullamento
[13] Crimini contro l’umanità, di guerra, contro la pace, genocidio
[14] Per approfondimenti sul tema A. DI STASI, “Brevi considerazioni intorno all’uso giurisprudenziale della nozione di dignità umana da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea” in Temi e questioni di diritto dell’Unione europea. Scritti offerti a Claudia Morviducci, pp.861-873, Bari Cacucci Editore, 2019
I diritti costituzionali
I diritti costituzionali sono il nucleo centrale del nostro Stato di diritto, garanti della nostra persona e libertà
Breve introduzione storica ai diritti costituzionali
I diritti costituzionali sono il nucleo forte di qualsiasi Stato di diritto, di qualsiasi democrazia basata su una Costituzione garantista e liberale, e la nostra Costituzione si inserisce tra queste.
In Italia già vigeva una Carta Costituzionale (rectius, Legge fondamentale[1]), che era lo Statuto Albertino, concesso dal Re Carlo Alberto di Savoia ai sudditi del Regno di Sardegna, anche sulla base delle istanze di questi ultimi.
Lo Statuto Albertino rimase vigente fino all’entrata in vigore della nostra attuale Costituzione, e non sarà questa la sede della comparazione delle due Carte Costituzionali[2]. Nel periodo fascista, a partire dalle leggi fascistissime del 1925, per poi passare alle leggi razziale del 1938, effettivamente non si ebbe una revisione dello Statuto: esso, infatti, rimase sempre nella sua originaria formulazione senza subire alcuna modifica ufficiale da parte del legislatore. Quindi, non si ebbe alcun procedimento di revisione costituzionale, ma essenzialmente una deroga a quella che allora era la Legge fondamentale.
Si derogarono, com’è noto, alcuni diritti di libertà e principi fondamentali che erano riconosciuti dallo Statuto, come ad esempio il principio di uguaglianza tra regnicoli e la libertà di stampa.
Con l’avvento della Costituzione, però, si impose, all’art. 138 Cost., un procedimento di revisione costituzionale aggravato[3]. La conseguenza è che quanto previsto dalla Costituzione non può essere derogato, in quanto norma fondamentale dell’intero ordinamento giuridico. Pertanto tutte le altre norme devono conformarsi ad esso.
Ratio della costituzionalizzazione di alcuni diritti fondamentali
La ratio della rigidità della Costituzione repubblicana è da ricercarsi appunto in quanto accaduto sotto il regime fascista con la precedente Costituzione. E anche la ratio della costituzionalizzazione di alcuni diritti di libertà è da ricercarsi nel precedente regime totalitario, in quanto si annientarono tutte le libertà e i diritti fondamentali dell’individuo in ragione di un interesse super-individuale che era quello del regime.
La Costituzione, pertanto, si pone come punto di rottura con il precedente regime, come lo si può evincere dall’intera impalcatura costituzionale.
Diritti inviolabili e art. 2 Cost.
La persona costituisce il soggetto intorno al quale gravitano diritti e doveri, e quindi la persona è posta al centro della nostra Carta costituzionale.
Nella Prima Parte della Costituzione, rubricata “Dei diritti e dei doveri dei cittadini (artt. 13-54 Cost.), sono previste una serie di diritti di libertà, inviolabili, che trovano il loro riconoscimento e la loro tutela in primis nell’art. 2 Cost.
Quest’ultimo, infatti, afferma che:
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”
Importantissimo è concentrarsi sul verbo utilizzato dall’Assemblea Costituente per la scrittura di tale disposizione: “riconosce”. Ciò sta a ribadire che i diritti inviolabili dell’uomo non vengono concessi dal legislatore, dallo Stato, poiché se così fosse quest’ultimo potrebbe in qualsiasi momento disconoscerli, potrebbe in qualsiasi momento eliminarli mediante una novazione legislativa. “Riconoscere” i diritti inviolabili dell’uomo, invece, significa che la Repubblica ha contezza del fatto che esistono dei diritti che sono propri dell’individuo in quanto tale, e che pertanto sono intangibili. Quindi, in prima istanza è importante concentrarsi sul linguaggio utilizzato dalla disposizione costituzionale, sul significato delle parole ivi contenute.
La norma di cui all’art. 2 Cost. è una norma aperta, in quanto non stabilisce quali siano i diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica riconosce e garantisce. Questo ha comportato negli anni ad un ampliamento del catalogo dei diritti inviolabili che hanno trovato una copertura ed una garanzia costituzionale, proprio in virtù della formulazione letterale della norma. Infatti, soprattutto la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione spesso hanno fatto rientrare alcuni diritti sotto l’ambito di tutela dell’art. 2 Cost., ma soprattutto ciò è avvenuto ad opera della Corte di Strasburgo, la quale, interpretando ed attuando la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti CEDU), ha dato impulso anche alle Corti interne, specie alla Corte Costituzionale, di tutelare alcune situazioni come diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.
La Costituzione tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo come singolo, si sottolinea il valore costituzionale della persona, e quindi si pone al centro dell’ordinamento la persona, e quindi si attua il c.d. principio personalistico.
Poi, si riconoscono i diritti inviolabili anche nei confronti della persona che partecipa a formazioni sociali che sono funzionali allo sviluppo della personalità[4]. La Costituzione quindi è attenta a tutelare l’individuo in quelle comunità di cui l’uomo ha bisogno affinché possa liberamente sviluppare la propria personalità. Ma comunque, la Costituzione riconosce i diritti del singolo individuo quale partecipante alle formazioni sociali: ciò significa che comunque il destinatario della tutela di cui all’art. 2 Cost. è l’individuo.
Ma quali diritti vengono costituzionalmente tutelati?
In virtù della formula aperta dell’art. 2 Cost., vengono tutelati non solo i diritti che trovano un’espressa menzione nella Carta Costituzionale, ossia i diritti di libertà previsti dagli artt. 13 ss. Cost., ma anche quelli che possono essere ricavati implicitamente dall’intera impalcatura costituzionale.
Si pensi al diritto alla vita: la vita non trova un’espressa tutela ed un espresso riconoscimento della Costituzione, eppure è considerato il diritto fondamentale per eccellenza. Tuttavia, la sua tutela e il suo riconoscimento può essere desunto da una lettura in combinato dei vari articoli della Costituzione, ossia degli artt. 2 e 32 Cost., il quale riconosce il diritto alla salute (e la vita è naturalmente correlata alla salute dell’individuo); inoltre, trova un riconoscimento rafforzato anche in sede penale, all’art. 27 Cost., il quale stabilisce che non è ammessa la pena di morte.
