Politica di allargamento dell'Unione Europea

La politica di allargamento dell'Unione Europea

Cos’è la politica di allargamento dell’Unione Europea? Qual è il processo da attraversare e quali sono i criteri da rispettare per divenire Stato membro dell’Unione?

 

Introduzione generale

L’Unione Europa ha avuto origine da un nucleo iniziale di sei Stati: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Da allora, grazie alla politica di allargamento, ci sono state diverse espansioni che hanno visto cambiare profondamente l’assetto dell’Unione e hanno portato all’ingresso di 22 nuovi Stati, arrivando, ad oggi, con una composizione totale di 27 Stati Membri.

Il primo allargamento fu nel 1973 con l’adesione da parte di Danimarca, Irlanda e Regno Unito, a cui fece seguito quella della Grecia (1981) e di Spagna e Portogallo (1986).

Nel 1995 l’UE ha visto l’ingresso di Austria, Finlandia e Svezia. Nel 2004, con il cosiddetto “Grande allargamento”, sono entrati a far parte dell’Unioni dieci nuovi Stati membri: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

Per finire, gli ultimi Stati entrati a far parte dell’Unione sono stati, nel 2007, Bulgaria e Romania e, nel 2013, la Croazia.

Per aderire all’UE è necessario stipulare un accordo internazionale tra gli Stati già membri e i nuovi Stati; la procedura di adesione è espressamente disciplinata dal Trattato sull’Unione Europea all’art. 49.

 

Condizioni di adesione

Entrando nello specifico, secondo la politica di allargamento dell’Unione Europea, il primo passo per presentare domanda di adesione è che il paese soddisfi i criteri chiavi per l’adesione.

Innanzi tutto la richiesta di adesione può essere presentata solo da un paese che rispetta i valori su cui si fonda l’Unione Europea e si impegna a promuoverli. L’idea di allargamento è, infatti, fortemente ed intrinsecamente legata ai valori fondanti dell’UE e costituiscono un presupposto irrinunciabile per fare domande di adesione.

I valori di riferimento sono disciplinati dall’art. 2 TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.”

Oltre a rispettare e promuovere i valori espressi nell’Art. 2 TUE, gli stati richiedenti devono trovarsi entro i limiti geografici del continente europeo.

 A ciò, nel 1993, si sono aggiunti i “Criteri di Copenaghen”, così indicati in quanto definiti in occasione del Consiglio europeo di Copenaghen[1].

I criteri di Copenaghen, da rispettare per poter entrare a far parte dell’Unione Europea, sono:

  • Criterio politico. La stabilità politica, quindi presenza di istituzioni stabili che garantiscano il rispetto dei principi di democrazia, delle regole di uno Stato di diritto, della tutela dei diritti dell’uomo e delle minoranze;
  • Criterio economico. L’esistenza di un’economia di mercato improntata alla libera concorrenza;
  • Criterio dell’acquis dell’UE. La capacità di assumere gli obblighi connessi all’adesione e l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

 

L’UE si riserva il diritto di decidere quando questi criteri sono effettivamente soddisfatti.

 

Procedimento di adesione

A seguito di una decisione unanime del Consiglio dell’Unione Europea si aprono i negoziati, che si svolgono durante le conferenze intergovernative tra i governi dei paesi già membri dell’UE e il governo del paese candidato.

La politica di allargamento dell’Unione Europea prevede che durante la fase di preadesione, la Commissione segua gli sforzi dei paesi candidati nell’attuazione della legislazione e assista i paesi nel corso del processo con aiuti di tipo finanziario, amministrativo e tecnico.

Parallelamente ai negoziati si apre anche un processo di screening con lo scopo di verificare se i singoli elementi dell’acquis[2] dell’UE sono stati introdotti nella legislazione del paese candidato.

La Commissione tiene informati il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo nel corso del processo per mezzo di relazioni annuali, il Parlamento, poi, presenta le proprie osservazioni attraverso le risoluzioni. Il paese candidato, a sua volta, è tenuto a stilare dei programmi nazionali annuali in cui valuta il proprio stato di attuazione rispetto ai diversi capitoli dell’acquis.

L’obiettivo dei negoziati è quello di preparare il trattato di adesione che deve essere approvato all’unanimità dal Consiglio dell’UE e ricevere l’approvazione del Parlamento europeo.

Il trattato di adesione, poi, deve essere ratificato, in conformità con le rispettive procedure costituzionali, da tutti gli Stati membri dell’Unione e dal paese di adesione per poter entrare effettivamente in vigore.

 

Paesi candidati

Attualmente 8 sono gli Stati in procinto di integrare la legislazione dell’Unione Europea nel proprio ordinamento nazionale.

Molti stati sono candidati ad entrare nell’UE da anni, come Turchia candidata dal 1999, Macedonia del Nord candidata dal 2004 e Montenegro candidato dal 2010.  A questi si aggiungono la Serbia, candidata dal 2012, l’Albania, candidata dal 2014, la Bosnia-Erzegovina candidata dal 2016.

