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La Corte Costituzionale si pronuncia sul diritto a morire

Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione del fine vita, che attanaglia ormai da anni il nostro ordinamento giuridico. Nel presente articolo si ripercorre sinteticamente la vicenda, analizzando – in termini giuridici e anche politici – cosa succederà a seguito dalla pronuncia della Consulta

 

Il “caso Cappato” dinanzi alla Corte Costituzionale

Il caso che si presenta dinanzi alla Corte Costituzionale è quello di un soggetto, Marco Cappato, imputato per aver accompagnato Fabiano Antoniano (detto Fabo) in Svizzera, realizzando il desiderio di quest’ultimo di porre fine alla sua vita a seguito della sua condizione di salute.

Infatti, “Dj Fabo” (così era conosciuto) era ormai da anni paralizzato a causa di un incidente: non aveva più un’autonomia nella respirazione e nella nutrizione. Inoltre, non aveva più facoltà motorie e veniva colpito da spasmi muscolari che gli provocano sofferenze, che non erano facilmente lenibili con farmaci, e per questo si doveva ricorrere alla sedazione profonda. Ancora, non aveva più piena facoltà di parola, ma aveva conservato le facoltà intellettive. Egli, pertanto, espresse il desiderio di voler morire, per porre fine al suo stato di sofferenza irreversibile: difatti, la sua condizione non poteva regredire, ed era pertanto destinato a vivere per sempre così.

Il suo desiderio venne assecondato da Marco Cappato, attivista dell’Associazione Luca Coscioni, da anni impegnata nel promuovere una legislazione in tema di eutanasia, a difesa dell’autodeterminazione del malato. Dj Fabo, quindi, viene accompagnato in Svizzera da Marco Cappato, e quest’ultimo realizza il suo desiderio di morire: morte che trova in modo autonomo, in quanto è egli stesso ad azionare il meccanismo (precisamente, con la bocca) che ha messo in circolo nelle sue vene il farmaco che lo ha condotto alla morte. Di ritorno dalla Svizzera, Marco Cappato si costituì ai Carabinieri, autodenunciandosi.

È da sottolineare, però, come il desiderio di voler morire sia provenuto direttamente ed autonomamente dal soggetto, da Dj Fabo. Infatti, quest’ultimo espresse il suo desiderio più volte alla famiglia ed amici, oltre che esprimerlo pubblicamente attraverso filmati, uno di questi anche inviato al Presidente della Repubblica. Inoltre, una volta in Svizzera, il personale sanitario verificò le sue condizioni di salute e il suo consenso. È da sottolineare anche che la volontà di morire fu maturata dal soggetto antecedentemente ed indipendentemente all’intervento del Cappato, e quindi è stata una scelta maturata autonomamente e senza influenze dell’imputato.

A seguito dell’autodenuncia da parte di Cappato, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano apre un fascicolo nei suoi confronti, e questi viene iscritto nel registro degli indagati. Tuttavia, la stessa Procura presentò richiesta di archiviazione, e i Pubblici Ministeri, nel corso dell’udienza preliminare, avanzarono richiesta al giudice di sollevare questione di legittimità dinanzi alla Corte Costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui esso non ritiene rilevanti le circostanze in cui avviene l’aiuto al suicidio, e quindi nella parte in cui la disposizione non tiene conto della malattia irreversibile ed incurabile del soggetto, che pertanto esprime la volontà di voler morire e di porre fine alla sua vita per esercitare il suo diritto alla dignità.

La questione di legittimità costituzionale viene sollevata e la Corte, con una prima ordinanza (ord. 207/2018) rinvia la questione al Parlamento, incaricandola di prendere una decisione entro il termine di 12 mesi. La Corte, precisamente, ritenne “doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa”, rinviando la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza pubblica del 24 settembre 2019[1].

 

L’art. 580 c.p. e l’aiuto al suicidio: i dubbi di legittimità costituzionale

L’art. 580 c.p. punisce, con la reclusione da cinque a dodici anni:

chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.

 

Quindi, la disposizione punisce l’istigazione o aiuto al suicidio. Come si è detto in precedenza, la disposizione non tiene conto, però, delle condizioni soggettive che portano al suicidio, non tenendo quindi conto della condizione di salute del soggetto che desidera suicidarsi: per la disposizione di cui all’art. 580 c.p. è del tutto irrilevante che il soggetto si trovi in uno stato comatoso, vegetale o soffra di qualsiasi altra patologia irreversibile che mina la sua vita dignitosa.

Ma quali sono i motivi che hanno portato a sollevare questione di legittimità costituzionale nei confronti della disposizione, e quindi quali sono i motivi che hanno alimentato i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.?

Innanzitutto, motivi di ordine costituzionale. Infatti, la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata per presunto contrasto con gli artt. 2 e 13 Cost., oltre che con l’art. 117, co. 1 Cost.: quest’ultimo articolo, infatti, limita la potestà legislativa dello Stato al rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale.

L’art. 2 Cost. stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità: il diritto alla vita dignitosa rientra tra i diritti inviolabili dell’uomo. Ma si può parlare di vita dignitosa quando non si può provvedere autonomamente ai propri bisogni primari, quali mangiare e respirare?

L’art. 13 Cost., invece, stabilisce, al 1° comma, che la libertà personale è inviolabile. Obbligare qualcuno a non essere liberi, quindi, è incostituzionale. E il restare immobili e paralizzati nel letto, senza una minima possibilità di muoversi, imponendo al soggetto in questione di non prendere una propria decisione circa la sua condizione, non è forse costrizione e quindi restrizione della libertà personale?

Abbiamo detto che l’art. 117 Cost. vincola la potestà legislativa dello Stato: lo Stato, quindi, può legiferare soltanto attendendosi ai vincoli stabiliti dallo stesso art. 117.

Il diritto ad una vita dignitosa è riconosciuto anche a livello sovranazionale, e precisamente dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa stabilisce il diritto alla vita e il rispetto della vita personale (artt. 2 e 8 della Convezione), ma il implicitamente deve ritenersi sussistente anche il diritto alla morte dignitosa, il diritto a scegliere quando e come morire. Infatti, il diritto ad una morte dignitosa sembra discendere da una lettura dei citati artt. 2 e 8 della Convenzione, come diritto correlato al diritto alla vita (art. 2) e al diritto al rispetto della stessa (art. 8).

Ecco perché la questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di Milano fa riferimento non solo alle norme costituzionali, ma anche alle norme contenute nella Convenzione, e questo in forza dell’art. 117 Cost: una violazione, da parte delle norme interne, di disposizioni e norme europee o internazionali comporta la violazione indiretta dell’art. 117 Cost.

 

La pronuncia della Corte apre l’ordinamento all’eutanasia

Nell’ordinanza 207/2018 la Corte – come abbiamo già avuto modo di dire – aveva rimesso il compito di risolvere la questione al Parlamento, in quanto unico organo deputato e competente ad effettuare delle scelte di bilanciamento simili: precisamente, bilanciamento tra i vari diritti, tra i vari principi coinvolti. Infatti, viene in rilievo il bene-vita: quest’ultimo ha una massima tutela costituzionale, tant’è che per nessun motivo può essere leso il suddetto bene. Tuttavia, al centro della Costituzione vi è anche il diritto alla dignità, ed ecco, quindi, che vengono a confliggere due principi, due diritti: il diritto alla vita e quello alla libertà.

