I reati presupposto nella disciplina 231/2001
Caratteristiche e complessità applicative del d.lgs.231/2001 in relazione alla struttura dei reati presupposto
Il contesto: i c.d. white collar crimes
Per comprendere che cosa si intenda con la dicitura reati presupposto è necessario effettuare una breve premessa di natura storica.
Nel suo celebre discorso di fronte all’American Sociological Society Edwin Sutherland coniò, nel 1939, l’espressione white collar crimes. Sutherland qualificava i colletti bianchi come persone rispettabili o almeno rispettate, appartenenti alle upper class, che commettevano reati nel corso della loro attività professionale tramite condotte tenute violando la fiducia loro formalmente o implicitamente attribuita[1].
I criminali dal colletto bianco sono soggetti il cui interesse non è univocamente proiettato all’arricchimento personale, essi sono orientati all’arricchimento dell’ente nel contesto del quale operano e la loro posizione sociale, la loro educazione e le loro conoscenze permettono loro di essere, solitamente, pienamente consapevoli della illiceità delle loro azioni, illiceità che viene tuttavia marginalizzata e minimizzata.
Il d.lgs. 231/2001: societas delinquere non potest?
La consapevolezza acquisita sullo scenario internazionale in relazione alla configurazione di una responsabilità autonoma da attribuire in capo all’ente si pone come tema centrale della nostra riflessione.
La messa in discussione del celebre brocardo societas delinquere non potest trovò la sua concretizzazione prima, per l’appunto, a livello internazionale e divenne poi il centro, a livello nazionale, di discussioni ed elaborazioni legislative che portarono, in definitiva, al decreto legislativo 231/2001.
Infatti, tramite la legge 29 settembre 2000, n. 300 si ratificarono gli obblighi internazionali assunti[2], di cui sopra, con la conseguente delega al Governo affinché delineasse una disciplina relativa alla responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato.
Tale disciplina è, tutt’oggi, racchiusa nel d.lgs. 231/2001 il quale prevede una compresenza necessaria di svariati elementi affinché la responsabilità amministrativa derivante da reato possa sussistere, si delinea infatti una fattispecie composita le cui componenti ci accingiamo qui a delineare brevemente.
La responsabilità amministrativa derivante da reato: elementi caratterizzanti
In primo luogo, è necessaria la presenza di un reato presupposto. L’articolo 2 del d.lgs. 231/2001 afferma che “L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto”.
Possiamo affermare che la responsabilità amministrativa dell’ente deve necessariamente derivare dalla commissione di un reato, tuttavia dobbiamo sempre tenere ben presente che non ogni reato potrà essere fonte di tale responsabilità. Infatti, affinché si possa configurare la suddetta responsabilità, il reato in questione dovrà essere inserito nel c.d. catalogo dei reati presupposto.
In secondo luogo, abbiamo la necessità di poter configurare un rapporto qualificato che deve intercorrere tra l’autore del reato e la società stessa. Il reato potrà essere, infatti, commesso da persone che rivestono un ruolo di amministrazione, rappresentanza o direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso. La commissione potrà poi essere attribuita a soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti precedentemente citati. È poi necessario che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente[3] e che sussista la c.d. colpa di organizzazione, ovverosia la violazione di obblighi prevenzionistici che il legislatore ha affidato all’impresa.
I reati presupposto: difficoltà applicative
Uno degli elementi essenziali della fattispecie composita è, come abbiamo accennato precedentemente, il reato presupposto. Il legislatore, in perfetta coerenza rispetto a quanto affermato all’articolo 2 del d.lgs. 231/2001 ha stilato, nel decreto stesso, ciò che viene comunemente chiamato ‘catalogo dei reati presupposto’. Ci troviamo dunque di fronte ad un elenco di reati per la commissione dei quali si potrà (in presenza anche degli altri elementi essenziali di cui sopra) configurare una responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reato.
La configurazione di tale catalogo, tuttavia, presenta qualche complicazione. Infatti, già nelle fasi iniziali di stesura del d.lgs. 231/2001 l’attuazione della legge delega si strutturò senza tenere conto di alcuni elementi essenziali e imprescindibili che avrebbero dovuto essere presi in considerazione fin da subito. Gli articoli 24 e 25 del testo originario del d.lgs. 231/2001 racchiudevano un catalogo di reati presupposto non soddisfacente, molto ridotto rispetto a quella che era la previsione effettuata nella legge delega. La legge n. 300/2000 prevedeva che fin dal principio, ad esempio, fossero inseriti nel catalogo anche reati colposi. Questo aspetto venne inizialmente tralasciato, inserendo all’interno della struttura del d.lgs. 231/2001 esclusivamente reati di stampo doloso e rendendo l’intero assetto del decreto coerente con questa scelta.
D.lgs. 231/2001: reati presupposto colposi
Quando nel 2007 venne introdotto l’articolo 25-septies[4], per la prima volta si inserì nel decreto un reato presupposto di natura colposa. Iniziarono, di conseguenza, ad emergere le prime difficoltà interpretative.
