Il contratto di locazione
Il contratto di locazione: caratteristiche, obblighi delle parti e contenuto del contratto. Cosa prevede la legge in merito?
Introduzione: cos’è il contratto di locazione?
Il contratto di locazione viene definito dall’art. 1571 del Codice civile come un “contratto col quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo”.
Poiché sono previsti obblighi in capo a entrambe le parti, si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive, le cui parti sono:
- il locatore, che si obbliga a far godere l’altra parte del bene concesso in locazione;
- il conduttore, cioè colui a cui viene concesso il bene, di cui diventa mero detentore.
Dalla lettura della norma (cfr. “una parte si obbliga”) si evince la natura consensuale del contratto, il quale si perfeziona con lo scambio di consenso e non con la consegna del bene che ne costituisce oggetto.
Si tratta, inoltre, di un contratto avente effetti meramente obbligatori in quanto non comporta alcun trasferimento di proprietà o di altri diritti reali sul bene locato.
Con particolare riguardo alla durata della locazione, questa può essere a tempo determinato (con durata non superiore a 30 anni ex art. 1573 c.c.) o senza determinazione di tempo (e in questo caso è la legge a stabilire appositi limiti di durata a seconda del bene che ne costituisce oggetto ex art. 1574 cc)[1]. Si precisa a tal proposito che, a meno che il contratto di locazione abbia durata inferiore a trenta giorni nell’anno, sussiste obbligo di registrazione dello stesso presso l’Agenzia delle Entrate (con contestuale versamento delle imposte).
Obblighi delle parti
In capo a entrambe le parti del contratto sussistono obblighi ben definiti[2]:
- il locatore ai sensi dell’art. 1575 c.c. ha obbligo di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all’uso convenuto, garantendone il godimento[3] per tutta la durata del contratto e provvedendo alla straordinaria manutenzione;
- il conduttore, nel prendere in consegna la cosa, si impegna a goderne con la diligenza del buon padre di famiglia e a restituirla nello stato in cui l’ha ricevuta, provvedendo all’ordinaria manutenzione e a versare il corrispettivo dovuto al locatore nei termini concordati.
Al conduttore, salvo diverso accordo, è riconosciuta la facoltà di sublocare il bene in tutto o in parte, mentre non può cedere il contratto senza che vi sia consenso da parte del locatore. A questo proposito, si tenga a mente che la sublocazione costituisce un rapporto indipendente rispetto a quello tra il conduttore e il primo locatore, mentre in caso di cessione si avrebbe un nuovo conduttore che subentrerebbe al posto di quello iniziale, del quale andrebbe ad assumere ogni obbligo e diritto.
Il contenuto del contratto
Il contratto di locazione deve contenere alcuni elementi tipici a pena di nullità:
- la data di stipula, da cui il contratto ha decorrenza e da cui parte il termine per la sua registrazione (da effettuare entro trenta giorni);
- l’indicazione dettagliata sia delle parti che del bene dato in locazione, di cui devono essere riportati i dati catastali, i locali e i servizida cui è composto e l’uso per cui è concesso;
- l’importo del canone di locazione annuale e l’indicazione della modalità di pagamento;
- la durata del contratto e i termini per la disdetta.
A questi elementi tipici le parti potranno liberamente scegliere di affiancare ulteriori elementi, quale ad esempio la previsione di un deposito cauzionale.
Pur trattandosi di un negozio a forma libera, inoltre, la Legge n. 4317/1998 prevede l’obbligo di forma scritta per tutti i contratti di locazione stipulati dopo la sua entrata in vigore.
Opponibilità del contratto di locazione
Nell’ipotesi in cui il locatore decida di alienare il bene oggetto della locazione, egli dovrà comunicarlo prima al conduttore, in virtù del suo diritto di prelazione. Dal suo canto, il conduttore avrà sessanta giorni per decidere se acquistarlo, dopodiché il bene potrà essere venduto a terzi.
Per fare un esempio, il proprietario che decida di vendere un appartamento già locato, prima di proporlo in vendita a terzi dovrà inviare al conduttore una formale comunicazione riguardo la sua intenzione di vendita e il prezzo stabilito.
A questo punto, sarà il conduttore a decidere se avvalersi della sua facoltà di prelazione, e quindi a essere preferito ad altri potenziali acquirenti a parità di condizioni, oppure non farlo.
È opportuno precisare a tal proposito che il contratto di locazione si scioglie per intervenuta alienazione solo nel caso in cui le parti abbiano espressamente convenuto, ai sensi dell’art. 1603 c.c.[4], che la vendita determini l’interruzione del rapporto intercorrente tra locatore e conduttore.
Qualora al contrario non sia stata inserita nel contratto una simile previsione, e il locatore venda comunque a terzi, il conduttore avrà la possibilità di opporre il proprio contratto chiedendo di continuare a godere del bene locato.
