interpello

Il diritto di interpello, cos'è e a cosa serve

Il diritto di interpello si pone come trait d’union tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente nella formazione della pretesa impositiva

 

Introduzione al diritto di interpello

Come noto, il sistema fiscale italiano ha una sua matrice identitaria frastagliata e complessa, in quanto non vi è una raccolta di norme unitaria e settorializzata che disciplina l’intera materia; vi sono infatti una serie di leggi e testi unici introdotti via via nel corso degli anni che si sono adattati ai molteplici cambiamenti che hanno riguardato il sistema tributario.

Tra le anfrattuosità del suddetto sistema, rilevano inoltre una serie di complicazioni date dalla difficoltà, da parte del contribuente, di interpretare le norme tributarie.

Il sistema fiscale italiano si fonda sull’autodeterminazione dell’imposta da parte dei contribuenti. Quindi è rimesso al soggetto passivo dell’imposta non solo il pagamento della stessa, ma anche la sua determinazione quantitativa, attraverso l’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni di legge. Per questo motivo, il contribuente è chiamato ad interpretare la normativa vigente al fine di applicarla correttamente. Ed è qui che sorge il problema maggiore. La normativa fiscale italiana è molto complessa e può facilmente creare dubbi interpretativi. Inoltre una normativa di difficile interpretazione, non soltanto complica l’attività ai singoli contribuenti, ma risulta anche dannosa per l’intero sistema poiché, se da un lato può creare inesattezze e incompletezze della dichiarazione, dall’altro può creare terreno fertile per comportamenti elusivi da parte dei contribuenti.

L’intervento dell’Amministrazione finanziaria è quasi sempre successivo ed eventuale alla dichiarazione del contribuente e si concretizza in un’attività di controllo e sanzionatoria[1]. Per i motivi finora citati, il rapporto tra Fisco e contribuenti è sempre stato caratterizzato da una netta e diretta conflittualità. Al fine di mitigare la conflittualità appena citata, l’ordinamento italiano ha partorito nel corso del tempo una serie di istituti volti a rendere il rapporto fisco-contribuente maggiormente collaborativo, dando la possibilità ad ogni cittadino (e non) di partecipare attivamente alla “formazione della pretesa fiscale” da parte dello Stato. In questa sede voglio analizzare brevemente uno di questi strumenti: il diritto di interpello.

 

Le tipologie di interpello

L’istituto dell’interpello nasce in seguito alla promulgazione della legge 27 luglio n. 212/2000, meglio nota come “Statuto del contribuente”. L’interpello si traduce in una richiesta (o un parere) proposto dal contribuente all’Amministrazione finanziaria qualora sussistano dubbi interpretativi circa una norma tributaria, evitando così di effettuare operazioni sbagliate che potrebbero riverberarsi negativamente in un momento successivo in seguito ad attività di controllo fiscale.

L’art. 11 dello Statuto elenca 4 tipologie di interpello:

  • Interpello ordinario, disciplinato dall’art. 11 co.1 lettera a) L. 212/2000 viene usato dal contribuente per ottenere dall’amministrazione finanziaria dei chiarimenti sulla corretta interpretazione delle norme tributarie. Con un recente intervento normativo questa tipologia di interpello ha subito un’estensione del suo ambito applicativo che l’ha portato a sdoppiarsi in:
  • Interpello interpretativo, in cui l’oggetto dell’istanza è la norma tributaria in senso stretto (sono esclusi pertanto gli atti non aventi carattere normativo)
  • Interpello qualificatorio, in cui l’oggetto dell’istanza è la corretta identificazione normativa del caso concreto[2]. In sintesi il contribuente non chiederà nulla in merito all’applicazione di una disposizione, bensì in merito alla corretta qualificazione delle fattispecie complesse.

Si tratta di un ampliamento rispetto al tradizionale interpello ordinario. L’Amministrazione può fornire una risposta che contiene una valutazione basata più sulle circostanze di fatto relative alla fattispecie, piuttosto che sull’interpretazione delle norme invocate dal contribuente nel caso concreto[3].

  • Interpello probatorio, la cui disciplina è contenuta nell’art 11 co.1 lettera b) della legge 212/2000, viene attivato quando il contribuente intende aderire a determinati regimi fiscali ma ha un dubbio circa la compatibilità degli stessi con l’operazione da lui posta in essere. In tal caso chiederà un parere all’Amministrazione finanziaria:
    • sulla sussistenza delle condizioni per l’accesso;
    • sull’idoneità degli elementi probatori prodotti a tal fine.
  • Interpello antiabuso: disciplinato all’art. 11, co. 1, lettera c, L. n. 212/2000 ha sostituito la vecchia istanza disapplicativa (art. 21 della L.  413/91, ora abrogata) e consente   di interrogare l’Agenzia delle Entrate sulla natura abusiva del diritto di specifici atti, atti e negozi, anche tra loro collegati.
  • Interpello disapplicativo: disciplinato dall’art. 11 co. 2 della legge 212/2000, consente al contribuente di chiedere la disapplicazione di una norma tributaria. Questa situazione si presenta allorquando la norma, al fine di evitare manovre elusive finalizzate all’evasione, limita deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta; tutti strumenti che il contribuente possiede per ridimensionare la base imponibile che sarà poi oggetto di tassazione. Con l’interpello in rassegna si chiede all’Amministrazione finanziaria di disapplicare la norma tributaria “limitante” fornendo contestualmente la prova che il comportamento elusivo non può essere posto in essere in ragguaglio al caso concreto.