Il criterio di imputazione di cui all’articolo 5 del d.lgs. 231/2001 si rivelò totalmente inadeguato[5], in particolar modo nella parte in cui determinava la necessità di prefigurare la commissione del reato nell’interesse dell’ente. Infatti, è evidente l’incompatibilità tra la non-volontà tipica dei delitti colposi e l’elemento di commissione del reato nell’interesse della società, che dovrebbe sottostare alla commissione del delitto in quanto elemento imprescindibile della fattispecie composita. Come può un delitto essere allo stesso tempo colposo e prevedere una componente di interesse? La problematica non è di facile risoluzione. Elaborazioni giurisprudenziali[6] hanno ritenuto che una possibile compresenza dei due elementi potrebbe essere ravvisata nella c.d. colpa di organizzazione. L’interesse risiederebbe dunque non tanto nella commissione del reato quanto nell’organizzazione carente della società, nel suo interesse a mantenere viva una lacuna organizzativa che possa agevolare, permettere o essere causa della commissione di illeciti.
Ulteriore e rilevante tematica è quella dell’incoerenza interna allo spettro dei reati presupposto. L’arricchirsi del prospetto di questi ultimi, infatti, si è rivelato essere totalmente disorganico: per molto tempo sono state assenti condotte che avrebbero dovuto essere inserite fin dal principio. Ne sono un esempio:
- i reati tributari, introdotti solo nel 2019[7] (art. 25-quinquiesdecies, aggiunto dalla l. 19 dicembre 2019, n. 157) o
- i delitti di ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, e il delitto di autoriciclaggio (art. 25-octies, aggiunto dal d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 con successive modificazioni) e
- ancora, sempre estremamente rilevante ai nostri fini, l’introduzione postuma dei reati in violazione di diritto di autore (art. 25-novies, aggiunto dalla l. 23 luglio 2009, n. 99).
L’introduzione di reati che sono estremamente particolareggiati lascia poi perplessi. Un esempio sono i reati di cui alla l. 14 gennaio 2013, n.9, legge che ha introdotto i delitti commessi nell’interesse di enti che operano nell’ambito della filiera dell’olio vergine di oliva.
Pare dunque evidente che reati di frequenza estrema nell’ambito dell’impresa siano stati esclusi per forse troppo tempo, mentre l’introduzione di reati non particolarmente frequenti nell’ambito imprenditoriale e commerciale (si pensi all’articolo 25-quater sulla mutilazione degli organi genitali femminili, introdotto con la l. 9 gennaio 2006, n.7) o relativi a settori eccessivamente specifici, sono stati introdotti senza una vera e coerente motivazione.
Sarebbe auspicabile, di conseguenza, un intervento del legislatore finalizzato alla sistemazione di profili estremamente critici della disciplina in questione.
Informazioni
M. Ceresa-Gastaldo, Procedura Penale delle Società, 3 ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2019
P. Burla, E. Cieri, I. Maccani, ‘Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità amministrativa ex. D.lgs. n.231/2001’, in La responsabilità da reato delle società, Il Sole24ore, 2009, disponibile su https://st.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Norme%20e%20Tributi/2010/speciale-231/la-guida/Capitolo1_Burla_Cieri_Maccani.pdf?cmd%3Dart
[1] Edwin Sutherland, riferendosi ai c.d. colletti bianchi’, affermava: “This paper is an attempt to integrate the two bodies of knowledge. More accurately stated, it is a comparison of crime in the upper or white-collar class, composed of respectable or at least respected business and professional men, and crime in the lower class, composed of persons of low socioeconomic status”
[2] La legge delega del 2000, n.300 riporta i sopracitati obblighi internazionali nell’articolo 1: “Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare i seguenti Atti internazionali elaborati in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995; suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996; Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta, Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996; nonché Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997”.
[3] L’articolo 5 del d.lgs. 231/2001 pone una apparente alternativa tra l’elemento del vantaggio e l’elemento dell’interesse. Leggendo la disposizione e effettuando una interpretazione letterale, si potrebbe pensare che la sussistenza di uno o dell’altro elemento sia sufficiente affinché sia soddisfatto uno dei requisiti per la sussistenza della responsabilità dell’ente. La verità è ben diversa: l’unico elemento realmente essenziale è quello della commissione del reato nell’interesse dell’ente. Ben si potrebbero, infatti, verificare casi in cui un reato presupposto, pur commesso nell’interesse dell’ente non comporti alcun vantaggio concreto per quest’ultimo. L’elemento del vantaggio, dunque, non è imprescindibile ma esclusivamente eventuale.
[4] Si tratta del reato di omicidio colposo o lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
[5] Le complessità strutturali del d.lgs. 231/2001 sono in realtà molteplici, l’assetto del decreto presenta delle problematiche interpretative non di poco conto, spesso foriere anche di dubbi inerenti alla legittimità costituzionale di determinate disposizioni. Sul tema, si veda: A. Pirelli, Critica al d.lgs. 231/2001: un affronto ai principi costituzionali, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/13/critica-dlgs-231-2001-affronto-principi-costituzionali/
[6] In particolar modo, sul tema funge da apripista la celebre sentenza Thyssenkrupp. Si veda, Cass. Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, in Giurisprudenza Penale, 2014.
[7] Si veda, sul tema: L. Lotti, L’ingresso dei reati tributari nel d.lgs. 231/2001, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/13/ingresso-reati-tributari-dlgs-231-2001/
Rappresentante legale e art. 44 d. lgs. 231/2001
Il rappresentante legale testimone nel processo per illecito amministrativo derivante da reato: contraddizione in termini
Il rappresentante legale: testimone e parte?