La Corte, allora, aveva assegnato il compito al Parlamento di cercare di effettuare il bilanciamento tra detti principi, nel termine di 12 mesi. Cosa che tuttavia non è avvenuta. Così, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità dell’art. 580 c.p., per colmare l’assenza di intervento da parte del Parlamento.

 

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte Costituzionale ha emanato, in data 25 settembre 2019, un comunicato con il quale si dà notizia degli orientamenti della Consulta[2]. Precisamente, la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’art. 580 c.p., a determinate condizioni:

chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.”

 

Pertanto, la Corte ha stabilito che, nell’applicazione dell’art. 580 c.p. deve tenersi conto delle singole situazioni concrete, e quindi bisogna valutare caso per caso: bisogna tenere conto della situazione psico-fisica del soggetto che chiede di morire.  La Corte, inoltre, ha anche sollecitato l’intervento del legislatore, ritenendolo indispensabile per risolvere definitivamente la questione sul fine vita.

Possiamo quindi dire che il giudice delle leggi ha finalmente aperto l’ordinamento giuridico italiano all’eutanasia, affermando e ribadendo la laicità dello Stato, di cui all’art. 7 della Costituzione.

Attendiamo comunque il deposito della sentenza della Corte Costituzionale, ma essa ha già stabilito su quali limiti ha dichiarato la non punibilità. Infatti, essa ha fatto riferimento alle condizioni stabilite dagli artt. 1 e 2 della l. 219/2017, introduttiva del c.d. testamento biologico e DAT (disposizioni anticipate di trattamento): pertanto, la non punibilità deriva dal rispetto delle disposizioni richiamate, in attesa del Parlamento. L’intervento del Parlamento dovrà riguardare la modifica dell’art. 580 c.p., introducendo cause di non punibilità sussistenti a seguito del ricorrere di alcuni presupposti, già stabiliti dalla Corte Costituzionale. Ciò non significa, comunque, che l’art. 580 c.p. resta applicabile sino alla novellazione da parte del legislatore. Infatti, si dovrà sempre tenere conto della pronuncia della Corte Costituzionale, che ha specificato in quali condizioni non deve rendersi operante la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p.

Si auspica, pertanto, un intervento sollecito del legislatore che possa finalmente assicurare la libera scelta dei soggetti, che si trovano in determinate condizioni, di voler morire, nel rispetto del principio di autodeterminazione di ciascuno di noi: principio, quello della libertà personale e dell’autodeterminazione, che non può essere coartato da nessuna ideologia, politica o religiosa che sia. Si badi bene: non si auspica una completa eliminazione dal codice del reato di aiuto o istigazione al suicidio, il quale deve comunque continuare ad esistere ed operare in determinati ambiti (soprattutto nei casi di bullismo). È necessario, piuttosto, che l’intervento novellatore del Parlamento ridimensioni l’ambito applicativo della disposizione penale, in modo da non renderlo operante nei termini suddetti, e quindi dovranno essere valutate le relative circostanze di fatto, tenendo conto delle stesse.


Governo Conte e crisi di governo

Il 9 agosto 2019 è stata depositata in Senato una mozione di sfiducia nei confronti del Governo Conte, con la conseguente apertura di una crisi di governo. Ma cosa si intende per crisi di governo e quali sono i possibili scenari a seguito dell’eventuale approvazione della stessa? Il presente articolo compie un’analisi dal punto di vista costituzionale su quanto dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi

 

La crisi di governo per il c.d. Governo giallo-verde ed il “contratto di governo”

Prima di addentrarci nel merito della questione, analizzando gli istituti costituzionali e la prassi sottesa alla crisi di governo, è utile fare un breve excursus storico sulla formazione – abbastanza travagliata – del Governo Conte.

Il Governo Conte è un Governo che non è espressione di un’unica maggioranza, intesa quale maggioranza composta da un unico partito. Nelle ultime legislature, ciò è abbastanza frequente, con Governi c.d. multipartitici, espressioni di coalizione instaurate tra i partiti che hanno raggiunto il maggior numero di voti. Il Governo Conte è stato soprannominato il “Governo giallo-verde”, poiché frutto di un’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega.

All’indomani del 4 marzo 2018, data in cui gli italiani si sono recati alle urne per il rinnovo delle Camere, i risultati erano i seguenti: sconfitta netta del Partito Democratico (18,7%), partito che nella precedente legislatura deteneva la maggioranza parlamentare; la coalizione di centro-destra si è accaparrata il circa 35%, e dei partiti componenti la coalizione la Lega è quella che ha conquistato più voti (17%), seguita da Forza Italia (14%) e Fratelli d’Italia (4%); il M5S, invece, raggiunge il 32% dei voti, rappresentando il partito che ha raggiunto il maggior numero di voti e divenendo, quindi, il primo partito in Italia[1].

Quindi, la politica italiana, a seguito delle elezioni del 4 marzo 2018, è divisa in 3 grandi forze, rappresentate, in ordine decrescente, dal M5S, dalla colazione di centro-destra e dal PD. Gli altri partiti rappresentano una minoranza poco rilevante, non arrivando neanche a sedere dietro i banchi del Parlamento poiché non si è raggiunta la soglia di sbarramento del 3%.

Il M5S è stato il partito con il maggior numero di voti, ma da solo non era capace di formare la maggioranza richiesta dalla legge elettorale vigente al momento delle elezioni, ossia il c.d. Rosatellum bis[2]. Pertanto, erano necessarie alleanze affinché si potesse raggiungere una maggioranza in Parlamento idonea a garantire in primis l’approvazione della mozione di fiducia da parte delle Camere nei confronti del nuovo Governo; e poi per garantire anche il corretto funzionamento dello stesso.

Intanto, il Presidente della Repubblica iniziò le consultazioni per la formazione di nuovo Governo, ex art. 92 Cost. Nelle more delle consultazioni si è pervenuti ad una maggioranza parlamentare, rappresentata dalla coalizione tra M5S e Lega, che intanto aveva abbandonato la coalizione di centro-destra. Tale coalizione viene definitivamente suffragata e concretizzata con la conclusione di un c.d. “contratto di governo”, che non è altro che un semplice accordo di coalizione che esprime gli impegni di entrambe le parti. In tale “contratto”, infatti, M5S e Lega hanno positivizzato i propri programmi politici e sono scesi a compromessi, stabilendo punto per punto, articolo per articolo, quali riforme attuare, anche se è dubbia la validità giuridica e una forza vincolante di tale “contratto”.

Pervenuti così ad una maggioranza parlamentare, le due forze politiche indicano al Capo dello Stato il nome di Giuseppe Conte come Presidente del Consiglio dei Ministri. Così il Presidente Mattarella affida all’Avv. Giuseppe Conte il compito di formare il Governo.

Non entreremo nel merito delle vicende travagliate che hanno visto la nascita del Governo Conte, in quanto destinate a costituire uno studio separato, ed inoltre non è rilevante ai fini della presente analisi. Ciò che è importante sottolineare è che il Governo Conte è nato da un accordo tra due partiti apparentemente in contrasto tra loro, con divergenze di vedute che, come vedremo, sono ricadute sulla vita del Governo stesso e che hanno portato, inevitabilmente, alla crisi[3].