 

 

Effetti dell’interpello

L’istituto dell’interpello, come detto, è utilizzato dal contribuente per avere contezza circa la portata applicativa delle norme tributarie di dubbia interpretazione, evitando così incombenze pregiudizievoli.

Ciò posto, bisogna tener conto che le risposte fornite dall’Amministrazione finanziaria sono delle interpretazioni “di parte” e non hanno effetti vincolanti per il contribuente, il quale resta libero di disattendere la risposta ricevuta. Questa caratteristica dimostra che la risposta all’interpello non ha natura provvedimentale, in quanto mancano gli elementi dell’autoritarietà (poiché l’interpello non produce alcuna modifica unilaterale nella sfera giuridica del contribuente, il quale resta libero di uniformarsi o meno alle indicazioni ricevute ), dell’esecutività e dell’ esecutorietà (poiché trattandosi di un atto che ha solo la funzione di rendere nota al contribuente l’interpretazione dell’autorità amministrativa, non è un atto che produca effetti diretti ed immediati[4]).

Alla luce di quanto precede, il contribuente che riceva un diniego all’interpello presentato può scegliere se adeguarsi all’interpretazione dell’Amministrazione o meno. Ove decida di non adeguarsi, dovrà fare un’ulteriore valutazione e scegliere se impugnare la risposta negativa ricevuta, oppure aspettare l’eventuale successivo atto di accertamento e impugnare tale atto.

 

Modalità applicative

Ma come si propone un interpello? Come si redige? Ci sono requisiti formali/sostanziali tipici o può essere redatto senza formule solenni?

L’art. 3 del DM n. 209 del 2001 stabilisce che a pena di inammissibilità l’istanza di interpello deve contenere:

  • i dati identificativi del contribuente ed eventualmente del suo legale rappresentante;
  • la circostanziata e specifica descrizione del caso concreto e persona da trattare ai fini tributari sul quale sussistono concrete condizioni di incertezza;
  • l’indicazione del domicilio del contribuente o dell’eventuale domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni dell’Amministrazione finanziaria;
  • la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante. L’istanza deve inoltre contenere l’esposizione, in modo chiaro ed univoco, del comportamento e della soluzione interpretativa sul piano giuridico che il contribuente intende adottare.

 

L’istanza d’interpello è redatta in carta libera ed è presentata agli uffici competenti mediante consegna a mano o spedizione tramite servizio postale, in plico senza busta, raccomandato con avviso di ricevimento. Dopo la ricezione, si apre la trattazione dell’istanza di interpello, che di norma compete alla Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate, individuata in relazione al domicilio fiscale del contribuente.

 

Le risposte dell’amministrazione finanziaria

Terminata la fase della trattazione dell’istanza d’interpello, entro 120 giorni dalla presentazione della stessa, l’Agenzia delle Entrate rende al contribuente interessato una risposta scritta e motivata.

Nel caso in cui il contribuente presenti un’istanza ammissibile e recante la soluzione interpretativa ma non pervenga la risposta dell’ufficio entro il termine di 120 giorni si intende che l’Amministrazione finanziaria concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal contribuente (silenzio-assenso).

Vi sono tre possibili risposte che l’Amministrazione finanziaria può rendere al contribuente:

  1. Risposta Tempestiva. Non vincola il contribuente, il quale rimane libero di non conformarsi alla soluzione interpretativa dell’Agenzia. L’ufficio, al contrario, rimane vincolato alla risposta fornita al contribuente e non potrà emettere atti di accertamento a contenuto impositivo o sanzionatorio in contrasto con la soluzione precedentemente comunicata.
  2. Risposta Omessa. Si applica il principio del silenzio assenso, si intende, cioè, che l’Amministrazione concordi con il comportamento prospettato dal contribuente (art. 5, comma 2, del Regolamento). Di conseguenza sono da ritenere nulli eventuali atti di accertamento e controllo emessi in difformità della soluzione prospettata dal contribuente (ed implicitamente condivisa dall’Agenzia per effetto del silenzio-assenso).
  3. Risposta Rettificativa. L’Amministrazione finanziaria può cambiare il parere precedentemente reso seppur decorso il termine dei 120 giorni, comunicando al contribuente la nuova versione interpretativa diversa da quella in precedenza resa in forma esplicita o implicita, i cui effetti ricadranno esclusivamente sui comportamenti successivi. Nel caso in cui il contribuente abbia già posto in essere il comportamento prospettato nell’istanza, uniformandosi alla soluzione interpretativa precedentemente comunicata o implicitamente condivisa dall’Agenzia, nulla può essergli contestato. Se, in caso contrario, il contribuente non abbia ancora posto in essere il comportamento, l’Amministrazione finanziaria può recuperare le imposte eventualmente dovute e i relativi interessi, ma non le sanzioni.