Perché il contratto di locazione possa essere opposto, tuttavia, dovrà presentare determinati requisiti: più nello specifico dovrà avere data anteriore rispetto all’alienazione della cosa (a meno che si tratti di beni mobili non iscritti a pubblici registri) e dovrà essere stato trascritto. Qualora manchi quest’ultimo requisito, il contratto sarà opponibile nel limite di nove anni dall’inizio della locazione.
Informazioni
Codice civile.
Andrea Torrente, Piero Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, 25sima edizione.
Legge n. 4317/1998 – Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo.
[1] Per un approfondimento sulla durata dei contratti: Durata del contratto e disciplina del “termine” – DirittoConsenso.
[2] Per un approfondimento sugli obblighi delle parti: Introduzione al contratto di locazione – DirittoConsenso.
[3] In caso di vizi che ostacolino il godimento della cosa, invece, il conduttore può risolvere il contratto o chiedere una riduzione del canone.
[4] Art. 1603 c.c. “Se si è convenuto che il contratto possa sciogliersi in caso di alienazione della cosa locata, l’acquirente che vuole valersi di tale facoltà deve dare licenza al conduttore rispettando il termine di preavviso stabilito dal secondo comma dell’articolo 1596. In tal caso al conduttore licenziato non spetta il risarcimento dei danni, salvo patto contrario.
Il mantenimento dei figli
Cosa si intende per mantenimento dei figli, quando viene erogato e quali sono le spese comprese in esso?
Introduzione
L’obbligo al mantenimento dei figli è contenuto innanzitutto dall’articolo 30 della Costituzione, secondo cui “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio […]”, e viene disciplinato poi in modo dettagliato dal codice civile, all’interno del quale:
- l’art. 315 bis dispone il diritto dei figli a essere mantenuti, educati, istruiti e assistiti moralmente dai genitori nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni;
- l’art. 316 bis stabilisce che i genitori debbano adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive capacità e che, qualora non abbiano mezzi sufficienti, saranno gli ascendenti a dover fornire loro i mezzi necessari per adempiere a tali doveri;
- l’art. 337 ter prevede che il giudice, nell’adottare provvedimenti relativi alla prole, lo faccia con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Dispone, inoltre, che il giudice stabilisca la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento: ogni genitore provvederà in misura proporzionale al proprio reddito, e sarà compito del giudice fissare la corresponsione di un assegno periodico che rispetti il principio di proporzionalità;
- l’art. 337 septies prevede che il giudice possa disporre per i figli maggiorenni non economicamente indipendenti il pagamento di un assegno periodico versato direttamente all’avente diritto. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave vengono invece applicate integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
Nemmeno la decadenza dalla responsabilità genitoriale[1] fa venir meno il proprio dovere assistenza nei confronti dei figli: in queste ipotesi la giurisprudenza prevede infatti che il genitore dichiarato decaduto, pur non esercitando più la responsabilità genitoriale, resti gravato dal suo obbligo assistenziale[2].
Il contributo al mantenimento
In caso di separazione e divorzio dei genitori[3], viene fissato l’importo forfettizzato che un genitore dovrà corrispondere al genitore collocatario, cioè quello con cui i minori vivono prevalentemente, e lo stesso avviene in sede di regolamentazione delle responsabilità genitoriali nel caso di figli nati fuori dal matrimonio[4]. In entrambi i casi, la cifra dovuta viene calcolata in base alle capacità economiche dei genitori, cioè in base al loro reddito.
Il mantenimento presenta alcune particolari caratteristiche:
- è un diritto indisponibile, a cui non si può rinunciare;
- è impignorabile, cioè non può mai essere pignorato dai creditori;
- non è compensabile, quindi non è possibile omettere di versare il mantenimento per compensare eventuali crediti che un genitore vanta nei confronti dell’altro;
- è un versamento irripetibile, quindi l’importo corrisposto non può essere restituito:
- non è tassabile.
Nell’ipotesi in cui venga stabilito un collocamento paritario dei figli, che trascorreranno quindi lo stesso tempo con entrambi i genitori, sarà previsto invece un mantenimento diretto, e ciascun genitore provvederà personalmente alle spese da sostenere quando i bambini sono con lui.
L’importo fissato a titolo di mantenimento copre le spese ordinarie, cioè tutte quelle spese inerenti alla vita quotidiane.
Restano escluse, invece, le spese cosiddette straordinarie, stabilite in appositi elenchi previsti da ciascun Tribunale: si tratta di spese dal carattere eccezionale che devono essere concordate da entrambi i genitori e divise in misura percentuale tra essi. Nella maggior parte dei casi le spese straordinarie sono sostenute al 50% da entrambi, ma possono essere previste percentuali diverse a seconda di quanto pattuito dalle parti stesse o dal giudice.