La disciplina dell’istituto della testimonianza ricopre nel diritto processuale penale un ruolo di primaria importanza. Il chiaro principio del nemo tenetur se detegere e il diritto dell’imputato a non autoincriminarsi rappresentano una delle più importanti garanzie fornite all’imputato stesso nel pieno rispetto dell’articolo 24 comma secondo della Costituzione, che sancisce il diritto di difesa e lo qualifica come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
L’incompatibilità del ruolo di imputato con il ruolo di testimone, tuttavia, riscontra dei profili di problematicità se collocato all’interno della disciplina del decreto legislativo 231/2001[1], poiché in esso si riscontra una disposizione, più precisamente l’articolo 44, la quale, se interpretata letteralmente, sembra permettere la compatibilità con il ruolo di testimone del rappresentante legale dell’ente.
La testimonianza e le tutele per l’imputato persona fisica
Il mezzo di prova della testimonianza è caratterizzato da alcune peculiarità che vanno delineate sinteticamente, per permetterci di avere un quadro più completo. Il testimone ha chiaramente l’obbligo di presentarsi davanti al giudice e di rispondere secondo verità[2].
Ricordiamo che la capacità processuale di testimoniare appartiene a qualsiasi persona. Per valutare le dichiarazioni del teste potrebbe ad ogni modo essere necessario verificarne l’idoneità, fisica o mentale, a rendere la testimonianza stessa[3].
Ciò che più rileva ai nostri fini è senza dubbio il tema della incompatibilità con l’ufficio di testimone di determinati soggetti:
- Innanzi tutto, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata alla pena pecuniaria non possono ricoprire il ruolo di testimone
- Allo stesso modo, vi è il divieto di ricoprire il ruolo di testimone per le persone che nel medesimo procedimento hanno svolto funzioni di pubblico ministero o di loro ausiliario
- lo stesso divieto si ripercuote sul difensore che abbia svolto indagini difensive documentate ex articolo 391 ter.
- l’imputato non potrà ricoprire il ruolo di testimone. L’ordinamento, nel pieno rispetto dell’articolo 24 comma secondo della Costituzione, prevede che egli goda del diritto al silenzio e sia protetto dal principio del nemo tenetur se detegere.
Possono, invece, ricoprire l’ufficio di testimoni i coimputati di un medesimo reato, anche se si procede in una separato processo connesso ex articolo 12 lettera a), ma soltanto ove sia intervenuta sentenza irrevocabile, sia essa di proscioglimento o di condanna. Anche gli imputati in procedimento connesso ex articolo 12 lettera c) o di un reato collegato ex articolo 371 lettera b) possono ricoprire l’ufficio di testimone, sempre che siano stati avvisati ex articolo 64 comma 3 lettera c) del codice di procedura penale.
L’articolo 44 del decreto 231/2001
Il nodo cruciale da cui derivano non poche perplessità risiede, in seno alla disciplina del decreto 231/2001, nell’articolo 44 del suddetto decreto, rubricato Incompatibilità con l’ufficio di testimone.
La disposizione evidenzia prima di tutto come non possa essere assunta come testimone la persona imputata del reato da cui l’illecito amministrativo deriva, come si evince dalla lettera a) del primo comma del suddetto articolo.
Il punto cruciale della nostra riflessione, tuttavia, si concentra sull’articolo 44 comma 1 lettera b) del decreto legislativo 231/2001. La norma, infatti, prevede, oltre alla incompatibilità con il ruolo di testimone della persona imputata del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, anche l’incompatibilità della persona che rappresenta l’ente indicata nella dichiarazione di cui all’articolo 39 comma 2 del suddetto decreto, purché esso rivestisse tale funzione anche al momento di commissione del reato.
Criticità: il legale rappresentante testimone
La disposizione pare fin da subito spinosa e non priva di sfumature critiche. Abbiamo evidenziato, al principio del nostro discorso, come per l’imputato persona fisica sussistano delle garanzie inerenti al suo diritto al silenzio. Allo stesso modo, la copertura dell’articolo 35 del decreto legislativo 231/2001[4] dovrebbe garantire all’ente la incompatibilità con il ruolo di testimone e logica vorrebbe che tale incompatibilità fosse estesa al suo rappresentante legale, che lo impersona nel processo. Tali garanzie vengono, tuttavia, palesemente meno per l’ente imputato, il quale per l’appunto ravvisa la possibilità di vedere testimoniare il proprio rappresentante legale nell’eventualità in cui egli non ricoprisse tale ruolo al momento di commissione del reato. La scelta del legislatore, oltretutto, si presenta come una scelta intenzionale, in quanto la stessa relazione di accompagnamento ribadisce come la parificazione all’imputato venga effettuata con riferimento esclusivo all’ente e non al rappresentante legale, il quale, invece, pur godendo di un regime peculiare e non venendo escluso da tutte le garanzie dell’imputato, può talvolta essere considerato anche come un testimone.
Il rappresentante legale: incompatibilità a testimoniare?
È senza dubbio inevitabile, a questo punto, chiedersi se l’articolo 44 del decreto 231/2001 possa non confliggere con l’articolo 24 comma secondo della Costituzione e il relativo diritto di difesa, in quanto esso consente di vedere il rappresentante legale (il quale, ribadiamo, impersona l’ente nel processo) ricoprire il ruolo di testimone all’interno del procedimento ove l’ente ricopre il ruolo di imputato per illecito amministrativo derivante da reato.