 

 

Conclusioni

L’analisi fin qui prospettata permette l’apprezzamento per la svolta impressa, al nostro ordinamento, a seguito dell’introduzione dell’istituto dell’interpello. La ragione fondamentale che suffraga tale assunto[5] è data dal fatto che l’interpello, ormai, costituisce un’essenziale espressione della funzione consultiva e di assistenza che l’Amministrazione finanziaria deve svolgere nella fase dello spontaneo adempimento dei rapporti obbligatori d’imposta[6].
È logico ritenere come l’istituto dell’interpello assicura una duplice finalità:

  • La certezza del diritto; in quanto l’indirizzo fornito in via interpretativa dall’amministrazione finanziaria indirizza certamente il contribuente verso una scelta ponderata e difficilmente lontana dall’interpretazione voluta dal legislatore
  • Il soddisfacimento dell’interesse erariale al corretto assorbimento dei doveri contributivi assicurando una certa e celere individuazione dei relativi mezzi finanziari rispetto a quella che, ordinariamente, si riscontra quando si verifica una contrapposizione con il contribuente soggetto ad imposizione

 

Quindi, come già detto in precedenza, gli interpelli ricoprono un ruolo di fondamentale importanza nell’evoluzione che caratterizza l’applicazione dei rapporti impositivi. Congiuntamente all’accertamento con adesione e alla conciliazione giudiziale, essi permettono il corretto adempimento degli obblighi impositivi in un’ottica di collaborazione, dialogo e valorizzazione del reciproco affidamento fra l’Amministrazione e il privato.

Informazioni

S.Mecca – G.Salerno, Diritto tributario e contenzioso, Keyeditore, 2020, Milano

A. Fantozzi, Il diritto tributario, Utet giuridica, 2003, Torino

[1] L’esempio che può essere fatto è nel caso del trasferimento all’estero della residenza fiscale. Ne ho parlato in quest’altro articolo per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/02/il-trasferimento-della-residenza-fiscale-allestero/

[2] S.Mecca-G.Salerno, Diritto tributario e contenzioso, Keyeditore, Milano

[3] https://fiscomania.com/interpello-ordinario

[4] Cfr. Corte Cost., sentenza n. 191 del 14 giugno 2007, secondo cui “la risposta all’interpello di cui all’art. 11 della L. n. 6 212/2000 deve considerarsi un mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente. Essa, infatti, configura lo strumento attraverso cui si esplica in via generale l’attività consultiva delle Agenzie fiscali in ordine all’interpretazione delle norme tributarie. Pertanto, il parere emesso, in occasione di una risposta ad un interpello, dall’Amministrazione finanziaria: è vincolante per l’Amministrazione che l’ha reso; non è vincolante per il contribuente”.

[5] https://www.ratioiuris.it/linterpello-tributario/

[6] A. Fantozzi, Il diritto tributario, 2003, osserva come “in un sistema tributario basato sull’adempimento spontaneo, è logico ritenere che l’Amministrazione, a fronte della peculiare funzione di controllo, debba svolgere anche quella di consulenza giuridica e di assistenza”


Decreto 231

Decreto 231: operazioni straordinarie dell'ente

Il decreto 231 e le difficoltà applicative che si celano in relazione alle operazioni straordinarie degli enti

 

Introduzione al Decreto 231

Il complesso apparato del “decreto 231”, sebbene ha rappresento una svolta epocale nel sistema giuridico e sanzionatorio italiano[1], presenta delle lacune non indifferenti.

Per cominciare, l’eterna vaexata quaestio riguardo la natura amministrativa o penale della responsabilità da reato degli enti, tanto che ormai, da più di un decennio, giurisprudenza e dottrina non riescono ad avallare nessuna tesi che assicuri certezza e garanzia, auspicando l’intervento chiarificatore del legislatore con l’introduzione di un “tertium genus” che qualifichi la responsabilità come un complesso intreccio di matrice amministrativa-penale-civile. A prescindere dalla suddetta diatriba, nelle anfrattuosità della disciplina della responsabilità penale degli enti si cela un capitolo ancora umbratile[2] nell’esperienza applicativa, che va direttamente a toccare il “nervo scoperto” del relativo sistema sanzionatorio: quello, cioè del rispetto del principio di “personalità”. L’art. 27 comma 1 Cost. sancisce che “la responsabilità penale è personale”. Suddetto principio tuttavia, è stato modellato dal legislatore sulla base della persona fisica, e di conseguenza successivamente “esteso” alla persona giuridica, poiché il superamento del brocardo “societas delinquere non potest” non era stato preventivato nei circa cinquanta anni precedenti all’ingresso del “Decreto 231”.  Ma se problemi non sorgono in relazione all’attribuzione del reato in capo alla “stessa” persona fisica che lo aveva commesso, non si può dire altrimenti in relazione a quella giuridica, specie con riguardo agli istituti che la sezione II del capo II del D.lgs. 231/2001 (decreto 231) raggruppa sotto il nomen iuris di “vicende modificative dell’ente”.