Il mantenimento dei figli maggiorenni
Mentre l’obbligo di mantenimento dei figli minori è pacifico, possono sorgere dubbi in merito al mantenimento dei figli una volta che questi diventino maggiorenni.
La giurisprudenza è tornata più volte su questo aspetto, sostenendo che l’obbligo al mantenimento non venga meno al compimento della maggiore età, ma continui a sussistere fin quando i figli non riescano a raggiungere l’indipendenza economica, pur essendosi adoperati per farlo.
A questo proposito, tra le altre, l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 38366/2021 enuncia il principio di diritto secondo cui “l’obbligo di mantenere i figli non viene meno con il carattere di automaticità quando costoro abbiano raggiunto la maggiore età, ma si può protrarre oltre, nel caso in cui questi figli, senza colpa, siano ancora dipendenti dai genitori, in particolare nel caso in cui, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, il figlio dimostri, con onere probatorio a suo carico, di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente”.
L’onere probatorio cade quindi proprio sui figli, che dovranno dimostrare di essere senza colpa nel non essere ancora indipendenti, e di essersi al contrario impegnati attivamente per trovare un’occupazione.
Questo non significa che l’obbligo di mantenimento si possa protrarre all’infinito: è infatti recentissima una pronuncia della Corte di Cassazione secondo cui “il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni”[5].
In questo caso la Corte ha accolto il ricorso di un padre che si opponeva all’obbligo di mantenere una figlia ormai più che quarantenne, stabilendo che, con l’avanzare dell’età, la mancata occupazione del figlio non possa più essere un elemento da considerare ai fini del mantenimento.
L’inadempimento
In caso di omesso versamento del contributo al mantenimento, il genitore avente diritto ha la possibilità di agire nei confronti di quello inadempiente per il recupero delle somme dovute.
Ciò può avvenire tramite un’azione esecutiva, che permette di pignorare i beni del genitore per poter così soddisfare il diritto dei figli.
Ma non solo.
Per il genitore inadempiente possono esservi anche conseguenze penali, infatti la “violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio” costituisce un reato ai sensi dell’art. 570 bis c.p., il cui obiettivo è quello di punire il genitore che si sottrae al suo obbligo di corrispondere l’importo dovuto per il mantenimento.
Informazioni
Costituzione italiana
Codice civile
Codice penale
Cass. n. 22678/2010
Cass. n. 38366/2021
Cass. n. 358/2023
[1] Disciplinata dall’art. 330 c.c.
[2] Cass. n. 22678/2010.
[3] Per un approfondimento su separazione e divorzio: Separazione e divorzio in Italia – DirittoConsenso.
[4] Per un approfondimento sulla convivenza more uxorio: La convivenza more uxorio – DirittoConsenso.
[5] Cass. n. 358/2023.
L'archiviazione dei procedimenti penali
Cosa si intende per archiviazione di un procedimento penale? In quali casi viene disposta?
La richiesta di archiviazione
Terminata la fase di indagini preliminari[1], il pubblico ministero (pm) deve decidere se chiedere il rinvio a giudizio della persona sottoposta a indagini o l’archiviazione. Quest’ultima rappresenta l’alternativa nei casi in cui:
- la notizia di reato risulti infondata, non essendo stati acquisiti, nel corso delle indagini preliminari, elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio
- sia rimasto ignoto l’autore del reato a seguito dell’attività investigativa, cioè quando non sia stata individuata una persona nei confronti della quale sostenere l’accusa
- risulti mancante una condizione di procedibilità, per esempio nel caso in cui si tratti di un reato procedibile a querela della persona offesa e non sia stata sporta querela
- il reato sia estinto, ad esempio per morte dell’autore
- il fatto non sia previsto dalla legge come reato, ipotesi che si verifica per esempio nel caso in cui sia intervenuta una depenalizzazione in relazione a quella circostanza
- il fatto sia particolarmente tenue, nozione il cui ambito applicativo è circoscritto dall’art. 131 bis c.p. ai reati “per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena”. La tenuità del fatto, che esclude la punibilità, si basa su due requisiti: la tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
In presenza di uno di tali presupposti di fatto o di diritto, il pm, entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini[2], presenterà al giudice per le indagini preliminari richiesta di archiviazione, di cui viene avvisata la persona offesa che ne abbia fatto richiesta, o al suo difensore.
Nel caso in cui si sia indagato in merito a reati commessi con violenza alla persona o per il reato di furto aggravato, l’avviso alla persona offesa viene dato indipendentemente dal fatto che questa ne abbia fatto richiesta, nell’ottica di rafforzare il più possibile la tutela della vittima con riferimento a particolari reati. Sono, inoltre, legittimati a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione i congiunti della persona offesa deceduta in seguito al reato e gli organismi rappresentativi di interessi lesi dal reato stesso.