Pertanto, sulla scorta di quanto detto, trovano tutela nell’art. 2 Cost. anche i diritti inviolabili che si ricavano attraverso un’attività ermeneutica e una lettura in combinato delle disposizioni costituzionali.
Ciò non toglie, comunque, che alcuni diritti inviolabili trovano un espresso riconoscimento nella Costituzione: la Prima Parte della Costituzione, infatti, contiene una serie di disposizioni direttamente collegabili all’art. 2 Cost. in quanto riconoscono espressamente alcuni diritti di libertà e, dunque, alcuni diritti inviolabili. Tra questi vi rientrano:
- la libertà personale (art. 13 Cost.),
- la libertà di domicilio (art. 14 Cost.),
- la libertà di comunicazione (art. 15 Cost.),
- la libertà di circolazione (art. 16 Cost.),
- la libertà di riunione (art. 17 Cost.),
- la libertà di associazione (artt. 18 e 39 Cost., quest’ultimo precisamente tutela la libertà di organizzazione sindacali, specificazione della libertà di associazione),
- la libertà di culto (art. 19 Cost.),
- la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.)[5].
I diritti tutelati costituzionalmente, però, non sono solo quelli previsti espressamente dalla Costituzione o ricavabili implicitamente da essa, ma anche quelli positivizzati in alcune Convenzioni internazionali, specie la CEDU.
Infatti, quest’ultima prevede una serie di diritti inviolabili e libertà fondamentali, e spesso sulla scorta delle interpretazioni fornite alla CEDU da parte della Corte di Strasburgo (la quale ha il compito di interpretare e dare attuazione alle disposizioni previste dalla CEDU[6]) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme interne proprio per violazione dell’art. 2 Cost.
Diritti costituzionali e revisione costituzionale
In virtù della rigidità della Costituzione, come si è sopra affermato, il procedimento di revisione costituzionale è un procedimento aggravato rispetto all’ordinario procedimento legislativo.
Vi sono dei limiti alla revisione della Costituzione, alcuni espliciti, altri elaborati dall’interpretazione della Corte Costituzionale.
Precisamente, l’art. 139 Cost., in chiusura della Carta, afferma che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Inoltre, non possono essere oggetto di revisione costituzionale i Principi fondamentali, e quindi gli artt. 1-12 Cost. Tra questi, come si è visto, vi rientra anche l’art. 2 Cost. in materia di diritti inviolabili dell’uomo. E allora è da chiedersi se, la preclusione di revisione costituzionale che ricade sull’art. 2 Cost. in quanto principio fondamentale, si riflette e si estende anche nei confronti dei diritti costituzionali sopra menzionati (artt. 13 ss. Cost.).
La risposta è in parte affermativa, in parte negativa. Infatti, la Corte Costituzionale, con sent. 1146/1988, ha affermato che i principi supremi riconosciuti dalla Costituzione non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali[7]. Pertanto, i diritti di libertà previsti dagli artt. 13 ss. Cost. possono essere modificati purché non si intacchi il loro nucleo essenziale.
Informazioni
Sent. Corte Costituzionale n. 1146/1988 http://www.giurcost.org/decisioni/1988/1146s-88.html
I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Relazione predisposta in occasione dell’incontro della delegazione della Corte Costituzionale con il Tribunale costituzionale della Repubblica di Polonia, 2006
[1] Questa era la definizione contenuta nello stesso “Preambolo” dello Statuto Albertino del 1848
[2] Basti qui ricordare che lo Statuto Albertino rientra tra le cc.dd. costituzioni flessibili, ossia che possono essere modificate con una legge ordinaria del Parlamento, in contrapposizione alle cc.dd. costituzione rigide, le quali richiedono un procedimento legislativo di revisione costituzionale ad hoc, aggravato rispetto a quello ordinario
[3][3] In materia di revisione costituzionale v. G. DE LUCIA, “La revisione costituzionale: tra procedimento e limiti”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/19/la-revisione-costituzionale-tra-procedimento-e-limiti/
[4] Tra le formazioni sociali possono rientrare le associazioni (l’art. 18 Cost. riconosce e tutela il diritto di associarsi liberamente per fini leciti); oppure la famiglia, che trova una tutela anche nell’art. 29 Cost. Con riguardo alla famiglia, l’art. 29 Cost. fa riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio, e quindi sono escluse le unioni civili e le convivenze di fatto, le quali trovano invece una tutela costituzionale proprio nell’art. 2 Cost., in quanto formazioni sociali ove si svolge la personalità dei soggetti. Sulle unioni civili, si v. F. PACILÈ “Le unioni civili”, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/
[5] In riferimento al diritto di manifestazione del pensiero v. G. DE LUCIA, “Art. 21 Cost.: la libertà di manifestazione del pensiero”, in DirittoConsenso. http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/08/art-21-cost-libera-manifestazione-pensiero/.
[6] Si ricordi che la CEDU e la Corte di Strasburgo (ovvero Corte dei Diritti dell’uomo) non appartengono al circuito dell’Unione europea. Quest’ultima, infatti, ha una propria normativa, un proprio ordinamento autonomo rispetto a quello della CEDU, ed ha anche una propria autorità giurisdizionale che è la Corte di Giustizia dell’Unione europea. La CEDU, piuttosto, si inserisce nel meccanismo del Consiglio d’Europea, nell’ambito del quale appunto è stata firmata la CEDU
[7] V. Corte Costituzionale sent. 1146/1988, http://www.giurcost.org/decisioni/1988/1146s-88.html
Art. 21 Cost.: la libera manifestazione del pensiero
Analizziamo uno dei diriti più importanti della nostra democrazia, stabilito dall’art. 21 Cost.: la libera manifestazione del pensiero e i suoi limiti
Art. 21 Cost.: l’importanza della norma
L’art. 21 Cost., al 1° comma, così dispone:
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”
Tale norma può essere definita come una norma aperta, una sorta di contenitore nel quale confluiscono quelle situazioni che, seppur non espressamente previste, possono comunque rientrare nella tutela della norma costituzionale. Infatti, l’art. 21 Cost. riconosce[1] il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero non solo con la parola e lo scritto, ma anche con ogni altro mezzo di diffusione[2].
Queste norme costituzionale cc.dd. aperte permettono alla Costituzione di respirare, in quanto permettono di far rientrare nella tutela costituzionale anche situazioni che, al momento in cui la Carta fu scritta (parliamo del 1947), non esistevano né erano immaginabili.
La libertà di manifestazione del pensiero è una pietra angolare della democrazia e di uno Stato di diritto, così come affermato dalla Corte Costituzionale più volte fin dalle sue prime sentenze. Infatti, così come affermato dalla Consulta, “è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle […] che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale” (sent. n. 9/1965): quindi, il diritto di cui all’art. 21 è forse “il diritto più alto dei diritti primari e fondamentali sanciti dalla Costituzione” – parafrasando quanto affermato dalla Consulta (sent. n. 168/1971).