L’ente infatti, durante la sua esistenza, può essere interessato da operazioni di ristrutturazione che possono determinare il “mutamento di veste” o addirittura la scomparsa dell’ente stesso come centro autonomo di imputazione, con la conseguenza di rendere difficile l’intervento sanzionatorio senza intaccare o comunque “mettere a repentaglio” il rispetto del principio di personalità della responsabilità penale. Il legislatore si è dovuto così confrontare con una particolare realtà in cui le esigenze di tutela del traffico giuridico si sono dovute confrontare con il pericolo di frode alla legge, per evitare che le vicende modificative venissero usate come espediente elusivo finalizzato all’aggiramento della giustizia.

 

Le operazioni straordinarie dell’ente

Le operazioni straordinarie degli enti e le conseguenze cui esse conducono sul piano della loro responsabilità, trovano espressa disciplina all’interno del d.lgs. 231/2001 (decreto 231), nella Sezione II, Capo II, artt. da 28 a 33, i quali si riferiscono specificamente alle ipotesi di trasformazione, scissione e fusione. A queste si unisce la cessione d’azienda; anche se quest’ultima, in verità, sebbene abbia una disciplina simile in relazione alla materia trattata, si colloca su un piano diverso rispetto alle altre vicende, come si evince dal trattamento normativo riservatole.

Fin qui nulla quaestio. Ma cosa ne è delle sanzioni applicabili in dipendenza di illeciti penali in caso di una “mutazione organizzativa” di un ente (o tra enti)? Le stesse si comunicano alle nuove “entità” o agli organismi che subentrano nel complesso dei rapporti giuridici, attivi e passivi, dell’ente originariamente responsabile, o cadono, al contrario, in un nulla di fatto?

Da qui ne è nato un sistema basato su un equo compromesso tra le istanze di “effettività” del sistema sanzionatorio e quelle di “garanzia”. Suddetto sistema trova la sua matrice essenzialmente in tre punti:

  1. Le sanzioni pecuniarie seguono (di massima) le sorti della generalità degli altri debiti dell’ente originario, nel senso che trasmigrano allo stesso modo delle altre obbligazioni pecuniarie civili.
  2. Le sanzioni interdittive mantengono il loro collegamento con il «ramo di attività» nell’ambito del quale il reato è stato commesso; nel senso che vanno ad inibire il settore “colpito” dalla sanzione quantunque questo venga in essere in altro ente destinatario.
  3. In relazione a quest’ultimo criterio, vi è la possibilità di chiedere la sostituzione della pena interdittiva con quella pecuniaria qualora si dimostri che l’intervento di riassetto organizzativo sia valso a rimuovere le cause che avevano determinato o reso possibile la commissione del fatto criminoso.

 

In sintesi vi è quindi una sorta di commistione tra impianto normativo regolante la responsabilità “amministrativa” da reato e responsabilità patrimoniale-civile da esso derivante. Il dubbio, tuttavia, nonostante la meticolosità del sistema permane, vuoi in relazione al carattere “personale” della responsabilità «parapenale», vuoi in relazione alla stessa finalità «antielusiva» che dichiaratamente ispira la medesima impalcatura[3].

 

La trasformazione

La trasformazione di una società consiste nel mutamento della sua forma giuridica e, quindi, del tipo di società. Questo mutamento, tecnicamente, si ottiene attraverso la modificazione dell’atto costitutivo della società, attuata tramite delibera dell’assemblea dei soci, secondo le modalità e con le maggioranze richieste dalla legge per il tipo di società che intende trasformarsi.

Il codice civile regolamenta due tipi di trasformazione: la trasformazione omogenea e la trasformazione eterogenea. Si ha trasformazione omogenea quando una società si trasforma in un’altra società, ma di tipo diverso.

Con la trasformazione eterogenea, invece, si attua una trasformazione in enti di tipo diverso rispetto a quello originario. Dunque, l’art. 2498 c.c., rubricato «continuità dei rapporti giuridici», dispone:

con la trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti, anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione

 

Di concerto, anche la riforma del diritto societario varata nel 2003 ha stabilito, in sintonia con quanto disposto nel codice civile, che la trasformazione comporta la prosecuzione, da parte della società risultante dalla trasformazione, di tutti i rapporti, anche processuali.

