Il fine vita nei bambini: il problema del consenso
Questo articolo tratterà delle scelte terapeutiche effettuate in relazione a bambini neonati in fin di vita e i problemi del consenso
Il consenso informato: quello dei bambini può essere valido?
Il diritto alla vita è un diritto inviolabile dall’uomo, per questo, quindi, irrinunciabile. Tuttavia, ci sono ordinamenti che prevedono la possibilità di rinunciarvi. A fondamento di ciò vi è la volontà della persona, il suo consenso che come abbiamo visto nel mio precedente articolo “Vita e consenso: un excursus sulla L. 219/2017”[1], deve essere un consenso informato.
In poche parole, il medico in attuazione dell’alleanza terapeutica formatasi con il paziente, deve fornirgli, in maniera a lui comprensibile, informazioni specifiche sul suo stato di salute, sulle cure possibili, sugli effetti collaterali, i rischi derivanti dalla terapia e quant’altro possa servire al paziente per decidere se continuare la terapia oppure interromperla. Questo vale sia per una malattia lieve, sia per i casi in cui il paziente si trovi in fin di vita.
In Italia, non esiste l’eutanasia diretta e cioè quella che consente al medico tramite un’azione di porre fine alla vita del paziente che lo richiede. Nel nostro ordinamento questa condotta è punibile ex art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente).
Tuttavia, è stata avvallata la possibilità di attuare la cd. eutanasia passiva, quella dove il medico, dopo aver informato in modo esaustivo il paziente e dopo che lo stesso abbia negato il suo consenso a continuare le terapie salvavita, può interromperle senza incorrere in responsabilità civili o penali. Comunque, questa sua azione-omissione non deve essere accompagnata dall’abbandono terapeutico, piuttosto il medico dovrà attivarsi con la terapia del dolore, per alleviare le sofferenze del soggetto malato, tramite le cure palliative.
Tutto ciò, in Italia, è ora previsto dalla L. 219/2017 Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento. La stessa afferma:
“Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso.”[2]
Perciò la domanda sorge spontanea: solamente chi ha la capacità di agire può esprimere un consenso valido al trattamento? Quindi, si potrebbe dire che i bambini o gli infermi psichici non possono esprimere un consenso valido? Ma in tal caso chi per loro può decidere sulle questioni inerenti alla loro vita e in particolare sul fine vita?
In questo articolo cercherò di esaminare le problematiche che legano l’argomento del consenso informato in tema di fine vita all’infanzia.
Il presupposto della capacità di agire
In Italia, per “capacità di agire” si intende la capacità di un soggetto di compiere atti, che secondo il Codice civile (art. 2) è riservata a coloro che hanno compiuto la maggiore età, fissata agli anni diciotto.
Anche nel Codice penale vi sono norme dedicate al minore. L’articolo 97 sancisce che il minore di anni quattordici non è imputabile, ciò significa che l’agente non ha la maturità minima richiesta per muovere nei suoi confronti un rimprovero per il fatto commesso. Questo in ragione del fatto che si presume che il minore di quattordici anni sia incapace di intendere e di volere. Si parla di presunzione legale.
A ciò si affianca l’art. 98 c.p. il quale sancisce che:
“È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita […]”
Qui, diversamente dagli infraquattordicenni, si è in presenza di una presunzione relativa di imputabilità per coloro che anche se minorenni, potrebbero essere dotati di capacità di intendere e di volere, la quale viene accertata caso per caso dal giudice.
Il legislatore tende a differenziare i casi di minori di quattordici anni da chi invece è adolescente, ma ancora non ha compiuto diciotto anni, perché in linea generale questi ultimi sono dotatati di una maggiore capacità di discernimento e hanno avuto modo di formare più o meno una loro personalità.
La questione dei minori, in tutti gli ambiti dell’ordinamento, è particolarmente delicata. A maggior ragione lo è in materia di fine vita.
Riguardo al tema, infatti, la stessa Legge sul consenso informato ha introdotto una norma a tutela dei minori e degli incapaci, infatti l’art. 3 afferma:
“La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà.”[3]
Dunque, non si nega il coinvolgimento dei bambini o degli incapaci nella scelta terapeutica; infatti a loro viene riservata la possibilità di esprimere una volontà anch’essa informata, ciononostante il consenso vero e proprio viene espresso da chi esercita la responsabilità genitoriale o dal tutore.