Libera manifestazione del pensiero: in cosa consiste?
Ma in cosa si sostanzia la libera manifestazione del pensiero riconosciuta dall’art. 21 Cost.?
Essa comporta il fatto che ciascun soggetto può crearsi liberamente un proprio pensiero e manifestarlo in qualunque luogo e con qualunque mezzo: chiunque, quindi, può manifestare le proprie idee.
Tuttavia, l’art. 21 Cost. stabilisce il diritto del soggetto a manifestare il proprio pensiero e non l’obbligo: ciò significa che non si può essere obbligati a manifestare il proprio pensiero, e quindi di esternare le proprie idee. Pertanto, così come le altre libertà garantite costituzionalmente, anche questa è garantita non solo in positivo (ossia si può liberamente manifestare il proprio pensiero), ma è garantita anche in negativo, cioè si può anche non manifestare il proprio pensiero, non manifestare le proprie idee e mantenerle segrete, e non si può essere obbligati a manifestarle, salvo si tratti di testimoniare in un processo (in tal caso, infatti, vi è l’obbligo di comunicare ciò di cui si è a conoscenza al fine di non ostacolare la giustizia, pena il sorgere di una responsabilità penale in capo al soggetto).
Occorre distinguere la manifestazione del pensiero dalla comunicazione del pensiero. Infatti, la comunicazione del pensiero è quel diritto che trova tutela nell’art. 15 Cost., secondo cui “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”: la comunicazione del pensiero consiste, quindi, nel diffondere il proprio pensiero ad una o più persone determinate.
La manifestazione del pensiero, invece, ha un più ampio respiro, in quanto consiste nel comunicare il proprio pensiero nei confronti di una collettività indeterminata, nei confronti quindi una pluralità di soggetti indeterminati (qualora la pluralità di soggetti sia determinata, allora si rientra nella comunicazione del pensiero, come avviene ad esempio quando si comunica il proprio pensiero a più amici).
Quali limiti alla libertà di manifestazione del pensiero?
Il diritto di libertà di espressione, o di libera manifestazione del pensiero, è uno di quei diritti fondamentali, appunto pietra angolare della democrazia. Tuttavia, questo sembrerebbe anche essere il diritto più abusato, troppo spesso invocato come scriminante, ossia come un qualcosa che legittima alle persone a dire tutto ciò che passa loro per la testa, finendo spesso per ledere anche gli altri.
Così come ogni altro diritto riconosciuto dalla Costituzione, anche il diritto di cui all’art. 21 Cost. ha fortunatamente dei limiti. Infatti, la libertà assoluta non esiste, quindi nessuno è libero totalmente: libertà vuol dire poter fare ciò che ci è permesso, e non fare ciò che vogliamo (si sfocerebbe altrimenti nell’anarchia): quindi, se la libertà consiste in ciò che ci è permesso fare, significa che possiamo muoverci comunque entro dei limiti, e anche il diritto più ampio di tutti è comunque non assoluto.
Con specifico riferimento all’art. 21 Cost., anche esso è sottoposto a dei limiti, e per esso vale la regola prevista per qualsiasi altra libertà costituzionalmente garantita: sono ammessi soltanto limiti previsti dalla norma che riconosce la libertà, oppure da altre norme costituzionali e quindi ricavabili dall’intera impalcatura costituzionale. Pertanto, sono presenti limiti espliciti e limiti impliciti.
Quanto ai limiti espliciti, l’art. 21 Cost. stabilisce che “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”: è previsto il buon costume quale limite esplicito alla libertà di manifestazione del pensiero. Da sottolineare come la clausola del buon costume sia una clausola generale, quindi caratterizzata da vaghezza, da dover riempire di volta in volta sulla scorta del contesto sociale che viene di volta in volta in riferimento, tenuto conto dell’evoluzione del costume sessuale e della moralità in un determinato momento storico.
Quanto ai limiti impliciti, tra questi vi rientrano la dignità, l’onore e la reputazione altrui. La libertà di manifestazione del pensiero, infatti, inevitabilmente viene a scontrarsi con questi valori propri della persona, e ricordiamo che il diritto all’onore e alla reputazione altrui rientrano tra le cc.dd. situazioni esistenziali, cioè trattasi di diritti non patrimoniali e legati fortemente alla persona umana, spesso indisponibili.
Importante limite previsto non dalla Costituzione ma dal codice penale è costituito dal reato di diffamazione (art. 595 c.p.), il quale si sostanzia qualora il soggetto offende la reputazione altrui comunicando con più persone (ne sono sufficienti anche soltanto due), e in assenza del soggetto la cui reputazione viene lesa. Inoltre, è prevista anche una circostanza aggravante, e cioè un aumento di pena, nel caso in cui la diffamazione avvenga con il mezzo della stampa.
Infatti, diritto di cronaca e libera manifestazione del pensiero vanno sì di pari passo, ma spesso entrambi si vengono a scontrare con la reputazione delle persone.
Occorre allora far riferimento all’art. 51 c.p., il quale prevede quale causa di giustificazione[3] l’esercizio di un diritto: non è punibile colui il quale commette un reato esercitando un proprio diritto. La cronaca ricordiamo che rientra tra i diritti, essendovi un diritto ad informare ed un diritto ad essere informati, e pertanto il giornalista che, nell’esercizio di tale diritto, commette il reato di diffamazione non sarà punibile proprio in ragione della scriminante di cui all’art. 51 c.p.
Tuttavia, affinché la scriminante possa operare, è necessario che comunque il diritto sia esercitato entro i limiti stabiliti ad esso, non potendo scriminare l’abuso del diritto, ossia l’esercizio distorto di un diritto: in tal caso, infatti, il diritto viene esercitato travalicando i limiti posti allo stesso.
Ma quali sono questi limiti? La Corte Costituzionale, così come la Cassazione, hanno più volte affrontato la questione, e ad oggi possiamo affermare che il diritto di cronaca è lecito, pur ledendo la reputazione altrui, quando:
- Il giornalista riporta fatti veri o almeno verosimili, e cioè di cui non si abbia la certezza potremmo dire empirica, ma le ricerche che ha compiuto – e quindi le fonti attinte – sono talmente valide da poter pensare ad una verità della notizia.
- Che la notizia sia riportata in modo oggettivo, scevra da ogni opinione o supposizione personale;
- Che vi sia un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati.