Opposizione all’archiviazione
Una volta ricevuto avviso della richiesta di archiviazione, alla persona offesa è riconosciuta la facoltà di prendere visione degli atti ed estrarne copia al fine di proporre una motivata opposizione e richiedere la prosecuzione delle indagini.
Tale opposizione deve essere proposta:
- generalmente entro il termine processuale di 20 giorni,
- aumentati a 30 nel caso di delitti commessi con violenza alla persona o di furto con strappo o in abitazione e
- diminuiti a 10 se si tratta di un caso di archiviazione per particolare tenuità del fatto.
Si tratta, in ogni caso, di un termine ordinatorio, il cui mancato rispetto non comporta l’inammissibilità dell’opposizione, dovendo questa comunque essere valutata dal giudice, a meno che quest’ultimo non abbia già emesso un provvedimento di archiviazione.
In pendenza del termine per l’opposizione, questa deve essere presentata presso la segreteria del pm, il quale provvederà a trasmetterla alla cancelleria del giudice insieme alla documentazione relativa alle indagini svolte e ai verbali degli atti già svolti dinanzi al GIP, una volta scaduto il termine andrà invece presentata direttamente in cancelleria.
L’obiettivo dell’opposizione è senz’altro quello di ottenere la disposizione di ulteriori indagini, di cui la persona offesa deve indicare oggetto e relativi elementi di prova a pena di inammissibilità. Secondo la giurisprudenza, infatti, ai fini dell’ammissibilità dell’opposizione non è sufficiente indicare l’oggetto delle investigazioni suppletive che si richiedono, in quanto l’opposizione potrebbe così essere valutata inammissibile “per difetto di pertinenza o di rilevanza degli elementi di investigazione suppletiva indicati” (Cass. Pen., sez. VI, n. 44878/2017); a questo proposito, sempre la giurisprudenza specifica che per pertinenza si intende “l’inerenza alla notizia di reato”, e per rilevanza “l’idoneità della investigazione proposta a incidere sulle risultanze dell’attività compiuta dal pubblico ministero” (Cass. Penale, sez. V, n. 50085/2017).
I possibili epiloghi sono:
- nel caso in cui l’opposizione sia ritenuta inammissibile e la notizia di reato infondata, il giudice emette decreto motivato di archiviazione e restituisce gli atti al pm;
- nel caso in cui invece accolga l’opposizione, il giudice fissa udienza in camera di consiglio, di cui viene dato avviso a pm, persona sottoposta a indagini, persona offesa e procuratore generale. All’esito di tale udienza, sarà il giudice a decidere se disporre l’archiviazione del procedimento tramite ordinanza, ordinare lo svolgimento di indagini suppletive, prevedendo anche un termine per il loro compimento, o imporre l’esercizio dell’azione penale entro 10 giorni.
I provvedimenti del giudice
Al di fuori dei casi in cui viene presentata opposizione, il giudice a cui venga presentata richiesta di archiviazione, se la ritiene fondata, accoglierà la stessa con decreto motivato, restituendo gli atti al pm. Tale decreto verrà notificato alla persona sottoposta a indagini cui era stata applicata la misura di custodia cautelare, al fine di una eventuale richiesta di riparazione per ingiusta detenzione[3].
Nel caso in cui, invece, il giudice decida di non accogliere la richiesta, allora fisserà entro tre mesi una udienza in camera di consiglio, dandone avviso al pm, persona sottoposta a indagini, persona offesa e procuratore generale, con la previsione per gli interessati di presentare memorie fino a cinque giorni prima dell’udienza, di prendere visione ed estrarre copia degli atti, nonché di essere sentiti in udienza. All’esito di tale udienza, il giudice deciderà se siano necessarie ulteriori indagini, indicando al pm un termine per il compimento, disporrà l’archiviazione o che il pm formuli l’imputazione entro dieci giorni, fissando poi a quel punto la data di udienza preliminare.
Il reclamo ai sensi dell’art. 410 bis
La L. 103/2017, tramite l’art. 410 bis c.p.p., ha introdotto l’istituto del reclamo, forma di controllo di legalità del provvedimento di archiviazione sostitutivo del ricorso per cassazione previsto in precedenza dall’art. 409 co. 6 e contestualmente abrogato.
L’articolo prevede espressamente le ipotesi in cui il decreto di archiviazione è nullo, e la possibilità che l’interessato, entro quindici giorni dalla conoscenza del provvedimento, proponga reclamo dinanzi al Tribunale in composizione monocratica, competente a decidere con ordinanza non impugnabile se
- accogliere il reclamo e quindi annullare il provvedimento, ordinando la restituzione degli atti al giudice che lo ha emesso
- confermare il provvedimento, condannando la parte che ha proposto reclamo al pagamento delle spese del procedimento
- dichiarare l’inammissibilità del reclamo, prevedendo sempre la condanna di cui sopra per la parte reclamante.