Questi ultimi, incaricati di esprimere il consenso in modo che sia valido, devono tenere conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità.
La tutela del minore a livello internazionale
L’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che si fonda sulla Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, stabilisce che:
“i minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione. Questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità.”[4]
In sostanza, il potere genitoriale è un potere elastico, di conseguenza nell’intraprendere qualsiasi decisione relativa ai propri figli, i genitori devono sempre tenere conto delle opinioni espresse dagli stessi e avere come unico obiettivo il loro benessere.
È chiaro che quando si parla di tenere conto delle volontà espresse dal minore nelle scelte terapeutiche e di cura, ci si riferisce a quei minori che hanno potuto sviluppare una propria volontà.
Invece, è in ordine ai bambini, come i neonati o quelli che ancora non hanno totalmente sviluppato una capacità cognitiva, che la faccenda si complica. La loro è un’incapacità di tipo naturale. Spesso se tali soggetti sono affetti da patologie, non saranno mai in grado di elaborare e nemmeno di manifestare la propria volontà.
Se nel caso di minore con capacità di discernimento, le decisioni vengono prese in un’alleanza terapeutica che coinvolge i medici, i genitori e anche il minore, il quale può esprimere il proprio pensiero. Diverso è nei casi dove i pazienti sono bambini neonati: il genitore, assieme al medico, decide nell’esclusivo interesse del figlio, considerando il benessere dello stesso e cercando di essere il più obiettivo possibile nell’assumere una decisione di tale portata.
È fondamentale il supporto dei medici, i quali devono sempre informare i genitori dello stato di salute dei figli, delle cure possibili e delle eventuali conseguenze.
Purtroppo, può succedere che l’alleanza terapeutica tra genitori e medici si trasformi in un conflitto, come è capitato nel famoso caso inglese di Charlie Gard.
Caso Charlie Gard
Charlie Gard[5] era nato nel 2016 come un bambino apparentemente sano. Poco dopo si è scoperto che soffriva di una rara forma di malattia mitocondriale causata dalla mutazione di un gene che provoca il disfunzionamento di diverse parti del corpo, come inabilità nel muovere occhi, braccia, gambe, ecc. Presentava attacchi di epilessia persistenti ed encefalopatia. Necessitava della ventilazione e dell’alimentazione-idratazione artificiali. Dopo varie vicende i medici del Great Ormond Street Hospital si convinsero che per Charlie non c’era più alcuna speranza di vita e per questo si rivolsero all’Alta Corte di Londra per ottenere l’autorizzazione a sospendere la respirazione artificiale.
Dall’altra parte, i genitori si opposero e chiesero che venisse loro concesso di trasferire Charlie negli Stati Uniti per sottoporlo a una terapia sperimentale.
Dopo aver esaurito tutti i ricorsi interni, tutti con esito a favore della sospensione dei trattamenti in atto, i genitori decisero di rivolgersi alla Corte EDU, eccependo la violazione del diritto alla vita e della libertà di movimento, bloccando l’accesso al trattamento sperimentale negli USA. Inoltre, avevano denunciato le decisioni dei tribunali britannici “come un’interferenza iniqua e sproporzionata nei loro diritti genitoriali”[6]. Tuttavia, la Corte di Strasburgo concluse dando ragione alle Corti interne, sostenendo che queste avessero svolto un lavoro meticoloso e accurato.
I principi fondamentali che guidano le scelte terapeutiche relative ai bambini
Alla base delle decisioni concordanti di tutte le corti vi sono argomentazioni come la futilità dei trattamenti sanitari, l’inutile protrazione di una situazione di sofferenza e la mancanza di un effettivo beneficio della terapia (“…that nucleoside treatment would be futile, that is to say pointless and of no effective benefit”[7]).
Per “futility/utility of the treatment” e “quality of life” si intende quei criteri con cui si valuta da un punto di vista medico i benefici che possono derivare da una terapia sanitaria e quali sarebbero le conseguenze a livello di qualità di vita per i bambini in cura. Inoltre, si deve tenere conto anche del “significant harm”, per meglio dire il grado presumibile di sofferenza che il paziente patirebbe subendo il trattamento.