Nel 2022 hanno presentato domanda di adesione la Georgia, la Moldavia e l’Ucraina, le ultime due hanno ottenuto lo status di candidato nel medesimo anno.

Questi paesi, però, devono ancora raggiungere un livello di conformità ai criteri di adesione in grado da poter chiudere le trattative e ratificare il trattato di adesione per poter entrare ufficialmente come stati membri dell’Unione.

Informazioni

[1] Il Consiglio Europeo di Copenaghen tenutosi nel 1993 esaminò le richieste di adesione degli stati che facevano parte dell’ex blocco sovietico, con l’idea di regolamentare l’allargamento dell’Unione Europea verso tali paesi dell’Europa dell’est.

[2] L’acquis è il corpo della legislazione dell’UE.


Guida in stato di ebbrezza

La guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza, spiegazione di cosa sia lo stato di ebbrezza e l’indicazione del tasso alcolemico. Cosa sono e quando c’è reato?

 

La guida in stato di ebbrezza in generale

La guida in stato di ebbrezza è una fattispecie prevista e sanzionata dall’art. 186 del Codice della Strada.

Quando parliamo di stato di ebbrezza facciamo riferimento alla condizione di alterazione psico – fisica conseguente all’assunzione di sostanze alcoliche, che sono in grado di modificare il comportamento del soggetto che si trova in tale condizione, procurando, come conseguenza, una percezione distorta della realtà, un peggioramento e un rallentamento dei riflessi.

Lo stato di ebbrezza è sanzionabile dal Codice della Strada se il tasso alcolemico supera la soglia dello 0,5 g/l (0,5 grammi per litro di sangue). Fanno eccezione le ipotesi legate alle “categorie speciali” come, i neopatentati, i conducenti con età inferiore a 21 anni e i conducenti professionali nell’ambito della loro attività, in questi casi il tasso alcolemico non superiore 0,5 g/l è punibile con sanzione dai 155€ ai 624€ e la decurtazione di 5 punti sulla patente[1].

L’accertamento del superamento del tasso alcolemico consentito può avvenire in due modi:

  • Attraverso le analisi del sangue
  • Mediante verifica dell’etilometro.

 

Normalmente, il primo test che viene effettuato per stabilire se la persona è o meno in stato di ebbrezza è, appunto, il cosiddetto alcol test che si svolge mediante l’etilometro, cioè uno strumento in grado di calcolare la concentrazione di alcol contenuta nell’aria espirata. Di regola, l’alcol test, a differenza dell’accertamento attraverso le analisi del sangue, viene ripetuto due volte a distanza 5 minuti tra una rilevazione e l’altra.

È importante sottolineare che, sia il rifiuto di sottoporsi all’etilometro sia il comportamento volto ad eludere il controllo, sono considerati reati. La Corte di Cassazione ha affermato che:

Il reato di rifiuto di sottoporsi ad accertamenti alcolimetrici è integrato non solo in presenza di manifestazioni espresse di indisponibilità a sottoporsi al test ma anche laddove il conducente, pur opportunamente edotto circa le modalità di esecuzione dell’accertamento, attui una condotta ripetutamente ‘elusiva’ del metodo di misurazione del tasso alcolemico[2].

 

La guida in stato di ebbrezza come illecito amministrativo

Va detto che le sanzioni in caso di guida in stato di ebbrezza sono diverse a seconda della soglia di tasso alcolemico superata.

Entrando più nello specifico, con l’art. 33 della Legge n.120/2010[3] il legislatore è intervenuto sull’articolo 186 depenalizzando la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico compreso tra 0, 5 g/l e 0,8 g/l; tale fattispecie viene riformulata in termini di illecito amministrativo per cui non si aprirà alcun procedimento penale e l’autorità giudiziaria competente sarà il Giudice di Pace. In questo caso, dunque, viene prevista una sanzione amministrativa pecuniaria.

La lettera a) del comma 2 dell’art. 186 difatti prevede che la guida in stato di ebbrezza è punita “con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da €543 a €2.170, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro (g/l). All’accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi”.

La legge italiana oltre ad una sanzione pecuniaria prevede ulteriori sanzioni amministrative, dette accessorie. Le sanzioni amministrative accessorie vengono emesse in aggiunta alla sanzione principale, anche nei casi in cui il fatto costituisca reato e sono:

  • Sospensione della patente di guida. In caso di guida in stato di ebbrezza, la patente di guida può essere sospesa per un periodo che va da un minimo di tre mesi a un massimo di due anni.
  • Revoca della patente di guida. In presenza di aggravanti, quali incidenti stradali o reiterazione del reato, la patente di guida può essere revocata definitivamente.
  • Decurtazione dei punti della patente.
  • Sequestro del veicolo. Il sequestro del veicolo può essere stabilito per un periodo che va da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni.