 

Un’analisi costituzionalmente orientata della crisi

La crisi di governo è un evento che è destinato a sfociare nelle dimissioni di un governo, e le cause che la scatenano possono essere le più svariate.

Al tal proposito si suole distinguere tra crisi parlamentari e crisi extra-parlamentari.

Le crisi parlamentari sono quelle crisi di governo che nascono dalla votazione di una mozione di sfiducia ad opera di una o di entrambe le Camere; oppure può derivare dalla mancata approvazione di un disegno di legge presentato dal Governo e sul quale esso ha posto la questione di fiducia[4]; oppure, ancora, perché non è stata approvata la mozione di fiducia che comporta la nascita definitiva di un Governo: infatti, il Governo, una volta formato, deve presentarsi entro 10 giorni dalla sua formazione dinanzi alle Camere per ottenere la fiducia (art. 94 Cost.), e soltanto una volta che questa è stata ottenuta esso potrà prestare giuramento nelle mani del Capo dello Stato ed essere immesso, quindi, ufficialmente nell’esercizio delle proprie funzioni.

Pertanto, nel caso di crisi parlamentari, viene meno quel meccanismo di fiducia che intercorre tra Governo e Parlamento, tipico della forma di governo parlamentare vigente nel nostro ordinamento: il Governo “vive” fino a quando il Parlamento decide di farlo “vivere”, ma una volta venuto meno il Governo, vi è rischio che anche il Parlamento venga meno, per le ragioni che vedremo da qui a poco (secondo il principio simul stabunt, simul cadent), e lo stesso art. 94 Cost. richiede la continua fiducia delle Camere affinché il Governo possa continuare ad esercitare le sue funzioni.

Nel caso di crisi extra-parlamentari, invece, la crisi origina a seguito di contrasti e di rotture interne alla maggioranza politica e al Governo stesso, con la conseguenza che il Governo si dimette per l’impossibilità di poter esercitare efficientemente e completamente le proprie funzioni.

La crisi di governo non è espressamente prevista dalla Costituzione: l’art. 94 Cost., infatti, si limita a stabilire che il Governo deve avere la fiducia di entrambe le Camere, e che ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata. Inoltre prevede i requisiti per la presentazione della mozione di sfiducia e specifica che può essere discussa una volta decorsi tre giorni dalla sua presentazione.

Ma oltre a questo, la Costituzione non prevede altro, rimettendo tutto alla prassi.

Inoltre, la prassi testimonia anche la presenza della c.d. “parlamentarizzazione della crisi”, in cui il Presidente del Consiglio affronta il dibattito parlamentare sulla crisi stessa, e quindi rende conto di essa dinanzi alle Camere.

 

Che crisi è quella del Governo Conte?

Quella del Governo Conte potrebbe essere definita una crisi extra-parlamentare, poiché originata da dissidi interni alla compagine governativa, precisamente tra il vicepresidente Matteo Salvini e il M5S.

Anche se i due partiti inizialmente hanno cooperato per la formazione di un Governo, concludendo il c.d. contratto di governo, tra essi non correva – e, come è deducibile, non corre ancora – buon sangue. Le due esponenti politiche, infatti, erano ed hanno divergenze di vedute su più punti previsti dallo stesso contratto di governo. Pensiamo alla c.d. flat tax, che prevede un’aliquota unica per tutti i contribuenti (di dubbia costituzionalità, v. art. 53 Cost.); oppure pensiamo all’aumento dell’IVA per poter continuare a finanziare le manovre introdotte dalla legge di bilancio 2019. Ma ciò che ha portato ad una rottura definitiva è stata l’approvazione da parte della Lega della TAV (Treno Alta Velocità) Torino-Lione, fortemente contestata e contrastata dal M5S. Ed ecco, allora, che è scoppiata la crisi interna alla compagine governativa, con conseguenti attacchi a vicenda tra i due partiti.

Tuttavia, il 9 agosto 2019 la Lega ha depositato in Senato una mozione di sfiducia nei confronti del Governo Conte: ed ecco che allora sorgono dubbi circa la natura della crisi. Infatti, vista in quest’ottica, si dovrebbe trattare di una crisi parlamentare qualora la mozione di sfiducia venga approvata. Tuttavia, la mozione di sfiducia è frutto di una rottura interna al Governo e di un pressing ad opera del leader della Lega Matteo Salvini, e vista in quest’ottica dovrebbe trattarsi, pertanto – come evidenziato in precedenza – di una crisi extra-parlamentare.

La questione potrebbe essere risolta in questo modo: tralasciando per un momento il fatto che è stata presentata una mozione di sfiducia, e partendo dal presupposto che la crisi è originata all’interno della compagine governativa, si potrebbe definitivamente optare per la natura extra-parlamentare della stessa, per le ragioni di cui sopra. A tale affermazione bisogna muovere però delle obiezioni: a seguito di una crisi extra-parlamentare, solitamente (così è avvenuto nella maggior parte dei casi) il Governo rassegna le dimissioni volontarie, proprio per l’impossibilità di continuare i lavori a causa della rottura interna. Ciò non è accaduto da parte del Governo Conte: esso non ha (ancora) rassegnato le dimissioni.

Da ciò, quindi, possiamo affermare che la crisi ha senz’altro natura parlamentare, proprio perché si concretizzerà nell’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Parlamento, e in tal caso il Governo rassegnerà automaticamente le dimissioni, in quanto venuto meno quel rapporto fiduciario necessario, salvo rassegnare le dimissioni prima dell’approvazione della mozione di sfiducia: in tal caso, allora, si potrà tornare a parlare di crisi parlamentare.

Quindi, a mio avviso, è più corretto considerare la crisi del Governo Conte, almeno alla data del presente scritto, come una crisi parlamentare piuttosto che extra-parlamentare.

 

Possibili conseguenze

Ma quali potranno essere le conseguenze dell’attuale crisi, e quindi quali conseguenze accompagneranno lo scenario politico le dimissioni del Presidente del Consiglio Conte?

Possiamo rilevare diverse possibilità. Innanzitutto un Governo Conte bis, qualora il Capo dello Stato ravvisi la medesima maggioranza in Parlamento, con conseguente modifica della compagine governativa, in un’ottica di c.d. rimpasto governativo. Tale ipotesi però sembra, alla luce dei numeri in Parlamento, non possibile, salvo un’alleanza tra M5S e altri partiti esterni alla Lega, quali PD, unico partito possibile per l’alleanza (dato il ritorno della Lega nella precedente coalizione di centro-destra) e per costituire la funzionale maggioranza: una convivenza abbastanza difficile anche tra questi partiti.

Altra soluzione potrebbe essere la designazione di un nuovo Presidente del Consiglio ad opera del Presidente della Repubblica ex art. 92 Cost., tratto dalla stessa maggioranza parlamentare oppure da una diversa maggioranza che intanto può prendere piede nelle more della crisi. Quindi, il Capo dello Stato potrebbe individuare, a seguito delle consultazioni, una nuova maggioranza, o la maggioranza attuale potrebbe proporre un nuovo Presidente del Consiglio.