Le novità della riforma Cartabia
Il recente intervento legislativo attuato con il D.Lgs 10 ottobre 2022, n.150, la Riforma Cartabia[4], ha introdotto significative novità ai codici penale e di procedura penale, riformandone diversi aspetti. L’entrata in vigore, inizialmente prevista per il 01/11/2022, con il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162 è stata differita al 30/12/2022.
La riforma prevede la modifica della regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione: il pm dovrà chiedere l’archiviazione “quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna”, una regola che si sostituirà a quella attuale fondata sulla inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio. In quest’ottica il pm porterà l’indagato davanti al giudice solo se riterrà che ragionevolmente, allo stato degli atti, il giudice pronuncerebbe una sentenza di condanna.
La ratio sottostante è quella di rendere più rigoroso il filtro all’esito delle indagini preliminari, per evitare che siano portati alla fase processuale procedimenti non ben istruiti, con un conseguente dispendio di tempo ed energie, oltre che di danni per gli imputati.
Informazioni
Conso-Grevi-Bargis, Compendio di procedura penale, decima edizione.
Codice di procedura penale.
D. Lgs 10 ottobre 2022 n.150 (Riforma Cartabia).
Cass. Pen., Sez. VI, n. 44878/2017.
Cass. Penale, sez. V, n. 50085/2017.
[1] Per un approfondimento sulle indagini preliminari: https://www.dirittoconsenso.it/2021/01/04/indagini-preliminari-e-tutela-indagato/ e sulla loro durata: https://www.dirittoconsenso.it/2021/06/25/la-durata-delle-indagini-preliminari/
[2] Termine prorogabile per non più di tre mesi dal procuratore generale presso la Corte d’Appello, con decreto motivato e su richiesta del pm.
[3] Per un approfondimento sulla riparazione per ingiusta detenzione: https://www.dirittoconsenso.it/2021/01/25/riparazione-per-ingiusta-detenzione/
[4] Per un approfondimento sulla Riforma Cartabia: https://www.dirittoconsenso.it/2022/01/25/riforma-cartabia-del-processo-penale-e-del-processo-civile/
L'estradizione
La disciplina dell’estradizione: limiti, funzionamento e differenza tra estradizione passiva e attiva
Presupposti e limiti dell’estradizione
L’estradizione è una forma di cooperazione giudiziaria tra Stati che prevede la consegna di una persona da parte dello Stato in cui questa si trova fisicamente a un altro che ne abbia fatto richiesta. Attraverso questo meccanismo il soggetto estradato potrà essere sottoposto:
- a giudizio, in caso di estradizione processuale, o
- all’esecuzione di una pena già irrogata, in caso di estradizione esecutiva.
L’istituto è regolato principalmente da fonti internazionali; infatti, come chiarisce l’art. 696 c.p.p., in materia di rapporti giurisdizionali con le autorità straniere le norme codicistiche svolgono una funzione integratrice della disciplina sovranazionali, venendo applicate solo laddove le norme internazionali manchino o non dispongano diversamente.
Soggiace a precisi limiti, sia oggettivi che soggettivi, che ne sono al contempo i presupposti:
- il reato per cui l’estradizione è richiesta deve essere punibile con una pena detentiva;
- non si deve trattare di un reato politico, di un reato esclusivamente militare, di un reato di stampa o colposo;
- non è possibile estradare un soggetto qualora vi sia la possibilità che questo, una volta consegnato, possa essere oggetto di un processo discriminatorio o, nell’eseguire la pena, siano attuati atti persecutori o discriminatori;
- in rispetto del principio del ne bis in idem, che proibisce la doppia incriminazione, non può essere concessa l’estradizione di una persona già giudicata nello Stato per lo stesso fatto;
- deve sussistere una previsione bilaterale del fatto, essendo necessario che il fatto oggetto della domanda di estradizione costituisca reato sia nello Stato richiedente che in quello richiesto, corrispondendo in entrambi i casi a fattispecie astratte di reato;
- qualora lo Stato richiedente preveda per il fatto in questione la pena di morte, si presenta l’obbligo di rifiutare la consegna;
- il soggetto richiesto non può essere cittadino dello Stato cui è chiesta la consegna: non si tratta tuttavia di un impedimento assoluto, essendo previsto dalle convenzioni più recenti solo un rifiuto alla consegna motivato dalla cittadinanza;
- la minore età della persona richiesta può rilevare ai fini del rifiuto di estradizione, come prevista dalle normative pattizie.
L’estradizione passiva
Si parla di estradizione passiva quando lo Stato richiedente è uno Stato estero, mentre lo Stato richiesto è l’Italia.
Il procedimento prevede che la domanda di estradizione sia indirizzata al Ministro della Giustizia, il quale, dopo un vaglio preliminare riguardo la sua concedibilità, la trasmette al Procuratore generale presso la Corte d’Appello competente a promuovere il giudizio[1]. L’estradizione di un imputato o condannato all’estero è infatti subordinata a una decisione favorevole della Corte d’Appello ai sensi dell’art. 701 c.p.p., a meno che sia l’interessato stesso a dare il suo consenso[2].