Essenziale, quindi, è il bilanciamento tra i diritti: occorre appunto bilanciare il diritto di cronaca (o all’informazione) e il diritto alla riservatezza, alla dignità, a non vedersi lesa la propria reputazione. La conseguenza è che, qualora prevalga l’uno, l’altro dovrà soccombere.
Ulteriori limiti previsti dall’art. 21 Cost.
Altri limiti (espliciti) sono previsti dall’art. 21 Cost. Infatti, dopo aver affermato che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure, la disposizione costituzionale afferma che si può procedere a sequestro conservativo soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e qualora per mezzo della stampa siano commessi delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente autorizzi il sequestro, oppure nel caso di violazione delle norme che la legge prescrive circa l’indicazione dei responsabili: infatti, non è ammessa la stampa anonima, propri per consentire di risalire all’autore della stampa attraverso cui si commettono reati.
Nel caso in cui vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito dagli ufficiali di polizia giudiziaria, e questo deve essere comunicato entro 24 ore all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle successive 24 ore, oppure qualora il sequestro non viene comunicato entro 24 ore dallo stesso, esso si intende revocato e privo di ogni effetto.
Quindi la Costituzione è anche attenta a prevede le specifiche ipotesi in cui si può procedere al sequestro, al fine di evitare quanto accadeva nel precedente regime fascista, in cui le stampe contrarie al regime e all’idea fascista venivano sequestrate e gli editori arrestati.
Informazioni
Libertà di manifestazione del pensiero e tutela della personalità nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, a cura di Giuseppe Nicastro, 2015.
Libertà di manifestazione del pensiero, Barile, Giuffré Editore, 1975.
Sentenza Corte Costituzionale n. 9/1965: http://www.giurcost.org/decisioni/1965/0009s-65.html
Sentenza Corte Costituzionale n. 168/1971: http://www.giurcost.org/decisioni/1971/0168s-71.html
[1] Importante è sottolineare come i diritti fondamentali vengono sempre riconosciuti e mai concessi. Lo stesso art. 2 Cost. stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]”, segno che i diritti inviolabili dell’uomo appartengono ad esso in quanto tale, preesistono allo Stato, alla legge, alla stessa Costituzione, e quindi vengono riconosciuti perché propri di ciascun individuo in quanto persona umana. Se i diritti fondamentali si attribuissero anziché essere riconosciuti, ciò comporterebbe la possibilità per il legislatore di poter disconoscerli in qualsiasi momento.
[2] Trattasi di un diritto cardine, se consideriamo anche l’epoca buia dei totalitarismi, in cui non si aveva il diritto di libera espressione, e molti erano i reati d’opinione. Con l’entrata in vigore della Costituzione in Italia si volta pagina: ognuno ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero
[3] Sulle cause di giustificazione, Giuseppe Nicolino ha scritto per DirittoConsenso sugli istituti della legittima difesa e dell’uso legittimo delle armi, rispettivamente: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/10/la-legittima-difesa-nella-cronaca-e-nel-codice/ e http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/31/la-scriminante-delluso-legittimo-delle-armi/
DPCM e ordinanze regionali: al limite della legge
I DPCM e le ordinanze regionali sono legittimi dal punto di vista costituzionale? Visione dei due strumenti più criticati della politica emergenziale
Breve excursus sull’evoluzione normativa a seguito dell’emergenza COVID-19
Con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020[1] è stato dichiarato lo stato d’emergenza connesso all’emergenza sanitaria che allora stava colpendo soltanto la Cina, ma che successivamente ha interessato il mondo intero. Poco dopo la diffusione del virus in Lombardia e Veneto, il Governo ha emanato il d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, con il quale ha istituito le cc.dd. “zone rosse” nelle aree in cui si era sviluppato il focolaio, limitando l’ingresso e l’uscita da suddette zone e prevedendo anche altre misure restrittive. Tuttavia, il numero di nuovi casi positivi nei giorni successivi è aumentato in modo esponenziale, specie in Lombardia, e ciò ha reso necessario l’estensione all’intera regione dei provvedimenti dapprima limitati a determinati Comuni. Ma ciò ha comportato un esodo di massa dalle regioni del nord Italia verso le regioni del sud Italia, allora ancora prive di contagi. Preso atto di ciò, il Governo ha allora esteso la zona rossa all’intera Penisola.
Da qui la situazione epidemiologica è andata sempre più aumentando, e con successivi DPCM sono stati imposti limiti sempre più stringenti, fino a restringere la possibilità di circolazione soltanto all’interno del proprio Comune di residenza e soltanto per comprovate esigenze.
Non sarà questa la sede dell’analisi approfondita dei numerosi – e per certi versi ambigui e complicati – provvedimenti adottati dall’Esecutivo per far fronte all’emergenza sanitaria, né delle varie misure economiche che il Governo ha adottato con i successivi decreti-legge[2]. Il punto focale dell’indagine, infatti, sarà la legittimità o meno dei DPCM adottati e appena citati.
I DPCM sono costituzionalmente legittimi?
Come si è detto, per far fronte all’emergenza del tutto straordinaria che ha attraversato e sta attraversando il nostro Paese, lo strumento adottato è essenzialmente quello del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM).
Innanzitutto occorre stabilire qual è il rango che tali provvedimenti assumono nella gerarchia delle fonti. Soltanto a seguito della risposta di tale interrogativo si potrà analizzare la legittimità dei provvedimenti emergenziali adottati. Occorre precisare che i DPCM sono stati ancorati al d.l. n. 6/2020, conv. in l. n. 13/2020. Infatti, gli artt. 2 e 3 del d.l. in questione attribuiscono poteri di adozione di ulteriori misure volte al contenimento dell’emergenza sanitaria. Precisamente, l’art. 3 attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di adottare gli ormai noti DPCM. Tali DPCM, come detto, limitano alcune libertà fondamentali sancite dalla Costituzione, quali:
- la libertà personale (art. 13 Cost.),
- la libertà di circolazione (art. 16 Cost.),
- la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e
- la libertà di culto (art. 19 Cost.).
Il problema si pone tra dettato costituzionale e DPCM: infatti, la Costituzione stabilisce che tali libertà possono essere limitate esclusivamente in base ad una legge, prevedendo pertanto una riserva di legge. Ma i DPCM tuttavia non sono una legge, ma semplici atti amministrativi. Infatti, ricordiamo che l’art. 70 Cost. attribuisce la potestà legislativa esclusivamente in capo al Parlamento, il quale è organo rappresentativo del popolo. Al Governo, quindi, è attribuito non il potere legislativo, ma solo quello esecutivo, e quindi può esclusivamente dare esecuzione agli atti legislativi emanati dal Parlamento.