Ancora, ulteriore soluzione potrebbe essere lo scioglimento delle Camere a seguito delle dimissioni del Governo (secondo quanto detto supra) da parte del Presidente Mattarella, con conseguente convocazioni alle urne ed il Governo attuale potrà esclusivamente compiere gli atti ordinari, non potendo presentare nuove leggi, rimanendo in carica sino alla nomina di nuovo Governo per garantire la continuità dell’azione politica[5]. Tale scelta è un’extrema ratio alla crisi di Governo, in quanto la legislatura delle Camere è di 5 anni, e soltanto nell’impossibilità di trovare una maggioranza in Parlamento il Capo dello Stato ricorre allo scioglimento delle Camere e conseguente rinnovo delle stesse. Tale soluzione è quella auspicata da alcuni partiti, tra i quali la Lega, promotrice della mozione di sfiducia. Tuttavia, una tale soluzione potrebbe avere effetti disastrosi.

In primis, perché entro ottobre 2019 deve essere presentata la legge di bilancio 2020, documento contabile di tipo preventivo fondamentale per la gestione delle risorse finanziare dello Stato per il rispettivo anno. Inoltre, essa deve essere approvata entro il 31 dicembre, ed una mancata approvazione entro tale data comporta il c.d. esercizio provvisorio, che si ripercuote sull’amministrazione delle finanze dello Stato, in quanto quest’ultimo potrà esclusivamente riscuotere le entrate e non potrà sostenere spese oltre a quelle ordinarie (ad es., pagamento di stipendi, pensioni, debiti etc.). Uno scioglimento delle Camere ora non porterebbe alla formazione tempestiva di un nuovo Governo, dato che le elezioni, per vari iter burocratici, avverrebbero ad ottobre circa, con conseguente formazione del Governo verso metà novembre circa, ed impossibilità di approvare in tempo una legge di bilancio, con tutte le conseguenze del caso.

Inoltre, uno scioglimento delle Camere comporterebbe elezioni basate sul Rosatellum bis, e quindi si potrebbero riscontrare i medesimi problemi riscontrati nel 2018, con conseguente ritardo della nomina di un nuovo Governo e impossibilità di approvazione della legge bilancio. Possiamo dire, pertanto, che una simile scelta ricadrebbe, in modo negativo, sulle finanze dei cittadini e dello Stato.

Ultima possibilità è quella della nomina di un c.d. “governo tecnico” volto soltanto a modificare la legge elettorale e a presentare la legge di bilancio. Al momento, per quanto detto supra, questa è la soluzione più avallabile ed auspicabile, a mio avviso, per risolvere la crisi di governo: l’avallo di tale soluzione è data dal fatto che l’Italia non può permettersi un esercizio provvisorio, date le già pessime condizioni economiche dello Stato; inoltre, data la legge elettorale vigente, è l’unico modo per poter superare lo stallo in Parlamento.

Tuttavia, non resterà che attendere la scelta del Presidente della Repubblica, unica istituzione competente in materia, a seguito dell’eventuale approvazione della mozione di sfiducia.

Informazioni

R. Bin, Capire la Costituzione, Editori Laterza, 2002

R.Bin, Diritto Costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2018

A. Pisaneschi, Diritto Costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2014

Sulla mozione di sfiducia presentata dalla Lega: ansa.it/sito/notizie/politica/2019/08/08/crisi-governo-salvini-di-maio-conte-mattarella_985b8d8a-b324-489c-9f7f-1c353c28fdf9.html  

[1] Le percentuali ufficiali di tutti i partiti candidati alle elezioni per il rinnovo delle Camere del 4 marzo 2018 sono disponibili sul sito del Ministero dell’Interno: https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=C&dtel=04/03/2018&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

[2] L. n. 165/2017, che prende il nome di Legge Rosato o Rosatellum bis dal nome del suo relatore On. Ettore Rosato.

[3] L’articolo di Repubblica: https://www.repubblica.it/politica/2019/08/20/news/crisi_di_governo_conte_al_senato-233949397/

[4] Per un’analisi completa della questione di fiducia e sul suo funzionamento, v. Gennaro De Lucia, “L’approvazione della legge di bilancio 2019”, in http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/29/lapprovazione-della-legge-di-bilancio-2019/ . Qui ci limitiamo a ricordare che l’art. 94, co. 1 Cost stabilisce che il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni, salvo l’apposizione di una questione di fiducia da parte del Governo stesso, anche se ciò è avvenuta nella prassi, ma non vi è un obbligo costituzionale di dimissioni.

[5] Pisaneschi, Diritto Costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2004.


Garanzie costituzionali diritto penale

Garanzie costituzionali e diritto penale

Potremmo dare per scontate le garanzie costituzionali del diritto penale. Tuttavia non è improbabile assistere ad una “violazione” di tali principi, giustificata dal fatto che il diritto penale tocca ambiti abbastanza delicati, tutelando il bene comune e gli interessi dei cittadini e dello Stato

 

Introduzione alle garanzie costituzionali del diritto penale

Il diritto penale è quella branca del diritto pubblico che regolamenta e disciplina le conseguenze ai fatti costituenti reato[1], ossia quei fatti e comportamenti a cui l’ordinamento giuridico ricollega delle sanzioni penali (ad esempio, la reclusione) a tutela dell’interesse dei cittadini e dello Stato. Numerose sono le garanzie costituzionali in ambito penale poste a tutela dei cittadini.

Tali garanzie tutelano i cittadini sia precedentemente alle indagini, sia durante le indagini e il processo, sia nella fase (eventuale) dell’esecuzione della pena.

 

Principio di non discriminazione e diritto penale

Senz’altro una delle più importanti garanzie (se non la più importante) è quella posta dall’art. 3 Cost., che stabilisce il principio di non discriminazione, stabilendo al primo comma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Quello stabilito al primo comma è il c.d. principio di eguaglianza formale, secondo cui tutti i cittadini sono uguali, non vi sono cittadini diversi da altri per le proprie condizioni personali e sociali, oppure perché parlano altre lingue e sono di altre religioni. Da ciò discende una prima garanzia del soggetto: tutti sono uguali davanti alla legge, e quindi un soggetto non può invocare le proprie condizioni personali e sociali (ad esempio, il possedimento di un reddito elevato, oppure l’appartenenza ad una famiglia blasonata) per sfuggire alla giurisdizione dello Stato italiano.

La Corte Costituzionale[2], nella sua giurisprudenza, ha stabilito che la disposizione di cui all’art. 3 Cost. non si applica esclusivamente ai cittadini italiani, ma nei confronti di tutti gli individui, quali apolidi, stranieri e clandestini, in quanto diritto fondamentale dell’individuo.

Il principio di uguaglianza si impone anche nei confronti del giudice, e non soltanto nei confronti della Pubblica Amministrazione e del legislatore. Infatti, il giudice deve giudicare senza discriminazioni o favoritismi coloro che si trovano dinanzi ad egli, coloro che hanno commesso i medesimi reati.

 

Ordinamento interno ed ordinamento internazionale

Per dare il via all’analisi delle garanzie costituzionali del diritto penale si può stabilire come punto di partenza una precisa disposizione costituzionale.

L’art. 10 Cost. “apre” il nostro ordinamento a quello internazionale, stabilendo, al primo comma, che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”.

La disposizione in questione fa riferimento al diritto internazionale generale, ossia quel diritto internazionale che vincola tutti gli Stati membri della comunità internazionale, a differenza del diritto internazionale particolare, che vincola soltanto gli Stati parte di un trattato internazionale.