Si considera, anche, l’opinione dei genitori, la quale rimane pur sempre non vincolante.
Vi è da dire, altresì, che nelle decisioni di tutti i gradi di giudizio interno e della Corte EDU, è stato valutato come preminente l’interesse superiore del minore.
Si parla del cd. best interest of the child, che si ritrova all’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (“in tutti gli atti relativi ai bambini […] l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”[8]) e nella CEDU.
Con questa locuzione si indica una clausola generale volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei minori. In particolare, con riguardo agli adulti che si prendono cura di loro, i quali devono operare le proprie scelte orientandole verso una soluzione ragionevole e giusta.
In Italia
Anche in Italia, è stato messo in conto il caso in cui vi siano contrasti tra i medici e chi esercita la responsabilità genitoriale o i tutori. Infatti, allo stesso art. 3 della L. 219/2017 è inserito un comma dedicato al caso in cui i soggetti di cui sopra rifiutino le cure proposte per le persone che rappresentano, mentre il medico ritiene invece che queste siano appropriate e necessarie. In tali situazioni la decisione viene rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.
Dunque, si può ben vedere come anche nel nostro Paese vi è piena applicazione del principio del superiore interesse del minore, prevedendo soluzioni in casi di conflitti che siano totalmente a favore dei bambini e nel loro esclusivo interesse.
Informazioni
[1] http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/16/vita-e-consenso-excursus-l-219-2017/
[2] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg
[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg
[4] https://fra.europa.eu/it/eu-charter/article/24-diritti-del-minore#:~:text=Next%20article-,Articolo%2024%20%2D%20Diritti%20del%20minore,necessarie%20per%20il%20loro%20benessere.&text=Il%20minore%20ha%20diritto%20di,sia%20contrario%20al%20suo%20interesse.
[5] https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-175359%22]}
[6] https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/27/charlie-gard-la-corte-di-strasburgo-ha-deciso-londra-puo-decidere-di-non-tenere-piu-in-vita-il-bambino/3691414/
[7] https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-175359%22]}
[8] https://www.unicef.it/Allegati/Convenzione_diritti_infanzia_1.pdf
Vita e consenso: un excursus sulla L. 219/2017
Il presente articolo verterà sulla questione del fine vita e, in particolare, sulla centralità del consenso informato in quest’ambito
Introduzione: il consenso a morire
Il diritto alla vita è un diritto riconosciuto a ciascun individuo, come un diritto inviolabile dell’uomo. È sancito dall’art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, grazie al Trattato di Lisbona, ha acquisito lo stesso valore dei trattati, quindi valore vincolante. Inoltre, è previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, anche detta CEDU.
Sebbene il diritto alla vita sia un diritto inviolabile e, dunque, irrinunciabile dall’uomo, esistono Stati che prevedono la possibilità di rinunciarvi, in Europa, come Olanda o Svizzera che ammettono l’eutanasia.
L’eutanasia (dal greco buona morte) infatti consiste nel provocare intenzionalmente e nell’interesse dell’individuo la sua morte.
Si differenziano varie forme di eutanasia, come quella attiva che prevede una condotta attiva, appunto, del medico nel porre fine alla vita di un paziente, il quale per le gravi sofferenze patite e la poca speranza di vita richiede di morire. Questa tipologia è accettata e legalizzata in ordinamenti come quello olandese, belga e lussemburghese.
L’eutanasia in Italia
Non è così per l‘Italia. Qui viene punita ex art. 579 Codice Penale come omicidio del consenziente. Anche se è prevista una pena ridotta per la presenza di un consenso valido, comunque l’ordinamento italiano ha preferito stabilire che una condotta simile sia punita per tutelare i soggetti più vulnerabili, come i minori, gli anziani o i soggetti invalidi.
Lo Stato italiano ha cercato di evitare che sia facile manifestare la propria volontà a morire. Difatti, il consenso di un minore o di un malato psichico a essere uccisi non è un consenso valido, tant’è che la condotta, in queste ipotesi, integrerebbe la fattispecie di omicidio di cui all’art. 575 Codice Penale.