Una volta ricevuta la domanda, il Procuratore generale dispone la comparizione innanzi a sé dell’interessato, la sua identificazione e l’interrogatorio alla presenza del difensore, che deve essere avvisato almeno 24 ore prima. È proprio durante l’interrogatorio che si raccoglierà l’eventuale consenso o la rinuncia al principio di specialità, entrambi validi solo se espressi alla presenza del difensore.
Entro 30 giorni il Procuratore Generale dovrà poi trasmettere e depositare la propria requisitoria circa la concedibilità dell’estradizione presso la cancelleria della Corte di Appello, unitamente agli atti e alle cose sequestrate. Di tale deposito sono avvisati l’estradando, il suo difensore e l’eventuale rappresentante dello Stato richiedente, che può farsi rappresentare nel corso del procedimento da un avvocato abilitato al patrocinio dinnanzi all’autorità italiana. A questi soggetti è riconosciuta la facoltà di prendere visione ed estrarre copia della requisitoria e degli atti, di visionare le cose sequestrate e di presentare memorie entro 10 giorni dalla notifica.
Scaduto questo termine, il Presidente della Corte fissa l’udienza, da comunicare al Procuratore generale e da notificare all’estradando, al suo difensore e al rappresentante dello Stato richiedente entro ulteriori 10 giorni a pena di nullità. Il procedimento si svolge in camera di consiglio ed è richiesta, a pena di nullità assoluta, la presenza del Procuratore generale e del difensore dell’estradando. Per quanto riguarda i poteri di accertamento di cui è investita la Corte, si prevede la possibilità di assumere informazioni e richiedere ulteriori accertamenti ritenuti necessari, integrando quanto già raccolto dal Procuratore.
La decisione favorevole riguardo l’esistenza dei presupposti per l’estradizione viene assunta entro 6 mesi dal deposito della requisitoria e pronunciata con sentenza, “se sussistono gravi indizi di colpevolezza ovvero se esiste una sentenza irrevocabile di condanna e se, per lo stesso fatto, nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione, non è in corso procedimento penale né è stata pronunciata sentenza irrevocabile dello Stato” (art. 705 c.p.p.). Tale sentenza può essere impugnata entro 15 giorni dall’avviso del suo deposito mediante ricorso in Cassazione, e legittimati a farlo sono il Procuratore, l’estradando e il suo difensore, nonché il rappresentante dello Stato richiedente.
Ai sensi dell’art. 708 c.p.p., entro 45 giorni dal ricevimento della pronuncia favorevole, il Ministro dovrà decidere in merito all’estradizione.
Nel caso in cui, al contrario, non fosse valutata la sussistenza dei presupposti per una pronuncia favorevole, la sentenza contraria all’estradizione impedisce l’accoglimento di una seconda domanda presentata dallo stesso Stato e per lo stesso fatto, a meno che tale domanda si fondi su nuovi elementi.
L’estradizione attiva
L’estradizione è attiva quando lo Stato richiedente è l’Italia, e il procedimento prende avvio da una richiesta del Ministro della Giustizia, che può agire su sua iniziativa o su istanza del Procuratore generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto si procede o deve essere eseguita la sentenza.
In tema di estradizione attiva ciò che assume maggiore rilevanza è la clausola di specialità, formulata dall’art. 721 c.p.p. in modo ancora più restrittivo e con riguardo alla sola libertà personale dell’estradato: non è, infatti, consentito sottoporre la persona consegnata a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentiva, né assoggettata ad altra misura restrittiva della libertà personale per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa.
Il problema che si pone in proposito è quello di individuare quale sia l’interpretazione del principio di specialità, tra la formulazione codicistica che si riferisce solo al divieto di atti coattivi e quella data dalla normativa pattizia, che al contrario impone solitamente una impossibilità di procedere o eseguire una pena per fatti anteriori diversi. A tal proposito, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10281 del 6 marzo 2008, affermando che “in materia di estradizione attiva, il principio di specialità previsto dall’art. 14, par. 1, della Convenzione europea di estradizione e dall’art. 721 c.p.p. non è riferibile alle misure di prevenzione personali e al relativo procedimento di applicazione; ne consegue che la persona estradata in Italia per ragioni diverse può essere assoggettata a misure di prevenzione personali e al relativo procedimento, senza la necessità di una preventiva richiesta di estradizione suppletiva allo Stato che ne ha disposto la consegna”.