Al Governo, però, spetta l’emanazione di alcuni atti che vengono equiparati, quanto a forza, alla legge ordinaria: si parla, in tal caso, di atti aventi forza di legge. Stiamo parlando del decreto legislativo (o decreto delegato) e del decreto-legge, disciplinati rispettivamente dagli artt. 76 e 77 Cost.
Quello che ci interessa al momento è il decreto-legge, il quale può essere emanato in casi straordinari di necessità ed urgenza, che appunto stanno sussistendo in questo momento storico[3]. Il decreto-legge comporta una successiva conversione in legge da parte del Parlamento, e quindi vede un intervento ex post del Parlamento a seguito dell’emanazione da parte del Governo del decreto-legge.
Lo strumento della decretazione d’urgenza, e quindi del decreto-legge, ad avviso di chi scrive, risulta lo strumento più idoneo rispetto ai DPCM[4]. Si è detto, infatti, che la Costituzione stabilisce che soltanto la legge può limitare le libertà fondamentali da essa stabilite, e i decreti del Presidente del Consiglio non sono atti legislativi, ma atti amministrativi.
Pertanto, anche se il DPCM è stato ancorato ad un decreto-legge, il quale è equiparato alla legge ordinaria, essi comunque sollevano – ad avviso di chi scrive – dei dubbi di legittimità costituzionale, per le ragioni sopra esposte: i DPCM, pur avendo fondamento nel d.l., sono e rimangono atti amministrativi, ed in quanto tali non possono derogare alle libertà costituzionali.
Ordinanze regionali a seguito dell’emergenza Covid-19
Anche le regioni hanno e stano giocando un ruolo fondamentale nel contenimento della diffusione della pandemia. Infatti, le singole regioni stanno emanando delle ordinanze che prescrivono ulteriori misure, anche più restrittive.
Viene sempre in rilievo l’art. 3 del d.l. n. 6/2020, il quale stabilisce che le regioni possono emanare ordinanze, purché si rispettino alcuni limiti prescritti dal decreto stesso, ossia devono introdurre misure più restrittive rispetto a quelle governative e non devono incidere sulle attività produttive.
Quello che viene in rilievo è la possibilità, manifestata da alcuni Presidenti di Regione, di chiudere i confini regionali, impendendo l’ingresso e l’uscita dal relativo territorio.
Ebbene – sempre ad avviso di chi scrive – tali ordinanze non possono che essere costituzionalmente illegittime. Infatti, l’art. 120 Cost. stabilisce che la Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino, in qualsiasi modo, la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni.
In ragione di ciò, si ravvisano profili di illegittimità costituzionale di tali ordinanze. Ricordiamo una cosa però: l’atto amministrativo nasce sempre come legittimo. Infatti, essi diventano illegittimi soltanto a seguito della dichiarazione di illegittimità da parte del giudice amministrativo oppure a seguito del ritiro dell’atto amministrativo da parte dell’Amministrazione autrice dello stesso (c.d. potere di autotutela).
Pertanto, non possiamo parlare di illegittimità dell’ordinanza, ma possiamo casomai soltanto affermare che l’ordinanza presenta dei profili di illegittimità: fino a tale dichiarazione da parte del giudice amministrativo, però, non si può parlare di illegittimità in senso stretto.
Ordinanze “più espansive” da parte delle regioni
Si è detto come le regioni possano adottare provvedimenti più restrittivi. Ma non mancano i casi di provvedimenti espansivi da parte delle stesse, specie a seguito del basso numero di contagi rispetto ad altre regioni italiane.
Stiamo parlando della Regione Calabria, la quale con ordinanza del Presidente di Giunta n. 37 del 29 aprile 2020, ha consentito la ripresa delle attività di bar, ristoranti, pizzerie e pasticcerie con somministrazione dei relativi prodotti attraverso il servizio con tavoli all’aperto. Tale punto dell’ordinanza è in contrasto con il DPCM del 26 aprile 2020, il quale invece prevedeva la possibilità, fino al 18 maggio, di poter effettuare soltanto servizio d’asporto e non anche servizio ai tavoli.
Tale ordinanza ha comportato la reazione del Governo, il quale ha diffidato la Presidente Santelli, minacciando l’impugnazione dell’ordinanza. Ora, non è ben chiaro se il Governo intenderà impugnare l’ordinanza della Governatrice calabrese dinanzi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione o dinanzi al TAR. Le scelte hanno delle ripercussioni: infatti, dinanzi il giudizio per conflitto di attribuzione (giudizio abbastanza comune dinanzi alla Consulta) sarebbe del tutto inutile, data la lunghezza dei giudizi costituzionali; di contro, l’impugnazione dinanzi al TAR comporterebbe celerità, venendo la questione decisa nel giro di pochissimi giorni (24/48 ore).
Ma comunque, in questa sede il problema non è questo, ma le conseguenze che l’ordinanza ha comportato. Il profilo di illegittimità invocato dal Governo attiene alla misura troppo espansiva adottata e di cui sopra, ossia l’apertura dei locali di ristorazione, pizzerie, bar ecc.
Si potrebbe prospettare, a seguito dell’ordinanza confliggente con i D.P.C.M., una rimozione del Presidente della Giunta ex art. 126 Cost. Ebbene, la disposizione in questione stabilisce che “il Presidente della Repubblica stabilisce dispone lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”.
Ma in tal caso non sono stati compiuti atti contrari alla legge, in quanto – come si è detto – il DPCM è un atto amministrativo, e pertanto non si ravvisano i presupposti affinché vi possa essere la rimozione del Presidente della Regione Calabria.
Le conseguenze che potrebbero derivare dalla possibile dichiarazione di illegittimità dell’ordinanza attengono esclusivamente all’efficacia della stessa: essa, infatti, a seguito di una siffatta dichiarazione, perderebbe efficacia.
Informazioni
Sull’impossibilità per le Regioni di “chiudere i confini”: https://www.corrieredellacalabria.it/regione/item/239776-la-regione-non-puo-chiudere-i-confini-e-neanche-affievolire-le-misure-nazionali/
[1] In Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 26 del 1/02/2020.
[2] Stiamo parlando dei D.P.C.M. dell’8, 9, 11, 22 marzo 2020 e 1, 10 e 26 aprile 2020; quanto ai decreti-legge, si parla dei d.l. n. 9, 14, 18 (c.d. CuraItalia), 19 susseguitisi tra marzo e aprile 2020.