Questo conflitto non è in realtà di facile risoluzione. La configurazione della disposizione rende molto complessa l’operazione di interpretazione finalizzata a renderla coerente con il dettato costituzionale. Tuttavia, si palesa la possibilità di attribuire alla disposizione stessa un significato distinto da quello problematico appena esposto. Il legislatore, sostiene tale visione, non avrebbe infatti voluto dichiarare la compatibilità con il ruolo di testimone del rappresentante legale nel procedimento, bensì la compatibilità con tale ruolo di colui che ricopriva la carica di legale rappresentante al momento della commissione del reato e che è stato poi sostituito nella carica stessa.
Conclusione
Pare dunque protetta e tutelata, tramite questa lettura della norma, la posizione del rappresentante legale in carica, che non potrà di conseguenza testimoniare nel procedimento in questione. La disposizione andrebbe sostanzialmente letta modificando l’ordine dei sintagmi che la compongono, in questo modo: la persona che rappresentava l’ente al momento della commissione del reato e indicata nella dichiarazione di cui all’articolo 39 comma 2 non può essere assunta con il ruolo di testimone. Si sta quindi asserendo che se il rappresentante legale in carica è lo stesso che ricopriva tale posizione anche al momento di commissione del reato ed è indicato nella dichiarazione di cui all’articolo 39 comma 2, tale rappresentante legale non potrà ricoprire l’ufficio di testimone. Se colui che ricopriva il ruolo di rappresentante legale al momento della commissione del reato, tuttavia, è stato poi sostituito da un altro rappresentante legale la garanzia ad egli fornita dall’articolo 44 viene meno e potrà ricoprire l’ufficio di testimone, a meno che non sia chiaramente imputato per il reato da cui l’illecito amministrativo deriva, poiché in questo scenario sarebbe protetto dalla disposizione di cui all’articolo 44 comma 1 lettera a) del decreto legislativo 231/2001.
Con questa metodologia interpretativa, che si spinge al di là del mero testo letterale della norma, possiamo dunque concludere che l’obbligo di deporre non si riferisce al legale rappresentante in carica (che non ricopriva tale ruolo al momento della commissione del reato), quanto al rappresentante legale che è stato, per l’appunto, sostituito e che era tale al momento della commissione del reato. In questo modo si permette di tutelare la figura del legale rappresentante in carica garantendo il principio del nemo tenetur se detegere e il rispetto dell’articolo 35 del decreto 231/2001 ma allo stesso tempo si concede al rappresentante legale che è stato sostituto, ove non sia imputato per il reato da cui dipende l’illecito amministrativo, di ricoprire il ruolo di testimone e dare quindi un contributo probatorio assai rilevante.
Informazioni
M. Bargis, Compendio di procedura penale, CEDAM, Torino, 9 edizione, 2018
M. Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, G. Giappichelli Editore, Torino, 3 edizione, 2019
[1] Per un cenno introduttivo rispetto al decreto legislativo 231/2001 si veda: L. Lotti, Il rapporto tra modello 231 e giurisprudenza, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/
[2] Come espressamente dichiarato all’articolo 198 c.p.p.
[3] Come espressamente dichiarato all’articolo 196 c.p.p.
[4] L’articolo 35 del decreto 231/2001 sancisce che all’ente si applichino le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.
Le indagini preliminari e la tutela dell'indagato
Il delicato tema delle prerogative dell’indagato nella fase delle indagini preliminari all’interno del processo penale
Le indagini preliminari
Le indagini preliminari, all’interno del contesto del procedimento penale[1], ricoprono un ruolo essenziale in quanto finalizzate ad essere strumentali ‘‘per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale’’, come espressamente chiarito dall’articolo 326 c.p.p.
Le indagini preliminari sono, per l’appunto, chiaramente volte all’acquisizione di fonti di prova, cioè di elementi fondamentali affinché il pubblico ministero possa esercitare l’azione penale, ma completamente privi di valore probatorio. Si ha, dunque, un meccanismo di discernimento, rappresentato dall’acquisizione nella fase delle indagini preliminari di mere fonti di prova, che potranno poi divenire prova esclusivamente nel momento in cui si entrerà nella altrettanto essenziale fase del giudizio. Questa suddivisione risponde alla necessità di costruire un’architettura coerente rispetto al sistema processuale ad oggi adottato dall’ordinamento italiano, qualificato come sistema accusatorio.
Il sistema accusatorio
Il cuore del sistema accusatorio è rappresentato dalla necessità di operare una forte separazione tra le fasi del procedimento, in particolare avendo un occhio di riguardo per la differenziazione tra la fase delle indagini preliminari e la fase del giudizio.
Tale necessità deriva dalla infelice esperienza del codice di procedura penale del 1930, ove la figura dell’organo investigativo si muoveva nello scacchiere del procedimento con una discrezionalità eccessiva, ponendo spesso il diritto di difesa in una posizione di marginalità, dettata dalle facili contaminazioni, per l’appunto, tra la fase delle indagini preliminari e la fase del dibattimento. È interessante anche notare come, ad oggi, il legislatore si preoccupi di marcare tale distinzione tramite l’utilizzo di una terminologia apposita da riferire rispettivamente alla fase delle indagini preliminari e alla fase del procedimento.