In relazione alla disciplina del decreto 231, scendendo ad esaminare nello specifico le varie “vicende modificative”, possiamo dire che la trasformazione ha senza dubbio la disciplina più semplice e lineare. Indipendentemente dal tipo di trasformazione, infatti, l’ente continua a rispondere dell’illecito dipendente da reato nei medesimi termini in cui ne rispondeva prima della data della trasformazione stessa. Non di meno, giurisprudenza maggioritaria e dottrina avallano quanto detto finora: la trasformazione, anche quando comporti l’acquisto o la perdita della personalità giuridica, non determina l’estinzione della società originaria e la creazione di una nuova. Al contrario rimane la stessa, mutando solo il modulo formale[4].

Alla luce di quanto finora esposto, la “vicenda” non può che restare neutra sul piano considerato, poiché non si assiste a nessuna conglomerazione tra enti “colpevoli e non colpevoli”.

 

La fusione

L’istituto della fusione è senza dubbio una delle “vicende modificative” più importanti dell’ente e consiste in un “unione di forze” tra più “entità” volta al perfezionare il raggiungimento dello scopo sociale. Questa può avvenire attraverso la costituzione di una nuova società (c.d. fusione propria) o mediante l’incorporazione in una società preesistente (c.d. fusione per incorporazione). La fusione è quindi una modificazione che comporta una riduzione in minus dei soggetti di diritto, nel senso di determinare l’eliminazione di almeno uno dei centri di imputazione che confluiscono in un unico soggetto[5].

Anche la giurisprudenza della Cassazione successiva si è orientata in tal senso:

«la fusione tra società non determina, nell’ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria; ma attua l’unificazione mediante integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione»; risolvendosi dunque in «una vicenda evolutiva dello stesso soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo»[6].

 

Il decreto 231 avalla questa tesi: come dispone l’art. 29 infatti la vicenda in rassegna si risolve nella totale continuità, non solo in relazione alle sanzioni, ma all’intera responsabilità. Nel caso di fusione propria, l’ente risultante assomma in sé le responsabilità da reato di tutte le partecipanti, mentre in caso di incorporazione, l’incorporante le cumula insieme alle sue proprie, e ciò sotto ogni aspetto: sanzioni pecuniarie, interdittive e confisca. Se l’operazione avviene tra due società in maniera orizzontale, ossia tra società che svolgono attività simili o identiche, il sistema sanzionatorio rischia di diventare troppo aspro considerando le conseguenze, vista la quasi impossibilità di isolare il segmento da colpire all’interno della nuova realtà aziendale[7]. Invero sanzioni quali l’interdizione dall’esercizio di attività, la revoca delle autorizzazioni o la capacità di contrarre con la pubblica amministrazione, rischiano di penalizzare eccessivamente anche quella “fetta” di ente derivata da società estranee alla commissione dell’illecito.

Per evitare, appunto, un eccesso di sanzione che potrebbe avere ripercussioni di non poco conto sull’ente, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre uno strumento che funge da rimedio a tali situazioni: la possibilità di ottenere la sostituzione delle misure interdittive con quelle a carattere pecuniario, se si dimostra che l’operazione di riassetto organizzativo abbia fatto estinguere quel “segmento criminoso”.

Si evita in tal modo che la disciplina della responsabilità degli enti nel decreto 231 si trasformi in un pericoloso spauracchio per le imprese che intendano ricorrere per motivi organizzativi a operazioni straordinarie.

 

Conclusioni

Come abbiamo visto, attraverso operazioni di ristrutturazione organizzativa, l’ente attinto da reati può “confondersi” con altri enti a questi estranei, rendendo la ricerca del “segmento criminoso” all’interno dell’ente risultante particolarmente difficile, poiché si rischierebbe di punire ingiustamente soggetti estranei agli illeciti perpetrati, violando cosi il principio di personalità della responsabilità penale, baluardo del nostro ordinamento.

Alla luce di quanto fin qui emerso, possiamo dire di aver avuto un responso sulla precisa immagine di ciò che a tutt’oggi è la nostra responsabilità da reato: l’ombra di un progetto, dal principio incompiuto. Lo spettro della violazione dell’art. 27 Cost. è un dato di fatto alla luce della tematica sulle operazioni straordinarie e, per questa ragione, si auspica un intervento del legislatore volto a disciplinare chiaramente la normativa in rassegna tentando, ad esempio, di ideare un meccanismo volto all’effettiva ricerca volta per volta dell’eventuale elusione, e non alla ascrizione tout court della responsabilità in oggetto all’ente risultante dalle trasformazioni nel frattempo avvenute per la commissione di reati “altrui”.