Le norme internazionali generali sono automaticamente applicabili nel nostro ordinamento, e quindi non è necessario alcun meccanismo interno degli Stati per poter dare efficacia a tali norme. Quindi, le tutele penali riconosciute dalla totalità (o almeno dalla maggior parte) degli Stati membri della comunità internazionale (e quindi gli Stati esistenti in tutto il mondo), sono automaticamente efficaci anche nel nostro ordinamento, grazie all’art. 10, co. 1 Cost. Ma non tutte le norme entrano incondizionatamente nel nostro ordinamento.

La Corte Costituzionale infatti ha ribadito più volte che non possono entrare nel nostro ordinamento norme che siano in contrasto o deroghino ai principi fondamentali della Costituzione o ai diritti inalienabili della persona umana, anche se tali norme sono antecedenti all’entrata in vigore della Costituzione[3].

In definitiva, le tutele penali stabilite dall’ordinamento internazionale entrano, in via di principio, automaticamente nel nostro ordinamento, con la conseguenza che i giudici e il legislatore dovranno tenere conto di queste.

Vi sono poi quelle tutele che discendono direttamente dai trattati internazionali ratificati dall’Italia, quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), oppure la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Tali convenzioni producono effetti giuridici vincolanti per gli Stati membri che ne fanno parte, con la conseguenza che una loro violazione comporta l’instaurazione di un procedimento a carico dello Stato autore della violazione. In tali trattati internazionali, ratificati dall’Italia – e quindi produttivi di effetti giuridici e vincolante per l’Italia – vi sono alcune tutele in ambito penale, già presenti anche nella nostra Costituzione, come ad esempio il principio di irretroattività della norma penale, oppure il principio secondo cui la pena non deve consistere in trattamenti inumani e degradanti.

 

L’estradizione

L’estradizione è lo strumento attraverso il quale uno Stato consegna allo Stato richiedente un soggetto che abbia commesso, nel territorio di quest’ultimo, un reato oppure sia stato già condannato.

La nostra Costituzione, però, stabilisce che l’estradizione può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali (art. 26, co. 1 Cost.) e non è ammessa per i reati politici (artt. 10, co. 4 e 26, co. 2 Cost.).

Ma cosa si intende per reati politici? Essi sono quei reati commessi dallo straniero nel proprio Paese d’origine per ribellarsi al regime sussistente nel Paese, qualora tale regime non sia democratico, non liberale, dittatoriale, e comunque qualora tale regime non sia in linea con i diritti fondamentali dell’individuo (ad esempio, la libera manifestazione del pensiero, la libertà di stampa, la libera associazione etc.). Quindi, il soggetto che viene condannato nel proprio Paese d’origine per tali reati, e trova rifugio nel nostro territorio non potrà essere estradato.

Inoltre, non è ammissibile neppure l’estradizione verso Stati che ammettono, quale pena per il reato commesso dal soggetto, la pena di morte qualora tale pena sia vietata nell’ordinamento a cui si richiede l’estradizione, come l’Italia. L’estradizione in questo caso è possibile soltanto qualora lo Stato richiedente offra le garanzie di non applicazione della pena di morte, o almeno di non esecuzione della stessa.

 

Il diritto di difesa e il giusto processo

Proseguendo nell’analisi delle garanzie costituzionali del diritto penale bisogna citare gli articoli 24 e 111 della Costituzione.

Ai sensi dell’art. 24 Cost., la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Il diritto di difesa rappresenta, infatti, un diritto inviolabile dell’individuo in ogni Stato democratico, che non può essere annullato o limitato da alcuna norma.

Il diritto di difesa è da intendersi sia come assistenza professionale durante il processo, assicurata anche ai non abbienti (c.d. patrocinio gratuito), sia la partecipazione effettiva al processo, e la partecipazione al processo deve svolgersi in condizioni di completa ed effettiva uguaglianza tra le parti.

L’art. 111 Cost. è invece attento a porre in essere dei principi riguardanti il giusto processo, e quindi a tutelare il soggetto nella fase del dibattimento e dell’accertamento della commissione del reato. Difatti, la disposizione in questione stabilisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Per giusto processo si intende una serie di principi elaborati per la tutela del processato, quali la terzietà ed imparzialità del giudice; l’informazione tempestiva e riservata sulla natura ed i motivi dell’accusa;, la possibilità di difesa e la garanzia del tempo necessario per prepararla; la possibilità di farsi ascoltare ed interrogare dal giudice; la facoltà di audizione delle persone che rendono dichiarazioni favorevoli per l’imputato; la ragionevole durata del processo, in quanto una durata prolungata rappresenta un’ingiusta afflizione per chi lo subisce; l’assistenza di un interprete in caso di mancata comprensione della lingua impiegata nel processo.

Inoltre, ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità.

 

Le garanzie poste dall’art. 25..

Tra le garanzie costituzionali del diritto penale rientrano infine altre due importantissime disposizioni. Si tratta degli artt. 25 e 27 della Costituzione.

L’art. 25 Cost., al comma 2 stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, in linea con l’art. 1 c.p. e con l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile.

L’analisi innanzitutto deve è da soffermarsi alla locuzione “nessuno” utilizzata dall’art. 25 Cost. Il termine viene adoperato dal costituente anche nel primo e nel terzo comma del suddetto articolo, in armonia con il principio di non discriminazione enunciato dall’art. 3 Cost., e il legislatore, pertanto, non può emanare leggi che costituiscono eccezioni.

Quanto al significato della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 25 Cost., essa riprende il principio del nullum crimen, nulla poena sine lege, contemplando uno dei principi cardine del diritto penale e, in generale, dei sistemi giuridici democratici e liberali di oggi, ossia il principio di legalità. Pertanto, il soggetto può essere punito per un suo comportamento soltanto qualora tale comportamento sia previsto come reato da una legge entrata in vigore anteriormente al fatto stesso.

Il principio di legalità, come si vedrà in seguito, non è previsto soltanto dalla Costituzione, ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla CEDU. Un principio di diritto penale quindi che trova riconoscimento su più livelli poiché esige una tutela assoluta: non è quindi un caso che sia una garanzia costituzionale del diritto penale.

 

.. e dall’art. 27 Cost. nel diritto penale

Quanto all’art. 27 Cost., al primo comma stabilisce che la responsabilità penale è personale. Ciò significa che nessuno può essere punito se non per un fatto commesso personalmente, e non per fatti commessi da altri. Da ciò deriva la non trasmissibilità della responsabilità penale, tanto è vero che la responsabilità penale si estingue con la morte dell’agente. Inoltre, a differenza di quanto accade in ambito civilistico, è da escludersi una responsabilità oggettiva, ossia quella responsabilità che sorge in capo ad un soggetto solo per il fatto di coprire una determinata situazione, senza che possa essere ad egli ricondotto il fatto, sia direttamente che indirettamente: si pensi, ad esempio, ai genitori che sono responsabile del fatto illecito commesso dal figlio minore ancora convivente con essi ex art. 2048 c.c. In materia penale ciò non è possibile, poiché la responsabilità penale sorge esclusivamente da un proprio comportamento e non da quello di altri.