A tale proposito, ricordiamo quindi che, per correttezza terminologica, procedimento è il termine da utilizzare per riferirsi alla sola fase delle indagini preliminari o, con un’accezione più generale, al complesso composto dalle indagini preliminari e dal giudizio, mentre il termine processo fa riferimento esclusivamente a quella parte del procedimento introdotta dalla imputazione e caratterizzata dalla giurisdizione. Allo stesso modo, dovremo parlare di persona sottoposta ad indagini (il c.d. indagato) nella fase delle indagini preliminari e di imputato nel solo momento in cui tale soggetto veda nei suoi confronti formulata una imputazione. In ultima istanza, come già precedentemente accennato, vi è una essenziale differenza tra i c.d. atti di indagine del pubblico ministero, anche chiamati atti omologhi, e gli atti di prova tipici della fase dibattimentale e compiuti nel contraddittorio di fronte al giudice.
Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari
Il dominus indiscusso della fase delle indagini preliminari è il pubblico ministero. Alla figura di quest’ultimo si affianca quella della polizia giudiziaria. ‘’Il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria’’ come disposto dall’articolo 327 del codice di procedura penale. Da tale disposizione possiamo evincere come il ruolo della polizia giudiziaria sia ancillare e subordinato rispetto alle direttive del pubblico ministero e in modo particolare possiamo sottolineare un tratto ulteriormente importante: sebbene l’articolo 109 della Costituzione affermi che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, dobbiamo dire con certezza estrema che esclusivamente l’organo dell’accusa, e non invece il giudice, può disporre della polizia giudiziaria, proprio nel solco di quel sistema accusatorio di cui prima abbiamo accennato.
Le indagini preliminari e la tutela dell’indagato
Dopo aver rapidamente tracciato le caratteristiche principali delle indagini preliminari e averle inserite all’interno del contesto del sistema accusatorio ad oggi vigente, cerchiamo di capire quali siano le prerogative e le tutele garantite all’indagato in questa delicata fase.
Cerchiamo, prima di tutto, di chiarire quale sia il rapporto tra segretezza dell’atto e pubblicazione dello stesso. Partiamo dall’assunto che i due concetti appena citati sono separati e distinti tra loro. Ci si riferisce alla segretezza di un atto processuale per intendere un atto che l’indagato (o l’imputato) non conosce e non ha diritto di conoscere. L’atto medesimo diventa conosciuto o conoscibile nel momento in cui o l’atto venga compiuto in presenza dell’indagato (o imputato) o venga depositato, con annesso avviso al difensore.
Questo concetto è fortemente differente da quello di pubblicazione, il quale si riferisce all’ambito della tutela della libertà di stampa, dell’informazione e dell’opinione pubblica. In un certo senso, la pubblicazione riguarda la conoscibilità degli atti da parte di terzi, in particolare da parte dei giornalisti e dell’opinione pubblica.
Segretezza e pubblicità degli atti nelle indagini preliminari
Focalizzandoci in modo esclusivo sulla fase delle indagini preliminari, risulta interessante ai nostri fini ricordare che non sono affatto infrequenti, nella suddetta fase del procedimento, atti segreti, cioè atti il cui contenuto e la cui esistenza sono sconosciuti tanto all’indagato quanto al suo difensore.
Per tornare alla distinzione precedentemente affrontata, dobbiamo tenere in considerazione che gli atti segreti, nella fase delle indagini preliminari, sono coperti dal segreto di pubblicazione, sia da un punto di vista testuale che contenutistico. Gli atti non segreti delle indagini preliminari, invece, possono essere pubblicati dalla stampa, con tuttavia una dovuta precisazione: ad essere pubblicato deve essere necessariamente il contenuto dell’atto, non il testo fedele di quest’ultimo.
È evidente che tale regime di pubblicità sia finalizzato ad ottenere un corretto bilanciamento tra il diritto dell’opinione pubblica all’informazione e le prerogative dell’indagato. Quest’ultimo, infatti, è tutelato prima di tutto dall’articolo 27 Costituzione, il quale notoriamente sancisce la presunzione di non colpevolezza e in secondo luogo ha pieno diritto a che il giudice nelle fasi successive del procedimento non sia condizionato nel suo convincimento, per l’appunto, da informazioni esterne.
Il ruolo del difensore e la discovery
Nella fase delle indagini preliminari, è chiaramente possibile esercitare il diritto di difesa. Certo, come abbiamo visto precedentemente la segretezza degli atti può risultare un elemento di ostacolo a tale diritto, in quanto esso può ovviamente venire esercitato solo nella misura in cui l’indagato sappia di ricoprire il ruolo di indagato.