Estradizione e mandato d’arresto europeo
La complessità del procedimento di estradizione, oltre che l’esigenza di rendere più rapida la consegna di persone sottoposte a procedimento o già condannate, hanno portato il legislatore a elaborare uno strumento che assicurasse al soggetto le stesse garanzie date dall’estradizione, riducendone però i tempi. Si tratta del mandato d’arresto europeo[3], istituto che condivide le stesse finalità dell’estradizione e a cui possono fare ricorso gli Stati membri dell’Unione Europea.
Informazioni
Conso-Grevi-Bargis, Compendio di procedura penale, decima edizione.
Codice di procedura penale.
Cass. pen., Sezioni Unite, n. 10281 del 6 marzo 2008.
[1] I criteri secondo cui stabilire la competenza sono individuati dall’art. 701 co. 4 c.p.p.
[2] Il consenso dell’estradando non impone, comunque, l’accoglimento della domanda, che resta subordinata al vaglio del Ministro e al rispetto dei limiti oggettivi e soggettivi.
[3] Per un approfondimento sul mandato d’arresto europeo: Il mandato di arresto europeo – DirittoConsenso.
Il reato di atti persecutori
Quando una condotta può essere definita stalking? Quali sono gli strumenti a tutela delle vittime? Facciamo chiarezza sugli atti persecutori e su come si inquadrano nell’ordinamento italiano
L’introduzione del reato di atti persecutori
Il reato di atti persecutori, più comunemente noto come stalking[1], è stato introdotto nel nostro ordinamento a partire dal 2009 sulla scia di una tendenza riscontrata in altri Paesi già a partire dagli anni ’90 il cui obiettivo era garantire una tutela il più puntuale possibile verso forme di aggressione invasive della vita altrui.
L’intervento legislativo[2] che ha portato alla modifica del codice penale con inserimento dell’art. 612 bis è stato accolto però non senza scetticismi da una parte di dottrina. Le critiche avanzate riguardavano sia il fatto che le condotte assillanti poste in essere dallo stalker rientrassero già in altre fattispecie codicistiche (quali molestie o lesioni), sia la difficoltà a definire con precisione quali condotte integrino il reato. La descrizione legislativa degli atti persecutori presenta infatti alcune zone di indeterminatezza il cui riempimento viene demandato all’interprete: essendo l’oggetto della tutela la libertà morale del soggetto passivo, intesa come libertà psicologica da ansie o timore di intrusioni nella propria vita, tale indeterminatezza sembra peraltro essere inevitabile.
La fattispecie
La fattispecie di reato, il cui soggetto attivo può essere chiunque, è incentrata sulla reiterazione di condotte minacciose o moleste e sugli effetti psichici che queste generano nella vittima.
Secondo l’art. 612 bis c.p.:
“Salvo che il fatto costituisca più gravo reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita […]”.
L’interpretazione delle minacce o molestie concrete deve quindi tenere conto della loro attitudine a far realizzare almeno uno dei tre eventi, alternativi tra loro[3], che il legislatore ha indicato nella norma incriminatrice:
- il perdurante e grave stato di ansia o di paura,
- il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o persona da una relazione affettiva,
- l’alterazione delle proprie abitudini di vita.
Il primo evento è caratterizzato dal perdurante e grave stato di ansia o di paura che la vittima avverte come conseguenza delle condotte subite: non è sufficiente che la vittima rilevi uno stato emotivo spiacevole ma è espressamente richiesto dal legislatore uno stress psicologico rilevante, che si possa appunto definire come perdurante e grave.
Il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva consiste invece in un sentimento di ansia e paura per un pericolo la cui incombenza non deve essere solo immaginaria, ma basata su circostanze concrete che motivano la fondatezza del timore stesso. L’evento è previsto in quanto le condotte persecutorie possono avere ad oggetto, oltre che la vittima stessa, anche i suoi congiunti o persone ad essa legate da relazione affettiva, un concetto, quest’ultimo, sicuramente generico e che secondo un ragionevole canone di interpretazione ricomprende solo le relazioni segnate da più rilevante intensità.
Riguardo il terzo evento, la costrizione della vittima a modificare le proprie abitudini di vita, sono state avanzate critiche riguardo la sua locuzione troppo generica: la definizione di quali siano le abitudini di vita di ciascuno non è infatti univoca, con la conseguenza che rimane devoluto all’interprete il compito di stabilire i modelli di vita e comportamenti la cui modifica peggiori le condizioni della vittima di stalking.
L’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie è il dolo generico, per cui la realizzazione degli atti persecutori si configura qualora vi sia coscienza e volontà del soggetto attivo di reiterare le proprie condotte assillanti, mentre è esclusa la possibilità che il reato sussista a titolo di dolo eventuale[4], richiedendo lo stalking una piena intenzione dell’agente di opprimere la vittima. È punito anche il tentativo, laddove siano stati commessi e ripetuti nel tempo atti aggressivi idonei a causare uno degli eventi previsti dal legislatore[5].