Informazioni

Cadoppi, Garuti, Veneziani, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2010

Napoleoni, La responsabilità ammistativa delle società e degli enti, Torino, 2007

Napoleoni, Le vicende modificative dell’ente, AA.VV in Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, (a cura di) Lattanzi, 2010

Corso, Codice della responsabilità «da reato» degli enti annotato con la giurisprudenza, torino, 2018

www.rivista231.it

www.dirittoconsenso.it

[1] http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/

[2] www.rivista231.it

[3] Cadoppi-Garuti-Veneziani, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2010, 485

[4] Cfr., Cass. civ., 10 febbraio 2009, n. 3269, in C.E.D. Cass, n.607211; Cass. Civ., 31 ottobre 2007, n. 23019, in Corr. Giur. 2008, 1105; Cass. Civ., 12 novembre 2003, n. 17066, ivi, n. 568128

[5] Cfr Cass. Civ.sez., un., 8 febbraio 2006, n. 2637, in Corr. Giur. 2006, 795, con nota di Gaeta, La fusione per incorporazione non è vicenda interruttiva del processo; in Foro it 2006, 1739

[6]  Napoleoni, Le vicende modificative dell’ente, AA.VV. in Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, (a cura di) Lattanzi, 2010

[7] Corso, Codice della responsabilità «da reato» degli enti annotato con la giurisprudenza, Torino, 2018


Residenza fiscale all'estero

La residenza fiscale all'estero, come si trasferisce?

Gli adempimenti da seguire nel caso in cui si sia intenzionati a trasferire la propria residenza fiscale all’estero

 

Introduzione

Chi non ha mai pensato di trasferire la propria residenza fiscale all’estero? Magari per motivi personali, o semplicemente per sfuggire alla gogna fiscale del proprio paese cercando (lecitamente, s’intende!) di continuare la propria attività lavorativa in uno stato con un regime tributario più favorevole?

Le statistiche dimostrano che il trasferimento della residenza fiscale delle persone fisiche rappresenta oggi una problematica sempre più in auge in quanto, la “tax burden” a cui si è giunti in Italia, ha dato il via a scenari sempre più frequenti di migrazioni nei classici “paradisi fiscali”[1] o comunque in Stati con una pretesa impositiva più generosa.

Tuttavia, in un contesto socio-economico globalizzato, nonostante effettuare un trasferimento di residenza fiscale sia una prassi molto comune,  non tutti conoscono bene il modo per farlo nel pieno rispetto della legge; invero, non sono infrequenti azioni dell’Amministrazione Finanziaria che, con la sua politica di repressione alle attività elusive nella prospettiva di intercettare fenomeni di illecita costituzione e allocazione all’estero di ricchezze, patrimoni e disponibilità finanziarie, potrebbe contestare la legittimità dell’operazione di  trasferimento.

Vediamo insieme allora quali sono i passi da seguire e le norme a cui fare riferimento prima di effettuare uno spostamento della residenza fiscale all’estero, evitando di incorrere in spiacevoli sorprese.

 

Il concetto di residenza fiscale

Una delle cose principali da tenere a mente prima di trasferire la residenza fiscale all’estero è proprio il concetto di “residenza fiscale”, che diverge dal concetto classico di residenza cosi come disciplinato dal codice civile.

Una premessa bisogna farla: i sistemi fiscali più evoluti, compreso quello italiano, si basano sul principio del “Worldwide Taxation”[2], per cui il reddito (che può essere definito come un incremento di patrimonio derivante da una fonte produttiva[3]) prodotto dal cittadino all’estero, sarà comunque tassato in Italia qualora quest’ultimo non dimostri di essersi fiscalmente trasferito in un altro Stato. Risulta evidente allora carpire la fondamentale importanza di seguire tutte le procedure richieste per far sì che l’Amministrazione Finanziaria italiana consideri “fiscalmente staccato dallo Stato” un soggetto che percepisce redditi al di fuori del suo perimetro.

Alla stregua di quanto esposto, un dubbio sorge spontaneo: Quando ci si può considerare fiscalmente residenti all’estero e quando, invece, in Italia?

 

Il concetto di residenza fiscale in Italia

Il secondo comma dell’art. 2 TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986) dispone che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. Considerando che il periodo d’imposta equivale ad un anno, è agevole capire che per essere considerati fiscalmente residenti in Italia occorre essere iscritti all’Anagrafe della popolazione residente nello Stato italiano per un periodo di almeno 183 giorni su 365 (anche non continuativi) considerando non solo il periodo lavorativo, ma anche il giorno di partenza/arrivo dallo/nello Stato italiano, i giorni festivi e i periodi di ferie[4].