[3] Per un’analisi dettagliata dello strumento della decretazione d’urgenza v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/16/il-decreto-legge-come-strumento-emergenziale/
[4] Cfr., tra i tanti contributi forniti dagli studiosi del diritto costituzionale, anche http://www.lacostituzione.info/index.php/2020/04/22/tra-decreti-e-decreti-limportanza-di-usare-lo-strumento-giusto/
La revisione costituzionale: tra procedimento e limiti
Oggetto di studio del presente articolo è la revisione costituzionale in generale, l’articolazione del relativo procedimento nell’ordinamento costituzionale italiano e i limiti posti alla revisione stessa
Introduzione: l’uso della revisione costituzionale
La Costituzione è posta a fondamento del nostro ordinamento ed uno dei suoi caratteri è la rigidità, ossia la possibilità che sia modificata con un procedimento aggravato[1] rispetto all’ordinario procedimento legislativo. Per quanto riguarda l’Italia, il procedimento di revisione costituzionale è molto meno usato rispetto ad altri Paesi[2].
Dal 1948 – data di entrata in vigore della Costituzione – ad oggi sono state approvate 43 leggi costituzionali, ma non tutte hanno modificato la Costituzione. Ricordo infatti che legge costituzionale non sempre è uguale a modifica sostanziale della Carte costituzionale. In altre parole, è sì vero che la legge costituzionale è quell’atto legislativo conseguente al procedimento ex art. 138 Cost., ma non sempre la legge costituzionale è strettamente collegata ad una modifica della Costituzione.
Basti pensare che gli statuti delle Regioni a statuto speciale possono essere modificati esclusivamente da una legge costituzionale, a differenza di quelli delle Regioni ordinarie. Oppure si pensi a quelle leggi costituzionali che hanno integrato disposizioni costituzionali: si pensi alla l. cost. 1/1948 e alla l. cost. 1/1953, riguardanti il funzionamento della Corte Costituzionale[3].
Il procedimento di revisione costituzionale
Si è detto come il procedimento costituzionale sia un procedimento aggravato, e tale procedimento aggravato deriva dalla rigidità della nostra Carta costituzionale. Il fondamento della revisione costituzionale, esso è rinvenibile nell’art. 138 Cost., il quale stabilisce che:
“le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.
Ebbene, l’art. 138 Cost. pone accanto alle leggi di revisione della Costituzione “le altre leggi costituzionali”, proprio perché – come si è avuto modo di dire in precedenza – la legge costituzionale non sempre e non necessariamente porta alla modifica della Costituzione.
L’art. 138 Cost. prevede un procedimento aggravato rispetto all’ordinario procedimento legislativo per evitare che la Costituzione venga modificata dalla maggioranza di Governo: infatti, se questa vuole modificare la Costituzione necessariamente dovrà trovare l’appoggio degli altri partiti in seno al Parlamento, affinché si possano raggiungere le maggioranze previste per l’approvazione della legge costituzionale. La Costituzione, infatti, richiede nella seconda deliberazione – che deve avvenire non prima di 3 mesi successivi alla prima deliberazione – la maggioranza dei 2/3 dei membri di ciascuna Camera affinché la legge costituzionale possa essere approvata definitivamente e promulgata dal Presidente della Repubblica, e in pratica affinché la proposta di legge costituzionale possa essere legge a tutti gli effetti.
I tempi del procedimento
Il procedimento di emanazione della legge costituzionale comunque si distingue da quello ordinario non solo per le maggioranze, ma anche per i tempi (che sono decisamente più lunghi, dato che la seconda deliberazione può avvenire non prima di 3 mesi dalla prima) ed anche perché vi è un’eventuale partecipazione popolare mediante referendum costituzionale[4].
Ma andiamo per ordine. L’art. 138 Cost. stabilisce che la legge costituzionale viene adottata da ciascuna Camera con due successive deliberazioni. L’ordinario procedimento legislativo, infatti, prevede una sola deliberazione di ciascuna Camera, le quali devono approvare lo stesso testo; all’approvazione segue la promulgazione da parte del Capo dello Stato. L’art. 138 Cost., però, prevede due deliberazioni di ciascuna Camera, e pertanto in tutto le deliberazioni saranno quattro, sul medesimo testo, contro le due del procedimento legislativo ordinario: in pratica, si avranno due deliberazioni per ogni ramo del Parlamento (una per ogni ramo del Parlamento nel procedimento ordinario).
Il procedimento di adozione di una legge costituzionale inizia in seno ad una Camera e si avrà la prima deliberazione, la quale è a maggioranza relativa: è necessario quindi che i “sì” superino i “no”. In tale fase, così come nel procedimento ordinario, le Camere possono apportare emendamenti al progetto di revisione costituzionale, e pertanto avrà luogo la classica navetta parlamentare tra Camera e Senato, tante volte quante sono necessarie per ottenere il voto favorevole di entrambi i rami del Parlamento sullo stesso testo.
Successivamente, avrà luogo la seconda deliberazione, la quale non può avvenire prima che sia decorso un termine di 3 mesi dalla prima deliberazione. Ecco perché il procedimento di revisione costituzionale è un procedimento lungo, e tale periodo, non minore di 3 mesi, aggrava il procedimento stesso. Inoltre, nella seconda deliberazione sono vietati gli emendamenti[5]. Pertanto la seconda deliberazione sarà volta esclusivamente ad approvare oppure non approvare la riforma costituzionale: infatti, qualora non si raggiungano le maggioranze richieste, allora il procedimento di revisione costituzionale (o di emanazione della legge costituzionale) decade.
Tale seconda deliberazione, qualora si raggiungano le maggioranze richieste, può dar luogo a due ordini di conseguenze differenti.
Qualora la legge costituzionale sia approvata da ciascuna Camera con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei membri di esse, allora il progetto di legge costituzionale si trasforma in legge costituzionale vera e propria e viene promulgata dal Presidente della Repubblica.
Al contrario, qualora non si raggiunga la maggioranza qualifica dei 2/3, ma si raggiunge la maggioranza assoluta in seno ad entrambe le Camere, la legge viene comunque approvata ma non si tratterà di una approvazione definitiva: infatti, il testo approvato viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ed entro 3 mesi dalla pubblicazione (quindi il procedimento si allunga ulteriormente) può essere richiesto un referendum costituzionale, in modo da sottoporre il testo ad approvazione popolare. In questo caso, toccherà al popolo decidere se approvare oppure opporsi all’entrata in vigore della legge costituzionale.
Il referendum costituzionale può essere chiesto, nelle more dei 3 mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, da 500.000 elettori, da 5 Consigli regionali oppure da 1/5 dei membri di una Camera. Qualora il referendum abbia esito positivo (e quindi il popolo approva la legge costituzionale) oppure qualora questo non venga richiesto, la legge costituzionale viene promulgata dal Presidente della Repubblica ed entrerà in vigore.