Non è da meno l’art. 580 Codice penale che prevede la fattispecie di aiuto al suicidio di cui si è occupato più nello specifico Gennaro De Lucia nel suo articolo intitolato “La Corte Costituzionale si pronuncia sul diritto a morire”[1], dove appunto analizza il caso Cappato e le conseguenze derivanti dalla pronuncia della Corte Costituzionale del settembre 2019 in merito alla legittimità dell’articolo 580 c.p.
Invece, l’eutanasia passiva consiste nell’omissione o interruzione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza di un individuo. Anche in questo caso, sempre con la presenza del consenso del paziente. È una fattispecie che viene riconosciuta specialmente nei Paesi del Nord Europa[2].
Poi, si parla di eutanasia indiretta quando si fa riferimento alle cure palliative, cioè a quelle cure che vengono somministrate al paziente in fin di vita, per alleviare le sue sofferenze.
Infine, in relazione al concetto di eutanasia vi è anche il cd. accanimento terapeutico. Questo è un comportamento del medico integrato dalla somministrazione di cure inutili ed eccessive, che non portano alcun beneficio al paziente. Si tratta di un comportamento che è contrario a qualsiasi codice etico e di deontologia medica, in particolare alla Convenzione di Oviedo.
La centralità del consenso
Come si è visto esistono varie forme di terminazione della vita, ma è fondamentale evidenziare che un ruolo centrale è rivestito dal consenso del paziente che deve nascere, svilupparsi e consolidarsi nello stesso senza influenze esterne.
L’ articolo 3 comma 2 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE stabilisce che:
«Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:
a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge […]»
Per consenso informato si intende che il paziente deve essere informato del suo stato di salute, delle modalità di esecuzione, i benefici e i rischi ragionevolmente prevedibili e le possibili alternative terapeutiche al trattamento.
Anche nel nostro ordinamento si è affermata la necessità di un consenso informato, grazie a una reinterpretazione dell’art. 32 Costituzione in cui è previsto che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Dunque, serve il consenso per iniziare un trattamento sanitario e in un’interpretazione più estesa serve il consenso anche per mantenere il trattamento sanitario. Il risultato di questa reinterpretazione è l’affermarsi di una nuova accezione di diritto alla vita, come diritto a non curarsi. Perciò, nel caso in cui le cure siano salvifiche, il rifiuto di queste potrebbe essere considerato come l’integrazione del diritto a morire.
La giurisprudenza per lungo tempo è stata contrastante su questo tema, poi nel 2017 è stata introdotta la Legge 219[3] “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”.
Legge 219/2017: la nuova relazione medico-paziente
Fino al secolo scorso la relazione tra medico e paziente era basata su una concezione paternalistica, in questo senso il medico agiva oppure ometteva di agire per il bene del paziente senza la necessità del suo assenso. Ciò accadeva perché si riteneva che il medico avesse la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del beneficiario. Per questo si era in presenza di un rapporto caratterizzato da una forte asimmetria informativa, poiché il paziente veniva considerato incapace di prendere una decisione sia dal punto di vista tecnico, in quanto appunto privo delle conoscenze scientifiche, sia dal punto di vista morale.
Oggi, invece, si può ritenere che la relazione medico-paziente si sia evoluta, grazie anche alla legge 219/2017. Difatti, all’art. 1 comma 2 si afferma che: “[…] è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato […]”.
Dunque, la nuova visione del rapporto tra i due soggetti è di tipo personalistico, dove l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale del medico e la sua responsabilità sono su un piano di parità.
Alla base di quanto affermato vi è la combinazione degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione che sanciscono l’autodeterminazione del paziente nell’ambito del trattamento sanitario.
A rafforzare la nuova visione di tale rapporto vi è anche l’art. 5 della L. 219/2017 intitolato “Pianificazione condivisa delle cure” in cui si prevede che, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, nei casi di patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale poi il medico deve attenersi.
Inoltre, la norma in esame cita espressamente all’art. 1 comma 7:
“Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla.”
Nel nostro ordinamento, il Codice penale all’art. 54 esclude la punibilità in presenza di uno stato di necessità, prevedendo che taluno possa intervenire per la tutela dell’integrità fisica e della vita di un’altra persona, anche ponendo in essere un fatto che potrebbe costituire reato. Tuttavia, come è possibile notare in questo caso prevale sempre il consenso del paziente, per cui se il medico si astiene dall’intervenire quando il paziente rifiuta un trattamento salvifico, egli non è punibile.