Gli elementi determinanti

Pertanto gli elementi che determinano la residenza fiscale in Italia sono:

  • l’iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente: per cui anche se si procede al trasferimento della residenza all’estero ma non si è proceduto alla cancellazione dall’Anagrafe della popolazione residente in Italia, si è comunque considerati cittadini italiani e per questo sottoposti al pagamento delle imposte nello Stato italiano.
  • il domicilio nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 43, co. 1, del codice civile: inteso non solo come centro di affari e interessi meramente economici, ma soprattutto come centro di affetti personali. Ne consegue che in una eventuale controversia con il fisco, se si dimostra di avere il proprio centro di interessi economici all’estero ma la propria famiglia in Italia, rileverà quest’ultima ai fini dell’attribuzione dello status di residente fiscale nel territorio dello Stato. Il concetto di domicilio consiste, quindi, principalmente in una situazione giuridica che, prescindendo dalla presenza fisica del soggetto, è caratterizzata dall’elemento soggettivo, cioè dalla volontà di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi (Cass. 21 marzo 1968, n. 884).
  • la residenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 43, co. 2, del codice civile: coincidente con la dimora del soggetto. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermare che affinché sussista il requisito dell’abitualità della dimora non è necessaria la continuità o la definitività. Cosicché l’abitualità della dimora permane qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del territorio dello Stato, purché conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali. (Cass. 14 marzo 1986, n. 1738). La residenza, quindi, non verrà meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago (Cass. 12 febbraio 1973, n. 435)[5].

 

C’è di più. I requisiti menzionati sono tra loro alternativi e non concorrenti[6]: il verificarsi di uno solo di essi determina la residenza fiscale in Italia.

 

L’AIRE

Il primo step da seguire per avvalorare il proprio trasferimento di residenza fiscale all’estero, oltre alla cancellazione dall’Anagrafe della popolazione residente in Italia, è l’iscrizione all’AIRE, ovvero Anagrafe italiani residenti all’estero[7].

L’iscrizione all’AIRE è un diritto/dovere del cittadino ma non sempre è necessaria. Infatti, ai sensi della legge 470/1988, l’iscrizione all’AIRE è obbligatoria per:

  • I cittadini che trasferiscono la propria residenza all’estero per periodi superiori a 12 mesi;
  • Quelli che già vi risiedono, sia perché nati all’estero che per successivo acquisto della cittadinanza italiana a qualsiasi titolo.

 

Di contro, non sono tenuti ad iscriversi all’AIRE:

  • Le persone che si recano all’estero per un periodo inferiore a 12 mesi;
  • I lavoratori stagionali;
  • I dipendenti di ruolo dello stato italiano in servizio all’estero;
  • I militari in servizio presso le strutture della NATO dislocati all’estero[8].

Come eseguire l’iscrizione all’AIRE

L’iscrizione all’AIRE è effettuata a seguito di dichiarazione resa dall’interessato all’Ufficio consolare competente per territorio entro 90 giorni dal trasferimento della residenza e comporta la contestuale cancellazione dall’Anagrafe della Popolazione Residente (A.P.R.) del Comune di provenienza; può anche avvenire d’ufficio, sulla base di informazioni di cui l’Ufficio consolare sia venuto a conoscenza.

Per quanto riguarda il trasferimento della residenza fiscale, l’iscrizione all’AIRE costituisce anche il presupposto per usufruire di una serie di servizi forniti dalle rappresentanze consolari all’estero, nonché per l’esercizio di alcuni diritti. Ad esempio, la possibilità di votare per elezioni politiche e referendum per corrispondenza nel Paese di residenza. Oppure la possibilità di ricevere assistenza sanitaria estera. Ma l’effetto più importante che deriva da suddetta iscrizione è, senza alcun dubbio, la possibilità per i contribuenti/lavoratori di non dichiarare in Italia redditi prodotti in uno Stato diverso da quello italiano, in quanto soggetti che svolgono all’estero, con continuità, le loro attività lavorative.

 

L’onere probatorio e la prova precostituita per la determinazione della residenza fiscale in uno Stato estero

La cancellazione dall’Anagrafe della popolazione residente, cosi come l’iscrizione all’AIRE, non bastano da sole a determinare la residenza fiscale in uno Stato estero. Come anticipato, ciò che rileva maggiormente è il domicilio, inteso come centro di affari e interessi economici e affettivo-personali. Ben può essere, invero, che il cittadino si adoperi per eludere il fisco spostando la residenza all’estero, ma di fatto vivendo in Italia. Il fisco dal canto suo provvederà ad accertare questa incongruenza con prove attestanti il reale centro di affari e di interessi del cittadino (la residenza della famiglia, le intestazioni di utenze, partecipazioni in società) e, in alcuni casi, sarà proprio il contribuente stesso a dover provare la sua effettiva residenza all’estero.

Infatti, per evitare lo spostamento di residenza fiscale dei contribuenti in paesi a fiscalità privilegiata per fini elusivi, la legge inverte l’onere probatorio, facendolo ricadere sul contribuente che dovrà provare con ogni mezzo idoneo l’effettiva residenza all’estero; la prova è atta a dimostrare, conformemente alla disciplina dell’articolo 2, comma 2, del DPR n. 917/86, l’effettività del trasferimento, oltre all’interruzione di significativi rapporti con lo Stato italiano.