Al secondo comma dell’art. 27 Cost. è previsto che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, sino quindi a prova contraria. Vige, pertanto, nel nostro ordinamento il principio di non colpevolezza, superando quindi l’impostazione tipica dell’età moderna, ove, invece, vi era la presunzione di colpevolezza piuttosto che di innocenza. L’indagato, dunque, non è da considerarsi colpevole se non dopo che è intervenuta una condanna definitiva, che si ha o con il passaggio in giudicato di una sentenza di primo o secondo grado (appello), oppure con la pronuncia della Corte di Cassazione, che rappresentanza il “terzo grado” e quindi giudice di ultima istanza, e pertanto si è colpevoli quando non è più possibile proporre alcuna impugnazione.

In merito a tale principio è da fare una considerazione. Dal punto di vista giuridico non si è colpevoli fino alla condanna giuridica, ma tale principio non trova applicazione nell’ambito sociale. Difatti, spesso, nella quasi totalità dei casi, anche il solo fatto di essere indagati fa sorgere una presunzione di colpevolezza tra i consociati, per cui l’indagato è reo, ed è quindi colpevole dei reati che gli vengono contestati, anche senza condanna definitiva, e anche se alla fine vi sarà l’archiviazione del caso.

Viene in rilievo soprattutto la cronaca giudiziaria, e quindi il lavoro dei giornalisti e i c.d. processi mediatici, in cui l’indagato è colpevole sin dall’inizio delle indagini, e non importa se alla fine il soggetto viene dichiarato innocente oppure si dichiara di non doversi procedere e vi è l’archiviazione del caso. È da chiedersi se è lecito, da parte dei giornalisti, fare cronaca su un qualsiasi caso giudiziario che si verifica nella società (dal furto di mele all’omicidio). Può, inoltre, il giornalista menzionare l’identità del soggetto che viene indagato, ledendo così l’onere e la reputazione altrui?

Per quanto attiene al primo quesito, va senz’altro data soluzione positiva, in quanto è diritto del cittadino essere informato su quanto accade nella società, ed è dovere del giornalista informare la collettività, purché tali informazioni rispondano a verità e il giornalista assuma una posizione di terzietà e neutrale.

La risposta alla seconda domanda è il bilanciamento tra due principi: il principio della riservatezza della persona e quello del dovere di informare e del diritto ad essere informati. Quando però deve prevalere l’uno a discapito dell’altro? Il diritto all’informazione prevale su quello alla riservatezza qualora vi sia la necessità di tutelare la società, qualora la società abbia interesse a conoscere l’identità dell’autore di reati abbastanza gravi (si pensi all’omicidio, o alla strage, o all’associazione di stampo mafioso etc.). Quindi, senz’altro per un furto di una mela il giornalista dovrà limitarsi a raccontare l’accaduto, senza però svelare l’identità del soggetto; al contrario, per un omicidio o un attacco terroristico il giornalista potrà svelare, se ne è conoscenza, l’identità dell’autore, per la tutela dell’interesse della società a conoscere l’autore di un reato abbastanza grave, e l’informazione non è da ritenersi lesiva dell’onore e della reputazione altrui. Inoltre, la Corte Costituzionale ha più volte affermato che la presunzione di non colpevolezza sino a prova contraria rappresenta un limite al lavoro dei giornalisti: è vietata, difatti, la divulgazione, a mezzo stampa, di notizie frammentarie, incerte o relative e procedimenti penali ancora in corso, quando tali notizie risultino lesive dell’onore della persona.

Quanto alle pene, ossia le sanzioni derivanti da un illecito penale, il terzo comma dell’art. 27 Cost. stabilisce che esse non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Le pene, innanzitutto, possono essere solo quelle previste dalla legge, e quindi anche in tal caso vige il principio di legalità, ed inoltre devono essere proporzionali alla gravità del reato e al grado di volontarietà del reo. Sarebbe inconcepibile, ad esempio, punire un furto di mele con una pena esagerata (ad esempio di 15 anni di reclusione), oppure equiparare un delitto colposo con un delitto doloso.

La pena ha, inoltre, una finalità rieducativa. In diritto penale infatti questa deve tendere alla rieducazione del condannato, al fine di reintrodurlo nella società una volta scontata la pena comminatagli. Infatti, sono previste misure alternative alla detenzione, quali la semi-libertà oppure l’affidamento al servizio sociale e i c.d. lavori socialmente utili. La pena, con l’avvento della Costituzione, ha quindi perso il suo carattere afflittivo, tipico invece nelle precedenti epoche.

Se la pena non può essere afflittiva e deve tendere alla rieducazione del condannato al fine di agevolare il suo reinserimento nella società, si pone un problema di legittimità della pena dell’ergastolo c.d. ostativo con la disposizione di cui all’art. 27, co. 3 Cost.

Più volte, infatti, si è dubitata la compatibilità dell’ergastolo con i principi della Costituzione, ed in particolare con il principio di rieducazione del condannato posto dall’art. 27, co. 3 Cost. La Corte Costituzionale ha ritenuto però legittimo l’ergastolo[4], in quanto, ad avviso della Consulta, il fine della pena non è soltanto quello del reinserimento nella società del condannato, ma anche quello della prevenzione generale[5], la difesa della società.

La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha invece condannato l’Italia, dichiarando l’ergastolo ostativo incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)[6]. La Corte di Strasburgo, infatti, contesta la compatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 della CEDU, che riproduce ciò che è previsto nel terzo comma dell’art. 27 Cost.

Inoltre, obietta che l’assenza di collaborazione di giustizia non possa essere di ostacolo alla concessione di benefici in termini di sconto di pena, quale i permessi di uscita. Infatti, il requisito fondamentale è quello della collaborazione con la giustizia, ma la Corte di Strasburgo stabilisce illegittima la presunzione di pericolosità derivante dalla mancanza di collaborazione, poiché tale volontà può derivante anche da altri fattori esterni al reo, e quindi la mancata collaborazione non deve essere vista con un fattore di pericolosità tale da non concedere all’ergastolano i benefici concessi a tutti gli altri detenuti. Difatti, vi sono altri fattori che permettono di individuare la non pericolosità e il ravvedimento del soggetto, e bisogna guardare proprio a tali fattori e non unicamente alla collaborazione con la giustizia.

Sempre secondo la Corte, inoltre, anche i reati più pericolosi e gravi non possono costituire una deroga all’art. 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti pene disumane e degradanti.

La Corte di Strasburgo però non ha fatto altro che applicare, seppur in termini di CEDU, la disposizione di cui all’art. 27, terzo comma Cost.

Infine, l’ultimo comma dell’art. 27 Cost. stabilisce che non è ammessa la pena di morte. Tale previsione è linea con il fine rieducativo descritto sopra. La Costituzione, pertanto, ha ripudiato definitivamente la pena di morte, ma aveva lasciato la scelta alla legge ordinaria della regolamentazione e dell’applicazione della pena di morte in periodo di guerra: il codice penale militare, infatti, la prevedeva, fino a quando il legislatore non l’ha eliminata definitivamente dal nostro ordinamento, abrogandola anche all’interno del codice penale militare. Inoltre, la legge costituzionale n. 1 del 2007 ha modificato l’ultimo comma dell’art. 27 Cost., novellando la precedente impostazione[7] ed eliminando dal nostro ordinamento la possibilità di reintroduzione della pena capitale.