Pertanto, si può ritenere che il consenso informato costituisca il presupposto di liceità del trattamento, proprio perché il medico può erogare cure, interromperle, effettuare operazioni solo e soltanto se, dopo aver fornito al paziente tutte le informazioni utili, questo dà il proprio assenso.
Divieto di ostinazione irragionevole e cure palliative
La legge 219/2017 afferma anche il divieto di ostinazione irragionevole, infatti si prevede che quando la prognosi è infausta, ossia quando la malattia è inguaribile e la morte è imminente, il medico ha il dovere di astenersi dal somministrare trattamenti che siano inutili e che potrebbero comportare maggiori sofferenze al paziente in fin di vita.
Tuttavia, il medico non deve abbandonare il paziente, ma lo deve assistere e favorirgli una morte che sia dignitosa e meno possibile dolorosa. Infatti, può procedere alla terapia del dolore, somministrando al soggetto sofferente le cd. cure palliative.
In relazione a quest’ultime con la Legge 15 marzo 2010, n. 38 Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore[4], è stato garantito per la prima volta in Italia, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore a favore del malato con malattia inguaribile o affetta da patologia cronica dolorosa, nell’obiettivo di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana.
Per altro, l’art. 3 del Codice di Deontologia medica[5] “Doveri del medico” stabilisce che: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana […]”.
Perciò, per concludere si può dire che è vero che il medico non deve erogare un trattamento eccessivo rispetto al necessario, ma è anche vero che nel momento in cui si astiene dal cd. accanimento terapeutico, oppure nel momento in cui il paziente rifiuta le cure salvifiche, egli non deve finire per comportarsi nel modo opposto. Non deve cioè trascurare e abbandonare il paziente. Deve, invece, accompagnarlo fino all’ultimo istante di vita, cercando di attenuare il più possibile le sue sofferenze.
DAT: Disposizione Anticipate di Trattamento
Cosa succede se una persona non può esprimere il proprio consenso a un trattamento perché impossibilitata?
La legge 219/2017, all’articolo 4, ha previsto l’introduzione delle DAT, Disposizioni Anticipate di Trattamento, anche conosciute come “testamento biologico”. Con queste è possibile che un soggetto capace di intendere e di volere e maggiorenne possa indicare in un atto scritto il proprio consenso o dissenso a un trattamento a cui potrebbe venire sottoposto in futuro, in previsione del fatto che potrebbe trovarsi in una situazione di incapacità a esprimere la propria volontà.
Tale documento deve essere redatto nella forma dell’atto pubblico oppure di scrittura privata autenticata, in modo tale che sia possibile garantirne l’autenticità. Se il soggetto è impossibilitato, allora sono ammesse anche dichiarazioni tramite videoregistrazioni.
Comunque, è sempre possibile revocare le DAT con la stessa forma che si è usata per la loro formazione.
Conclusioni
Alla luce di quanto appena esposto si può arrivare alla conclusione per cui la vita rimane un diritto inviolabile, nel senso che altri non possono recarvi danno o, appunto, violarla. Tuttavia, si può ritenere che, in casi particolari, come quelli di soggetti che sono malati e non hanno alcuna speranza di vita oppure di guarire, questi possano decidere di terminare la propria vita. Dunque, la presenza di un consenso informato a un trattamento medico (o il rifiuto allo stesso) sono i presupposti in basi ai quali il medico può agire oppure deve astenersi dal farlo e questo sempre rimanendo esente da qualsivoglia responsabilità.
Informazioni
[1] http://www.dirittoconsenso.it/2019/09/26/la-corte-costituzionale-si-pronuncia-sul-diritto-a-morire/
[2] https://www.repubblica.it/esteri/2019/06/04/news/eutanasia_come_funziona_in_europa-227970703/
[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg
[4] https://www.gazzettaufficiale.it/gunewsletter/dettaglio.jsp?service=1&datagu=2010-03-19&task=dettaglio&numgu=65&redaz=010G0056&tmstp=1269600292070
[5] https://portale.fnomceo.it/wp-content/uploads/2020/04/CODICE-DEONTOLOGIA-MEDICA-2014-e-aggiornamenti.pdf