È da sottolineare come la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, nell’ipotesi in cui la legge costituzionale venga approvata con la maggioranza assoluta delle Camere, è un’ipotesi di pubblicazione atipica: atipica poiché ordinariamente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale si ha a seguito della promulgazione del Capo dello Stato (in tal caso, invece, la pubblicazione avviene prima della promulgazione) e a seguito della pubblicazione l’atto produce i propri effetti, entrando in vigore (in tal caso, invece, la legge costituzionale non produce i propri effetti).
I limiti alla revisione costituzionale
Non può aversi una revisione tout-court della Costituzione, ma sussistono dei limiti previsti esplicitamente e ricavati implicitamente dal dettato costituzionale.
Innanzitutto il procedimento di revisione costituzionale è un procedimento costituito e non costituente: questo perché tale procedimento presuppone naturalmente l’esistenza di una Costituzione, e non è volto alla creazione di una nuova Carta costituzionale. Da ciò possiamo far derivare che la revisione costituzionale non può comportare la sostituzione integrale della Costituzione, in quanto non si ha esercizio del potere costituente. Questo rappresenta un primo limite implicito.
L’art. 139 Cost. stabilisce, invece, un limite esplicito: la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. L’art. 139 Cost. è l’articolo di chiusura della Costituzione, che viene ricollegato all’art. 1 Cost., il quale stabilisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e la forma repubblicana, quindi, è considerata inscindibile dal carattere democratico della Repubblica. Pertanto, il limite esplicito ex art. 139 Cost. si allarga anche a limite implicito, poiché comporta il fatto che – come affermato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 1146/1988 – anche i principi supremi[6] della Costituzione e i diritti fondamentali della persona, che rappresentano fondamento e declinazione della forma repubblicana – costituendo essenza della dei valori sui quali si fonda la Costituzione e il nostro ordinamento democratico –, non possono essere sottoposti a revisione costituzionale, almeno nel loro nucleo essenziale. Pertanto, i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., e quelli previsti esplicitamente dagli artt. 13 ss. Cost. costituiscono limite implicito alla revisione costituzionale.
Informazioni
R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2019
R. Bin, Capire la Costituzione, Editori Laterza, Bari, 2012
A. Pisaneschi, Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2018
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=1988&numero=1146
[1] È necessario un procedimento c.d. aggravato poiché sono necessarie maggioranze differenti. In più è prevista una lettura aggiuntiva rispetto al procedimento ordinario, comportando quindi un aggravio del procedimento anche in termini di tempi. La Costituzione italiana infatti non rientra nel gruppo delle carte costituzionali cc.dd. “flessibili”.
[2] Si pensi che in Germania le modifiche alla Costituzione devono necessariamente avere l’approvazione dei 2/3 dei membri delle Camere. In Portogallo e in Giappone, oltre all’approvazione dei 2/3 dei membri delle Camere è necessaria anche l’approvazione da parte del popolo tramite referendum. In alcuni Paesi quali il Belgio la Norvegia, la Svezia e la Danimarca è addirittura previsto lo scioglimento delle Camere e l’approvazione definitiva della riforma costituzionale da parte delle nuove Camere. In Francia, invece, è sufficiente il voto a maggioranza semplice, ma è richiesta la successiva approvazione popolare mediante referendum, e questo può essere evitato solo se le Camere approvano la revisione costituzionale con la maggioranza dei 3/5 dei loro membri.
[3] Precisamente, la l. cost. 1/1948 prevede la disciplina dei giudizi di costituzionalità delle leggi, mentre la l. cost. 1/1953 prevede le norme integrative della Costituzione concernenti la Corte Costituzionale, integrando appunto le norme già previste dalla Costituzione sul funzionamento e sulla composizione della Consulta, ma non sufficienti affinché essa potesse effettivamente esercitare le sue funzioni.
[4] Si è parlato di referendum costituzionale su DirittoConsenso qui: http://www.dirittoconsenso.it/2019/11/08/referendum-costituzionale-confermativo-od-oppositivo/
[5] Così come previsto dall’art. 123 del Regolamento del Senato e dall’art. 99 del Regolamento della Camera.
[6] Vi sono ovviamente anche le garanzie legate al diritto penale. Di questo ne ho parlato in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2019/07/09/diritto-penale-e-garanzie-costituzionali-supreme/
Sulla nuova legge costituzionale: due posizioni critiche
L’articolo permette un’analisi critica di quella che sarà la legge costituzionale di revisione approvata dal Parlamento in data 8 ottobre 2019, recante disposizioni in materia di riduzione del numero dei parlamentari. Ivi saranno indicati gli aspetti favorevoli e quelli contrari, che rispecchiano le posizioni degli autori del presente articolo
Premessa sulla legge costituzionale
Precedentemente ed a seguito dell’approvazione della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari, sono nate delle opinioni diverse e discordanti, divergenze di vedute che hanno aperto un lungo dibattito in materia.
Il numero dei parlamentari previsto dalla Costituente è pari a 945 parlamentari, di cui 630 deputati e 315 senatori (artt. 56 e 57 Cost.). La riforma costituzionale riduce notevolmente il numero dei parlamentari, portandoli ad un totale di 600: 400 deputati e 200 senatori.
Le forze politiche in seno al Parlamento, promotori della riforma, l’hanno giustificata in diversi termini, ma i costituzionalisti muovono critiche nei confronti di essa, per i motivi che vedremo di seguito.
Il concetto di rappresentanza parlamentare
Nel nostro sistema costituzionale e politico i cittadini non eleggono direttamente il Governo, ma questo è espressione della maggioranza formatasi in Parlamento a seguito delle elezioni. Infatti, il Presidente del Consiglio dei Ministri viene nominato dal Presidente della Repubblica, di prassi traendolo dalla persona proposta dai partiti di maggioranza nelle consultazioni: pertanto, il Presidente del Consiglio, e quindi, il Governo, è frutto della maggioranza risultante in Parlamento, e non potrebbe essere altrimenti. Il Governo deve ottenere la fiducia, entro 10 giorni dalla sua formazione, da entrambe le Camere, e ovviamente la fiducia viene data dalla maggioranza: un Governo tratto da un partito di minoranza difficilmente (o meglio, è impossibile che) riceva la maggioranza per esercitare le sue funzioni.
Dunque, il popolo non elegge direttamente il Governo, l’Esecutivo, che ha il compito di portare avanti la linea politica del Paese, ma i componenti del Parlamento. Infatti, questi ultimi, rappresentano la Nazione (art. 67 Cost.), e quindi esercitano il loro mandato nell’interesse dei cittadini: i parlamentari, per usare il linguaggio tipico del diritto civile, agiscono in nome e per conto dei cittadini (rappresentanza politica, rappresentanza parlamentare).