In ordine alla prova che il cittadino residente all’estero può fornire, il legislatore non ha posto quindi alcun limite. Viene lasciata, dunque, la più ampia possibilità di difesa[9].

È sempre buona norma, dunque, precostituire un fascicolo probatorio in cui il cittadino catalogherà (possibilmente in maniera ordinata e cronologica) tutta la documentazione idonea a dimostrare la sua residenza all’estero. Quest’ultima accortezza permetterà il controllo di un requisito fondamentale, quale è quello temporale, per avvalorare la non fittizietà del cambio di residenza.

 

Alcuni esempi

Per fare un esempio, costituiscono prove idonee a dimostrare la propria residenza le seguenti condizioni:

  • Lo svolgimento di un rapporto lavorativo a carattere continuativo, stipulato nello stesso Paese estero;
  • L’iscrizione ad associazioni o circoli sportivi o ricreativi nel Paese estero da parte del soggetto trasferito o dei familiari;
  • L’esercizio di una qualunque attività economica con carattere di stabilità;
  • La stipula di contratti di acquisto o locazione di immobili residenziali, adeguati ai bisogni abitativi nel Paese di immigrazione.

 

La sussistenza degli elementi utili a provare il trasferimento della residenza all’estero di un soggetto e la mancanza di quelli atti a realizzare un collegamento col nostro Paese dovranno quindi essere valutati e ponderati, tenendo ben presente che la valutazione di essi svolta dall’Amministrazione Finanziaria dovrà comportare una complessiva considerazione della posizione del contribuente alla stregua delle prove fornite. Nel senso che si dovrà valutare se prevalgano gli elementi di collegamento con lo Stato estero in cui si assume essere effettivamente residenti oppure prevalgano gli elementi di collegamento con l’Italia.

 

Conclusioni

Questo piccolo contributo si propone di dare un’infarinatura iniziale in ragguaglio alla procedura da espletare nel caso di trasferimento “fiscale” all’estero.

La lotta all’elusione fiscale e alle relative distrazioni di ricchezze hanno portato l’Amministrazione Finanziaria italiana, di concerto con le amministrazioni finanziare estere, ad effettuare controlli periodici volti a smascherare eventuali intenti fraudolenti che di questi tempi, visto il carico fiscale in Italia, sono sempre più frequenti.  A farne le spese non sono solo i furbetti che architettano diversi stratagemmi per risparmiare sulle imposte nonostante continuino ad essere legati fiscalmente allo Stato italiano, ma soprattutto i cittadini che senza intenzioni fraudolente hanno esigenze di spostarsi realmente all’estero. Questo accade spesso per una scarsa conoscenza della normativa fiscale, altre volte per una forbice burocratica che rende poco agevole il rispetto delle procedure per i non esperti del settore.

Risulta perciò fondamentale informarsi sulla normativa e rispettare le procedure fin qui analizzate al fine di evitare che eventuali accertamenti da parte del fisco italiano possano determinare la pretesa di tassare il reddito dei contribuenti anche se prodotto al di fuori dei confini italiano.

Informazioni

G.Melis, La nozione di residenza delle persone fisiche nell’ordinamento tributario Italiano, in Rassegna Tributaria n. 6/1995, 1034.

F.Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Milano, Utet Giuridica, 2019.

www.fiscomania.com

www.fiscoetasse.com

[1] Qui un articolo di DirittoConsenso sul riciclaggio internazionale di denaro: http://www.dirittoconsenso.it/2019/04/23/il-riciclaggio-internazionale-di-denaro/

[2] Uno dei principi posti alla base dell’irpef è quello della “worldwide taxation” per cui il soggetto residente in Italia deve scontare l’imposta per i redditi ovunque prodotti, mentre il soggetto non residente è chiamato a contribuire solo in relazione ai redditi prodotti nel territorio dello Stato.

[3] F.Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Milano, Utet Giuridica, 2019.

[4] https://www.fiscoetasse.com/approfondimenti/13399-il-trasferimento-all-estero-della-residenza-fiscale-delle-persone-fisiche.html

[5] Vedi nota precedente

[6] G.Melis, La nozione di residenza delle persone fisiche nell’ordinamento tributario Italiano, in Rassegna Tributaria n. 6/1995, 1034.

[7] L’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.) è stata istituita con legge 27 ottobre 1988, n. 470 e contiene i dati dei cittadini italiani che risiedono all’estero per un periodo superiore ai dodici mesi.

[8] Con Circolare MIACEL del 17 dicembre 2001 n. 20, l’esenzione dall’obbligo di iscrizione all’AIRE è stata estesa, in via interpretativa, anche ai militari in servizio presso gli uffici e le strutture della NATO.

[9] www.fiscomania.com , https://fiscomania.com/trasferimento-della-residenza-estero/ .