Come si è potuto notare, quindi, la tutela non riguarda solamente i diritti del condannato, ma di tutti gli individui. La Costituzione pone alcune garanzie costituzionali inerenti al diritto penale tali da tutelare chiunque, qualsiasi cittadino, anche se non ancora condannato o indagato.

Costituzione della Repubblica italiana

Fiandaca-Musco, Diritto penale parte generale, ottava edizione, Zanichelli editore, 2019

http://www.dirittoconsenso.it/2018/10/24/il-reato-di-tortura/

Corte Costituzionale sentenza 120/1967 in http://www.giurcost.org/decisioni/1967/0120s-67.html

Corte Costituzionale sentenza 264/1974 in http://www.giurcost.org/decisioni/1974/0264s-74.html

Corte Costituzionale sentenza 238/2014 in http://www.giurcost.org/decisioni/2014/0238s-14.html

Corte europea dei diritti dell’uomo sentenza n. 77633-16 del 13/06/2019 caso Viola c. Italia https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-194036%22]}

[1] Fiandaca-Musco, Diritto penale parte generale, Zanichelli Editore, Bologna, 2019.

[2] Tra le tante, si veda la sentenza Corte Cost. n. 120/1967

[3] Tra le tante, la più importante è senz’altro la sentenza Corte Cost. n. 238/2014, che ha posto in essere l’attuale orientamento della Corte Costituzionale

[4] Corte Costituzionale, sent. 264/1974

[5] La teoria della prevenzione generale è stata oggetto di elaborazione in chiave psicologica da parte di Bentham e Feuerbach, ma ha radici antiche. Secondo tale teoria, il fine della pena è quello di evitare che altri soggetti commettano lo stesso reato, fungendo quindi da deterrente e intimidazione

[6] Caso Viola c. Italia, sentenza Corte EDU n. 77633-16 del 13/06/2019

[7] Nella precedente impostazione, quella del 1948, l’ultimo comma dell’art. 27 Cost. stabiliva che “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Ad oggi, a seguito della l. cost. 1/2007, l’art. 27 si limita a stabilire che “non è ammessa la pena di morte


Legge di bilancio 2019

L'approvazione della legge di bilancio 2019

Con il presente articolo si intende fare chiarezza sulle vicende politiche e giuridiche che hanno investito la legge di bilancio 2019, analizzando la questione dal punto di vista del diritto costituzionale e della prassi costituzionale

 

Introduzione

La nuova legge di bilancio 2019 è nata non senza polemiche da parte dei partiti politici e gruppi parlamentari di opposizione, polemiche alimentate dai vari tagli da parte dell’Esecutivo soprattutto su sanità e scuola e dalle varie tassazioni.

Ma il punto focale delle polemiche è da individuare soprattutto nell’apposizione, da parte del Governo, della questione di fiducia sulla legge di bilancio 2019, considerata addirittura anticostituzionale da parte del Partito democratico, che ha minacciato il ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione ex art. 134 Cost.

 

Cos’è la legge di bilancio?

Ma andiamo in ordine. Cos’è innanzitutto la legge di bilancio? La legge di bilancio è la legge mediante la quale viene approvato il bilancio dello Stato. Precisamente, è un documento di tipo preventivo (ed è dunque un bilancio di previsione) con cui il Governo illustra le spese previste per l’esercizio finanziario di riferimento e le relative entrate atte a coprire le spese, tenendo conto dell’obbligo per lo Stato di rispettare l’equilibrio tra le entrate e le spese (art. 81, co. 1 Cost.).

Lo Stato dovrà basare, quindi, la propria gestione finanziaria dell’anno successivo sulla legge di bilancio.

Essa deve essere necessariamente approvata entro il 31 dicembre di ogni anno, in quanto data di conclusione dell’esercizio finanziario. Se il Governo non riesce ad ottenere l’approvazione del bilancio di previsione (e quindi della legge di bilancio) entro tale data, esso potrà ugualmente riscuotere le entrate e sostenere le spese previste in suddetta legge non ancora approvata, ma per non più di quattro mesi (si parla del c.d. esercizio provvisorio).

È dal contenuto della legge di bilancio che possiamo evincere la sua importanza: per mezzo di essa lo Stato stabilisce quali spese dovrà sostenere – e dunque quante risorse destinare a determinati settori, quali ad esempio l’istruzione, la sanità pubblica, le infrastrutture etc. – e le relative entrate per poter sostenere tali spese – e dunque le varie tassazioni previste.

 

La questione di fiducia quale strumento per l’approvazione di un disegno di legge

Il Governo Conte, affinché la legge di bilancio 2019 potesse entrare in vigore e per evitare l’esercizio provvisorio, ha posto la questione di fiducia.

La questione di fiducia viene posta dal Governo su un suo atto che richiede l’approvazione parlamentare, qualificando tale atto come necessario per l’attuazione del suo indirizzo politico. La questione di fiducia non è disciplinata dalla Costituzione, ma è prevista dalla legge 400/1988 e dai regolamenti interni della Camera e del Senato.

La mancata approvazione della proposta del Governo su cui è posta la questione di fiducia fa sorgere, in capo ad esso, l’obbligo di dimettersi, in quanto è da ritenersi venuta meno la fiducia. Infatti, la forma di governo che vige nel nostro ordinamento è la forma di governo parlamentare, in cui intercorre un rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo. Il Governo, così, “vive” fin quando “vive” la fiducia del Parlamento: venuta meno tale fiducia, viene meno anche il Governo. Gli istituti della mozione di sfiducia e della mozione di fiducia (che viene votata al momento della formazione del nuovo Governo, il quale deve presentarsi, entro 10 giorni, dinanzi alle Camere per ottenere la fiducia) sono collegati proprio a tale forma di governo. La votazione negativa di un provvedimento del Governo su cui è esso ha posto la fiducia, quindi, equivarrebbe ad una mozione di sfiducia, e quindi si ritiene venuta meno la fiducia del Parlamento nei suoi confronti.

Con la questione di fiducia la discussione viene aggiornata, e quindi rinviata ad una determinata data e i lavori delle Camere vengono sospesi fino a tale data; la votazione è per appello nominale, evitando così i c.d. franchi tiratori, ossia i parlamentari della maggioranza che, nascondendosi dietro il voto segreto, votano contro i provvedimenti del Governo; viene bloccata la votazione degli emendamenti. Perciò, l’apposizione della questione di fiducia giova al Governo, che ne trae numerosi vantaggi.

 

Limiti alla questione di fiducia

La questione di fiducia, come abbiamo visto, comporta delle deroghe al normale procedimento legislativo, e precisamente al normale procedimento d’esame ed approvazione da parte di una Camera. Quindi, essa non può essere posta sulla totalità degli atti, in quanto vi sono dei limiti costituzionali e regolamentari.

Per quanto concerne i limiti di ordine regolamentare, il regolamento della Camera, al comma quarto dell’art. 116, stabilisce precisamente su quali atti e in quali procedimenti non può essere posta la questione di fiducia.

Per quanto riguarda i limiti di ordine costituzionale, il limite essenziale si rinviene nell’art. 72, co. 4 Cost., secondo cui “la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi”.

Come esplicato in precedenza, la questione di fiducia deroga al normale procedimento legislativo, e per l’approvazione della legge di bilancio la Costituzione richiede il normale procedimento legislativo. Per cui l’apposizione della questione di fiducia da parte del Governo Conte sulla manovra di bilancio non sembrerebbe essere legittima.