Per completezza, ricordiamo che le modalità tramite cui è possibile che l’indagato scopra dell’esistenza delle indagini a suo carico sono varie: in primo luogo, chiaramente, questo può accadere nel caso in cui venga eseguita a suo carico una misura cautelare personale; in secondo luogo, nell’eventualità in cui il pubblico ministero faccia richiesta di proroga delle indagini preliminari; abbiamo poi il caso dell’informazione di garanzia, essenziale quando l’atto che il P.M. deve compiere richieda l’avviso preventivo del difensore e infine la discovery può avvenire tramite l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Le attività investigative del difensore nelle indagini preliminari
Posto tali premesse, nel caso in cui l’esercizio del diritto di difesa non sia impedito dalla mancata conoscenza delle indagini preliminari, possiamo delineare quali siano le sue modalità di espletamento. Abbiamo, innanzi tutto, la possibilità per il difensore di svolgere attività investigative. Le attività investigative sono disciplinate dall’articolo 327bis del codice di procedura penale, il quale recita: ‘’fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, nelle forme e finalità stabilite nel titolo VI bis’’.
Alla difesa sono dunque affidati anche poteri di ricerca di fonti di prova.
Colloquio, dichiarazioni e assunzione di informazioni
La difesa ha la possibilità di tenere colloqui, di ottenere dichiarazioni o di assumere informazioni da soggetti potenzialmente informati sui fatti. Le tre attività sopracitate sono differenti tra loro. Il colloquio è contrassegnato dall’assenza di documentazioni o attestazioni del colloquio stesso, è una discussione informale. La dichiarazione possiede già un grado di formalità maggiore, è un atto scritto con annessa autenticazione del difensore. Allegata alla dichiarazione dovrà esservi una relazione con indicata la data della dichiarazione stessa, le generalità del difensore e quelle di chi ha rilasciato la dichiarazione, i fatti su cui la dichiarazione verte e l’attestazione di aver rispettato l’articolo 391bis comma terzo[2], che prevede una serie di avvertimenti.
L’assunzione di informazioni, invece, vede il soggetto informato sui fatti rispondere a delle domande formulate dallo stesso difensore, siamo in sostanza di fronte ad un colloquio documentato.
La persona informata sui fatti deve essere avvertita in merito alla sua facoltà di non rispondere o non rendere dichiarazioni al difensore, come previsto dall’articolo 391 bis comma terzo del codice di procedura penale. Tuttavia, nel caso in cui decida di condividere informazioni, la persona informata sui fatti dovrà rispondere secondo verità a pena di responsabilità ex articolo 371ter del codice penale.
Altri atti investigativi nelle indagini preliminari
Il difensore possiede poi una ulteriore serie di possibilità. Prima di tutto, egli può richiedere alla pubblica amministrazione di prendere visione o acquisire copia di documenti in possesso della pubblica amministrazione stessa. Può, inoltre, accedere ai luoghi ove i fatti si sono svolti, per riscontrare ulteriori elementi difensivi[3]. Peraltro, il difensore può svolgere accertamenti tecnici, anche irripetibili, non senza darne avviso tuttavia al pubblico ministero.
Il ruolo del giudice per le indagini preliminari
In ultima istanza, pare d’obbligo fare un riferimento alla figura del giudice per le indagini preliminari. Nella fase delle indagini preliminari, come abbiamo già sottolineato, il ruolo centrale e dominante è ricoperto dal pubblico ministero, non di certo dal giudice. Tuttavia, il codice prevede che nella fase preliminare del procedimento vi sia la figura ugualmente molto importante del giudice per le indagini preliminari.
Il giudice per le indagini preliminari, organo monocratico, svolge in sostanza tre funzioni fondamentali. La prima è una funzione di controllo sulle indagini svolte dal pubblico ministero, egli si occupa di vigilare sulla durata e sul rispetto dei termini delle indagini preliminari, in modo particolare ove il pubblico ministero richieda la proroga delle stesse; egli vigila poi sull’esercizio dell’azione penale, nell’eventualità in cui il pubblico ministero ritenga necessario avanzare richiesta di archiviazione o invece statuisca l’esercizio dell’azione penale stessa. La seconda funzione, e forse quella per noi più rilevante, è quella di rappresentare una garanzia per i diritti dell’indagato, in special modo quando il pubblico ministero richieda l’applicazione di misure cautelari. Ultima e più rara funzione è quella di giudizio, nell’eventualità in cui si decida di abbandonare il rito ordinario in virtù di un rito speciale, come il patteggiamento o il giudizio abbreviato.
Informazioni
M. Bargis, Compendio di procedura penale, CEDAM, Torino, 9 edizione, 2018
[1] Per una visione riassuntiva e chiara di tutte le fasi del procedimento penale si veda: V. Simi, Uno schema pratico del processo penale, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/17/uno-schema-pratico-del-processo-penale/
[2] Il suddetto articolo, prevede che ‘’In ogni caso, il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici avvertono le persone:
a) della propria qualità e dello scopo del colloquio;
b) se intendono semplicemente conferire ovvero ricevere dichiarazioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le modalità e la forma di documentazione;
c) dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato;
d) della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione;
e) del divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date;
f) delle responsabilità penali conseguenti alla falsa dichiarazione.’’
[3] Si rammenta che la disciplina è leggermente diversa per quanto riguarda l’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico. Infatti, per poter accedere a tali luoghi il difensore necessita dell’autorizzazione del soggetto che ha disponibilità della cosa o del luogo, in caso questo gli sia negato dovrà venire autorizzato tramite decreto motivato dal giudice.
Responsabilità dell'ente: il trasferimento della responsabilità nelle vicende modificative
Come gli interventi di ingegneria societaria incidono sull’attribuzione della responsabilità dell’ente
La responsabilità dell’ente: cenno introduttivo
La responsabilità dell’ente, ad oggi, può sussistere in relazione alla commissione di illeciti amministrativi derivanti da reato.