L’elezione diretta dei parlamentari, e quindi dei nostri rappresentanti, è manifestazione della sovranità popolare ex art. 1 Cost. Quest’ultimo, infatti, stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione: l’elezione diretta dei nostri rappresentanti è una di queste forme stabilite dalla Costituzione.
Aspetti favorevoli della riforma costituzionale (a cura di Francesco Cristofaro)
L’approvazione della legge sopra citata, non deve essere letta in chiave pericolosa e minatoria per la democrazia italiana. L’ordinamento giuridico prevede un sistema di “pesi e contrappesi”, che pongono limiti a leggi che potrebbero travolgere l’intero assetto costituzionale. Al tempo stesso, con la presente legge, non si riduce la rappresentanza dei cittadini che vivono in piccole Regioni, poiché questi saranno rappresentati ugualmente all’interno del Parlamento, l’organo deputato dalla Costituzione a legiferare in tutela dei loro interessi.
Negli ultimi anni, si è assistito ad un vero e proprio svilimento del ruolo del Parlamento; il precedente Esecutivo a maggioranza giallo-verde ha paralizzato lo stesso organo, a causa del gran numero di decreti-legge emanati e che difettavano del carattere di necessità ed urgenza. Inoltre, la regola che il parlamentare è espressione del proprio territorio non regge più. Basti pensare che l’ex Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è stato eletto con un gran numero di voti in Calabria[1], così come per Maria Elena Boschi in Trentino[2].
La riforma costituzionale deve essere accompagnata da una legge elettorale che miri a ridisegnare le circoscrizioni, consentendo uguale rappresentanza a tutti i cittadini delle Regioni italiane. Il numero minore dei parlamentari consente, inoltre, in sede elettorale, una maggiore competizione tra i candidati, permettendo agli elettori che voteranno di capire meglio da chi potranno essere rappresentati. La quantità abnorme del numero di parlamentari previsti dalla Costituzione (artt. 56 e 57), non è sempre simbolo della qualità degli stessi.
Quanto al risparmio economico, seppur rappresenta un minimo tassello per colmare il deficit pubblico italiano, è segnale per i cittadini di una politica che non è solo casta.
La maggioranza dei cittadini è favorevole alla legge sul taglio dei parlamentari[3], preferendo un Parlamento che sia efficace ed efficiente, e riacquisti la sua posizione originaria assegnatagli dalla Costituzione.
I vari Esecutivi che si formeranno a seguito della riforma, saranno espressione della maggioranza scaturita dalle urne, che garantisce anche maggiore stabilità per permettere di realizzare con un più ampio orizzonte temporale il programma di Governo.
Posizioni contrarie alla riforma costituzionale (a cura di Gennaro De Lucia)
La riforma costituzionale è stata giustificata dalle forze politiche in seno al Parlamento soprattutto in termini economici. Infatti, i promotori principali della riforma hanno affermato che con la riduzione dei parlamentari si potrà risparmiare fino a 1 miliardo di euro, oltre ad essere stato affermato che il risparmio è di 300.000 euro al giorno[4]. Tuttavia, i calcoli sono sbagliati: infatti, la reale spesa che ogni famiglia italiana risparmierà è di circa 2-3 euro all’anno[5], e quindi una cifra nettamente inferiore e decisamente esigua rispetto alle cifre prospettate. Pertanto, la giustificazione della riforma in termini economici non regge.
Ulteriore punto critico della riduzione dei parlamentari si presenta in termini di rappresentatività. Il Parlamento è, infatti, l’organo rappresentativo dei cittadini, del popolo italiano. Attraverso il voto, espressione della sovranità popolare ex art. 1 Cost., i cittadini eleggono coloro i quali dovranno rappresentarli in Parlamento. È evidente, pertanto, come la riduzione del numero di parlamentari riduce anche la rappresentatività popolare: non vi saranno più 945 rappresentanti del popolo, ma appena 600. Tale problema potrebbe essere arginato, ma non risolto, dall’emanazione di una nuova legge elettorale, che ridisegni le circoscrizioni elettorali.
Altro problema riguarda il Governo: riducendo il numero dei membri del Parlamento si riduce, naturalmente, anche la maggioranza sufficiente per la formazione e la durata in carica dell’Esecutivo. L’Esecutivo, infatti, vive grazie alla fiducia del Parlamento, fiducia che viene espressa dalla maggioranza politica presente in seno ad esso. Con la diminuzione dei parlamentari sarà sufficiente una maggioranza esigua, dando vita quindi a Governi legittimati da maggioranze risicate. Ciò potrebbe anche risolvere i problemi di stabilità dei Governi, che hanno afflitto il nostro Paese negli ultimi anni. Tuttavia, il problema potrebbe essere risolto solo a metà dato che le crisi di Governo negli ultimi anni sono state tutte crisi extra-parlamentari, ossia crisi derivanti da fratture interne alla compagine governativa stessa. In queste crisi, pertanto, la maggioranza parlamentare non gioca alcun ruolo fondamentale per le crisi stesse, dato che il Governo rassegna autonomamente le dimissioni, senza che sia approvata una mozione di sfiducia dalla maggioranza. Quindi, giustificare la riforma costituzionale in termini di stabilità è in parte corretto, ma – come si è appena detto – non completamente.
Pertanto, per le ragioni sopra esposte, la legge di revisione costituzionale potrebbe comportare delle conseguenze non di poco rilievo, e si auspica che il legislatore sappia già come ovviare ad esse.
Informazioni
Sull’approvazione della legge costituzionale in materia di riduzione del numero di parlamentari: https://www.camera.it/leg18/1132?shadow_primapagina=9600
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/06/elezioni-2018-salvini-sceglie-la-calabria-per-andare-in-parlamento-con-lui-il-segretario-regionale-furgiele/4208155/amp/
[2] https://www.ladige.it/news/politica/2018/03/05/maria-elena-boschi-stravince-bolzano-412-contro-249-biancofiore
[3] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/09/taglio-dei-parlamentari-e-legge-sondaggio-demopolis-80-per-cento-degli-intervistati-a-favore-i-meno-entusiasti-sono-gli-elettori-pd/5506184/?fbclid=IwAR0a3nlvyBU_sA5tOa_oMIy9QVTGnVZkL6G07KdTIYh8wGnJ_9g3sRN1PTU
[4] https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/13513191/taglio-parlamentari-luigi-di-maio-risparmio-un-miliardo-ecco-vere-cifre-bilancio-parlamento.html
[5] https://codacons.it/riforme-codaconscon-taglio-parlamentari-risparmio-13-euro/
Se vuoi approfondire sul diritto costituzionale, ti consigliamo di leggere gli articoli della sezione di di DirittoConsenso.it.