 

Cosa ha portato il Governo ha porre la questione di fiducia sula legge di bilancio?

L’illegittimità dell’apposizione della fiducia sul disegno di legge della manovra di bilancio 2019 si rinviene non tanto dall’analisi dei regolamenti interni delle Camere, ma proprio dalla disposizione costituzionale.

L’apposizione della questione di fiducia nel caso in analisi non è giustificabile in termini di tempo di approvazione, nel senso che non si può invocare lo scarso tempo a disposizione per l’approvazione della legge di bilancio. Infatti, la manovra è stata approvata il 30 dicembre, in “zona Cesarini”, evitando così l’esercizio provvisorio. Ma resta pur sempre un comportamento costituzionalmente illegittimo, un caso di abuso della questione di fiducia per evitare conseguenze derivanti dall’incompetenza dell’Esecutivo di presentare in tempo alle Camere una manovra di bilancio.

Non sarà questa la sede d’esame dei contenuti della manovra e delle varie vicende che essa ha vissuto. Basterà ricordare che l’Italia, con la presentazione della manovra a Bruxelles, ha rischiato una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea per deficit eccessivo[1] (primo caso nella storia dell’Unione europea, poiché nessuno Stato ha finora subito una procedura d’infrazione a causa del deficit eccessivo), in quanto si erano sforati i parametri stabiliti dal diritto dell’Unione. Poi l’Unione ha deciso di “graziare” lo Stato italiano, poiché esso ha deciso di abbandonare le sue posizioni originarie, venendo incontro all’Europa e conformandosi (quasi) al diritto dell’Unione (detto in termini spiccioli).

A seguito di questi eventi, è slittata la presentazione della manovra al Parlamento per la sua approvazione, facendo scarseggiare il tempo a disposizione. L’Esecutivo, per porre rimedio a tale situazione ha pensato di aggirare l’ostacolo temporale ponendo la fiducia: bell’idea se ciò non fosse stato anticostituzionale e se ciò non avesse portato all’esautorazione del Parlamento.

In uno Stato di diritto, democratico e in cui il Parlamento è posto al centro dell’ordinamento costituzionale, non è concepibile un tale atteggiamento da parte del Governo. Il Parlamento, espressione del consenso popolare, titolare del potere legislativo, si è trovato minacciato da parte dell’Esecutivo, trovandosi ad un bivio: o approvare la manovra oppure tornare tutti a casa, Governo e Parlamento. In termini privatistici si potrebbe invocare quasi un vizio della volontà, dato che il Parlamento ha approvato il disegno di legge sotto minaccia, ma tale affermazione potrebbe cadere in presenza della forte maggioranza da cui deriva il sostegno al Governo.

La nostra Costituzione, difesa con le unghie e con i denti dall’attuale maggioranza e dalle persone che ora sono membri del Governo, sancisce la separazione dei poteri, ponendo in capo al Parlamento il potere legislativo e in capo al Governo il potere esecutivo. Tuttavia, sempre più spesso il Parlamento – e di conseguenza la Costituzione – viene calpestata, e vi è un “scambio di ruoli”: il Governo avoca a sé il potere legislativo, così come sta avvenendo con l’emanazione di numerosi decreti-legge e com’è avvenuto ora con la questione di fiducia. La Costituzione viene ogni giorno calpestata da un’istituzione che invece dovrebbe preservarla ed osservarla lealmente, in quanto una delle istituzioni fondamentali del nostro sistema costituzionale.

È quindi inammissibile una situazione del genere, situazione del tutto analoga a quanto avvenne in epoca fascista, quando il Governo Mussolini si sostituì integralmente al Parlamento, complice anche la legge elettorale Acerbo.

 

La decisione della Corte Costituzionale

Come detto in precedenza, la Corte Costituzionale è stata adita sulla questione, in quanto il PD, gruppo parlamentare di opposizione, ha sollevato il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

In base al dettato dell’art. 134 Cost., infatti, la Corte Costituzionale è competente a giudicare, oltre che sulla legittimità costituzionale delle leggi, anche sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e le Regioni, nonché quelli sorti tra le Regioni stesse. Per conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato si intende quei conflitti che sorgono tra organi dello Stato, e tali conflitti si ravvisano ogni qualvolta un organo statale travalica le proprie competenze, invadendo il campo di operatività e le competenze di un altro organo statale.

Il gruppo parlamentare che ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale ha invocato conflitto di attribuzione proprio per le modalità di approvazione, da parte del Senato della Repubblica, della legge di bilancio.

Precisamente, il ricorso era volto a denunciare la compressione dei tempi di approvazione del disegno di legge di bilancio in questione, in quanto tale approvazione avrebbe esautorato i poteri del Parlamento, e precisamente della Commissione Bilancio, e impedito quindi ai singoli senatori di discutere sul contenuto e sull’approvazione del ddl, a seguito delle conseguenze che derivano dall’apposizione della questione di fiducia.

La Corte ha però, con un comunicato del 10 gennaio scorso, rigettato il ricorso sollevato da alcuni senatori. I motivi del rigetto sono da ravvisare proprio nel fatto che una serie di fattori ha comportato la concentrazione dei lavori di approvazione della legge di bilancio in tempi ristretti (quali appunto la discussione con Bruxelles e il previo raggiungimento di un compromesso con l’Unione europea e precisamente con la Commissione europea), comportando un anomalo procedimento di approvazione da parte del Senato proprio per rispettare le scadenze imposte costituzionalmente e da vincoli di derivazione comunitaria.

La Corte, quindi, pur riconoscendo ai singoli parlamentari il diritto di sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte stessa in caso di violazioni gravi e manifeste delle prerogative parlamentari attribuite loro dalla Costituzione, non ha riscontrato nelle violazioni obiettate dai senatori quella manifesta gravità che permetterebbe alla Consulta di intervenire.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno stabilito che, per le future leggi, le modalità di approvazione utilizzate dovranno essere abbandonate, pena la possibile incostituzionalità.

Dunque, la Corte ha “graziato” la legge di bilancio 2019, ma ha espressamente ammonito il Parlamento circa le future approvazioni. La prossima volta, quindi, potrebbe scattare il “cartellino rosso” sull’eventuale legge approvata con le medesime modalità con cui si è approvato il ddl della legge di bilancio 2019, in quanto ha stabilito che future leggi approvato con il medesimo procedimento difficilmente potranno superare il vaglio di costituzionalità. Ha comunque, seppur indirettamente, dichiarato “incostituzionale” il procedimento utilizzato.

Il presente lavoro non intende affatto criticare la questione di fiducia, utilizzata sin dagli albori della Costituzione (anche se l’istituto non è presente in essa), ma intende criticare l’abuso di essa. Non intende neanche essere di parte, in quanto è dato oggettivo ed evidente: si può notare la situazione del tutto incompatibile con la democrazia.

Informazioni

R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, XIX edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2018.

R. Bin, Capire la Costituzione, Editori Laterza, Bari, 1998.

P. Virga, Diritto costituzionale, Giuffrè Editore, Milano, 1975.

Inammissibile il conflitto tra poteri sollevato dal PD ma i singoli parlamentari possono ricorrere alla corte, in https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20190110182534.pdf