La consapevolezza che il sistema sanzionatorio italiano non fosse idoneo a prevenire la commissione dei c.d. white collar crimes iniziò a farsi sempre più forte a partire dalla fine del secolo scorso. La necessità di adeguarsi alle varie fonti normative internazionali ed europee, che facevano pressione affinché i vari Stati prefigurassero la responsabilità penale anche per le persone giuridiche, permise di approdare prima alla legge delega 29 settembre 2000, n. 300 e poi al decreto attuativo di quest’ultima, il decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231[1].
La responsabilità dell’ente e il fondamentale d. lgs. 231/2001
Come espressamente indicato dal d.lgs. 231/2001, affinché la responsabilità dell’ente per illecito amministrativo derivante da reato sussista, è necessaria la compresenza di molteplici condizioni. In primo luogo, come indicato dall’articolo 1 del suddetto decreto, sarà necessaria la commissione di un reato presupposto, tassativamente incluso nel catalogo dei reati stilato dal legislatore agli articoli 24 e ss.
Vi è poi la necessità che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, secondo la previsione dell’articolo 5 del d.lgs. 231/2001[2]. A tale proposito appare d’obbligo una precisazione: l’alternatività dell’elemento dell’interesse rispetto a quello del vantaggio è puramente fittizia, l’unico elemento realmente indefettibile è infatti il primo tra i due, l’interesse, ben potendosi verificare l’ipotesi in cui a seguito della commissione del reato nell’interesse dell’ente, cioè con il fine di creare per quest’ultimo delle condizioni più favorevoli, non si verifichi il raggiungimento di alcun concreto ed oggettivo vantaggio[3].
In aggiunta, sarà poi indispensabile individuare il rapporto qualificato che intercorre tra l’autore del reato e l’ente. L’autore del reato deve potersi qualificare come un vertice, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, lettera a) o come un subordinato, cioè un soggetto sottoposto alla vigilanza e alla direzione del vertice stesso, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 lettera b). La determinazione di questo elemento si presenta estremamente rilevante, in quanto, a seconda che l’autore del reato si ricomprenda nell’una o nell’altra categoria, si verificherà una modificazione del criterio imputativo ai sensi degli articoli 6 e 7 del d.lgs. 231/2001.
L’ultimo punto imprescindibile, affinché la sussistenza della responsabilità dell’ente possa essere rinvenuta, è la c.d. colpa di organizzazione.
Responsabilità dell’ente e vicende modificative
Molte perplessità sono spesso state sollevate in relazione alla possibile sussistenza della responsabilità dell’ente a seguito di vicende modificative che coinvolgessero lo stesso.
Il d.lgs. 231/2001 prevede agli artt. da 28 a 33 la disciplina esplicita delle vicende modificative dell’ente affrontando in particolar modo il tema della trasformazione dello stesso, della fusione (anche per incorporazione) e della scissione chiarendo quali possano essere le conseguenze di tali scelte di strategia societaria sulla responsabilità dell’ente.
L’articolo 28 del decreto si occupa di determinare che cosa succeda a seguito di trasformazione dell’ente, asserendo che la responsabilità in tali casi rimane ferma anche per i reati commessi anteriormente rispetto alla data dell’operazione effettuata.
D’altronde, il ragionamento del legislatore è perfettamente coerente in tale ipotesi: l’ente di certo non va in contro ad estinzione, pur verificandosi delle modificazioni statutarie, di conseguenza non sarebbe logico presupporre assenza di responsabilità in conseguenza a trasformazione.
Più complessa e certamente più contestata la disciplina per la fusione. L’articolo 29 del decreto asserisce che l’ente risultante da fusione, anche per incorporazione, risponde dei reati di cui erano precedentemente responsabili i partecipanti alla fusione stessa.
L’articolo 30 del decreto, infine, si occupa della scissione stabilendo che in caso di scissione parziale la responsabilità dell’ente scisso rimane ferma per i reati commessi anteriormente alla scissione. Gli enti che sono beneficiari della scissione, totale o parziale, sono obbligati in solido per il pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per reati commessi anteriormente alla data della scissione. Tale obbligo si riferisce solo al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, a meno che non si tratti dell’ente a cui è stato trasferito (anche in parte) il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il fatto di reato. Le sanzioni interdittive, in particolare, si applicano agli enti a cui è rimasto o è stato trasferito (anche in parte) il ramo di attività nell’ambito del quale il reato è stato commesso.
Fusione e incompatibilità costituzionale
La disciplina della fusione merita un particolare focus. Molte perplessità sono state sollevate rispetto alla legittimità costituzionale degli artt. da 28 a 33 e in particolare dell’articolo 29 d.lgs. 231/2001. Il tema trova il proprio snodo cruciale nella possibilità di rinvenire un contrasto tra la disciplina in tema di vicende modificative descritta dal decreto legislativo 231/2001 e l’articolo 27 comma 1 della Costituzione, che stabilisce che la responsabilità penale sia personale.