Il codice prevede poi due circostanze aggravanti applicabili agli atti persecutori:
- la prima sussiste quando tra agente e vittima si riscontra un preesistente rapporto di vicinanza, ipotesi che ricorre quando il fatto è commesso da un coniuge legalmente separato o divorziato o da una persona legata alla vittima da una significativa relazione affettiva, e quando è commesso per mezzo di strumenti informatici;
- la seconda circostanza opera in presenza di una debolezza particolare della persona offesa, per esempio quando il fatto è commesso nei confronti di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona disabile, ovvero con l’uso di armi.
Gli atti persecutori sul lavoro
In più occasioni la Corte di Cassazione, in ultimo con la sentenza n. 12827 del 5 aprile 2022, ha riconosciuto la sussistenza di stalking occupazionale in presenza di “mobbing[6] del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 bis c.p.”. La sentenza ha ad oggetto il caso di un datore condannato per atti persecutori per aver “tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nei dipendenti un duraturo stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita”.
Anche in questa particolare ipotesi, come si legge nella sentenza stessa, per la sussistenza del delitto è sufficiente il dolo generico, inteso come volontà di attuare reiterare condotte idonee a produrre uno tre eventi tipici previsti dalla norma incriminatrice.
Procedibilità del reato di atti persecutori e Codice rosso
L’art. 612 bis prevede che gli atti persecutori siano puniti a querela della persona offesa, proponibile entro sei mesi dalla percezione dell’ultimo atto minaccioso o assillante subito, con la previsione della possibilità di procedere d’ufficio se la persona offesa è un minore o un disabile, o ancora se il fatto è connesso ad un altro per cui si procede d’ufficio.
Per il delitto in esame la remissione della querela può essere solo processuale: si può perfezionare, cioè, solo davanti a un giudice o un ufficiale di polizia giudiziaria, una modalità richiesta per evitare che la vittima sia influenzata da pressioni volte a farle ritirare la querela. Ricorrono anche ipotesi in cui la querela è irrevocabile, e cioè quando gli atti persecutori consistono in gravi minacce, come minacce di morte, o nei casi in cui il reato è procedibile d’ufficio.
Quando gli atti persecutori si inseriscono in un più ampio quadro di violenza domestica e di genere, opera la legge n. 69 del 19 luglio 2019, il cosiddetto Codice rosso, che prevede un’accelerazione del procedimento penale. Pur in presenza di condotte riconducibili allo stalking, quindi, non sempre è riconosciuta la corsia preferenziale prevista dal Codice rosso, dovendo essere ravvisata a questo scopo una particolare urgenza di tutela, che non si ritiene sussistere qualora la vittima non viva a stretto contatto con chi attua condotte persecutorie o queste abbiano luogo tramite mezzi informatici.
La disciplina in vigore dal 2019 prevede che la polizia, ricevuta una querela riconducibile a stalking e maltrattamenti in famiglia[7], debba darne immediata comunicazione, eventualmente anche in forma orale, al pm, il quale entro tre giorni[8] dall’iscrizione della notizia di reato convoca la vittima per assumere informazioni direttamente da essa.
L’intento di questa previsione legislativa è quello di permettere di effettuare in tempi rapidi una valutazione riguardo alla necessità di chiedere l’adozione di misure cautelari, in particolare
- l’allontanamento dalla casa familiare ai sensi dell’art. 282 bis c.p.p., provvedimento con cui il giudice prescrive l’obbligo di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione;
- il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima ai sensi dell’art. 282 ter c.p.p., con cui si impone di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa;
in entrambi i casi il codice prevede la possibilità di verificare il rispetto delle misure eventualmente disposte per mezzo delle modalità di controllo previste dall’art. 275 bis c.p.p., che disciplina l’uso del braccialetto elettronico.
Informazioni
Fiandaca Musco, Diritto penale parte speciale, vol. II tomo primo, I delitti contro la persona,
quarta edizione
Codice penale
Legge n. 69 del 19 luglio 2019
Cass. sez. V penale n. 12827 del 5 aprile 2022
[1] Dall’inglese to stalk: inseguire furtivamente, braccare
[2] Legge n. 38 del 23 aprile 2009
[3] Ai fini della consumazione del reato è sufficiente se ne verifichi uno, e anche qualora si realizzino contemporaneamente più eventi il reato rimane unico.
[4] Per un approfondimento sul dolo eventuale: Dolo eventuale e colpa cosciente: casi di cronaca contemporanea – DirittoConsenso.
[5] Per un approfondimento sul tentativo: Il tentativo – DirittoConsenso.
[6] Per un approfondimento sul mobbing: Le origini del mobbing – DirittoConsenso.
[7] Per un approfondimento sui maltrattamenti in famiglia: Maltrattamenti sui minori – DirittoConsenso.
[8] Termine prorogato solo per esigenze di protezione di minori o per particolari ragioni di riservatezza, nell’interesse della vittima