Tale questione di illegittimità costituzionale e in particolar modo la perplessità riguardo ad una possibile estensione della responsabilità dell’ente incorporante per un reato commesso, in un momento precedente alla fusione stessa, dalla incorporata è stata sollevata di fronte alla Corte di Cassazione in due occasioni che meritano di essere ricordate: la prima nel caso Intesa San Paolo S.p.A. (Cass., sez. V, 27 ottobre 2015)[4] e la seconda nel caso Saipem (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2016)[5].
In entrambi i suddetti casi la corte di Cassazione fornisce molti chiarimenti che convergono tutti verso uno stesso punto: non è possibile escludere una estensione di responsabilità alla società incorporante per illeciti amministrativi derivanti da reato commessi dalla incorporata prima che avvenisse l’operazione di fusione.
I due casi si differenziano leggermente tra loro: la posizione della corte nel caso Saipem S.p.A. è più rigida rispetto a quella adottata nel caso Intesa San Paolo S.p.A. pur essendo quest’ultimo cronologicamente precedente. Ad ogni modo, seppur con un argomentare non del tutto eguale, la conclusione della Corte tende sempre a propendere verso il possibile riconoscimento di un trasferimento di responsabilità.
Il caso Saipem
Nel caso Saipem S.p.A. la corte affronta e scardina sistematicamente i punti addotti dalla difesa della società. Prima di tutto, asserisce che l’ipotetico conflitto degli articoli da 28 a 33 con l’articolo 76 della Costituzione è da ritenersi infondato. La difesa aveva infatti sostenuto che tali articoli, inerenti alle vicende modificative, fossero stati inseriti dal legislatore delegato in modo discrezionale, senza rispettare i criteri direttivi dalla legge delega. La Corte, invece, ritiene che la discrezionalità del legislatore sia inevitabile nella costruzione di un testo normativo che si pone a completamento delle linee guida fornite della legge delega, purché la ratio di quest’ultima venga rispettata. La ratio, sottolinea la corte, era quella di strutturare un sistema inerente alla responsabilità dell’ente per la commissione di illeciti amministrativi derivanti da reato, con l’introduzione di sanzioni ‘’efficaci, proporzionate e dissuasive’’[6]. L’efficacia non potrebbe essere garantita se l’elusione del sistema sanzionatorio fosse facilmente concretizzabile tramite una semplice operazione modificativa. La costruzione delle norme in questione, dunque, che assicurano la responsabilità dell’ente risultante dall’operazione di ingegneria societaria, è perfettamente coerente con lo spirito della legge delega.
In secondo luogo, la corte si pronuncia sul contrasto dell’articolo 29 d.lgs. 231/2001 con l’articolo 27 della Costituzione. La mancata estensione della responsabilità dell’ente incorporato alla società incorporante, in virtù del principio di personalità della responsabilità penale, non sarebbe sostenibile. Infatti, la società incorporante non è una società terza rispetto alla incorporata, il dovere di due diligence e il suo onere di verificare che il soggetto acquisito non sia gravato dalla commissione di illeciti amministrativi sono elementi imprescindibili in un’operazione di fusione. La società incorporante è consapevolmente coinvolta nel processo modificativo e non si può dunque sostenere che l’ente risultante dalla fusione non possa rispondere per illeciti amministrativi commessi precedentemente alla fusione stessa dai suoi partecipanti.
Il caso Intesa San Paolo
La sesta sezione della Cassazione, nel caso Intesa San Paolo, si rivela più mite. Nel caso di specie, che trattava una vicenda analoga rispetto a quella svoltasi nel caso Saipem, la corte afferma che la responsabilità dell’ente incorporato non possa ricadere in modo automatico sulla società incorporante. La ratio di tale asserzione è giustificata dalla necessità di tutelare la posizione dei terzi in buona fede che, pur avendo adempiuto ai loro obblighi di due diligence e di controllo, si trovino ad aver acquisito e incorporato una o più società coinvolte nella commissione di illeciti amministrativi derivanti da reato. In questo caso, dunque, la corte non esclude la responsabilità dell’ente risultante dalla fusione per illeciti amministrativi commessi prima della stessa dai partecipanti, ma predispone che vi sia un controllo concreto, caso per caso, della consapevolezza dell’incorporante rispetto alle caratteristiche della incorporata, per evitare che gravino, su soggetti che hanno agito in buona fede, conseguenze penali.
In conclusione, possiamo affermare che l’articolo 29 d.lgs. 231/2001 è coerente non solo con i principi della legge delega ma è anche in totale armonia con la Costituzione. Esso è, infatti, finalizzato (come d’altronde anche gli altri articoli della Sezione II dedicata alle vicende modificative) ad evitare una facile elusione della disciplina del decreto stesso, che altrimenti potrebbe derivare da mere scelte di strategia societaria.
Informazioni
M. Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, G. Giappichelli Editore, Torino, 3 edizione, 2019
[1] La legge delega del 2000, n. 300 si apre, infatti, con la seguente dicitura: ‘’Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’articolo K. 3 del Trattato dell’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica.”
[2] Per un approfondimento sul rapporto tra interesse e reati colposi di evento si veda: L. Lotti, Il rapporto tra modello 231 e giurisprudenza, in DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/
[3] Per una definizione dettagliata rispetto alla differenza tra interesse e vantaggio si veda Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343
[4] Cass., Sez. V, 27 ottobre 2015, n. 18941.
[5] Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2016, n. 11442.
[6] L. 29 settembre 2000, n. 300.