 

La guida in stato di ebbrezza come reato

Una volta vista la fattispecie amministrativa è importante vedere quando, invece, il fatto diventa di rilevanza penale. Secondo quanto stabilito dalle lettere b) e c) del secondo comma dell’art. 186 del Codice della Strada, le sanzioni penali scattano quando il tasso alcolemico rivela un risultato di alcol tra l’0,8 e il 1,5 g/l o superiore. In questi casi, dunque, la violazione si trasforma in reato.

Si tratta di reati contravvenzionali che prevedono due tipi di sanzioni principali:

  • L’arresto,
  • L’ammenda.

Entrando più nello specifico vediamo che la lettera b) del secondo comma fa riferimento al tasso alcolemico compreso fra 0,8 e 1,5 grammi per litro di sangue. In tal caso, l’illecito penale viene punito con:

  • Arresto fino a sei mesi
  • Ammenda da 800€ a 3.200€.

Ad esse si aggiungono, come già detto, le sanzioni amministrative accessorie della sospensione della patente, in questo caso da 6 mesi ad 1 anno, e la decurtazione di 10 punti.

Quando il tasso alcolemico supera 1,5 g/l, la pena stabilita dalla lettera c) del secondo comma ha una gravità maggiore. Si tratta della soglia sopra la quale vengono stabilite le sanzioni massime previste in caso di guida in stato di ebbrezza:

  • Arresto da sei mesi ad un anno
  • Ammenda da 1.500€ a 6.000€.

In aggiunta, l’articolo prevede la sanzione accessoria della sospensione della patente per un periodo che va da uno a due anni, la decurtazione di 10 punti e la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, tranne nel caso in cui il veicolo sia intestato a persona diversa da quella che ha commesso il fatto. In tal caso, il veicolo non viene confiscato ma viene raddoppiata la durata della sospensione della patente.

Oltre a tali fattispecie, è importante dire che la guida in stato in stato di ebbrezza ha un rilievo penale,  come aggravante, qualora si verifichi un incidente mortale. Con l’introduzione della legge n.41 del 2016[4] sull’omicidio stradale[5], i conducenti in stato di ebbrezza che causano omicidio stradale sono puniti con la reclusione da 5 a 10 anni e, nei casi in cui il tasso alcolemico supera la soglia del 1,5 g/l, con la reclusione da 8 a 12 anni.

 

Conclusioni

Negli anni il fenomeno della guida in stato di ebbrezza è stato considerato dal legislatore inasprendo le sanzioni previste ciononostante, il numero di italiani sorpresi a guidare in stato di ebbrezza sembra essere aumentato negli ultimi 5 anni.

Infatti, secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, sulla base dei controlli effettuati tra il 2017 e il 2022, la percentuale di soggetti in stato di ebbrezza al volante è aumentata drasticamente. La fascia che ha mostrato la crescita maggiore è stata la più giovane, dai 18 ai 22 anni, mentre la fascia oltre i 32 anni mostra una crescita più contenuta, rimanendo però quella con il tasso di positivi più alto.

I dati, però, sono preoccupanti anche in relazione al numero di incidenti stradali mortali riscontrati nel paese; 1 incidente su 3 sembra essere, di fatti, conseguenza dell’alterazione psico-fisica dovuta dall’alcol.

Quanto detto dovrebbe farci riflettere sull’importanza che hanno le nostre azioni, non solo nei nostri confronti, ma anche nei confronti degli altri. È sempre importante, infatti, ricordare che quando ci mettiamo alla guida in stato di alterazione andiamo incontro a qualcosa di più importante di sanzioni, penali o amministrative che siano, ovvero la morte.

Divertirsi è indubbiamente importante però è diritto di tutti non perdere la vita per colpa dell’irresponsabilità altrui.

Informazioni

Alcol, guida, sicurezza e salute: analisi e proposte per una strategia di prevenzione basata sull’evidenza scientifica, Istituto Superiore di Sanità.

Angelo Ciafroni, La guida in stato di ebbrezza: profili applicativi e novità interpretative, iusinitinere, 2019.

Legge n. 120 del 29 luglio 2010.

[1] Art. 186 bis Codice della Strada.

[2] Cassazione penale sez. IV, 7 febbraio 2018, sentenza n. 10555 https://www.equilibriosicurezza.it/wp-content/uploads/2018/05/10555.2018.pdf.

[3] Legge n. 120 del 29 luglio 2010 http://www.patente.it/normativa/legge-29-07-2010-n-120-sicurezza-stradale?idc=1405.

[4] Legge 23 marzo 2016, n. 41 https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2016;41.

[5] Per un approfondimento sull’omicidio stradale: Omicidio stradale e omicidio stradale aggravato – DirittoConsenso.


Conflitti armati

I conflitti armati internazionali e non internazionali

Cosa sono i conflitti armati? Quando è importante parlare di conflitto armato internazionale e quando di conflitto armato non internazionale?

 

I conflitti armati in generale

Oggigiorno, i principali strumenti del diritto internazionale dei conflitti armati sono le quattro Convenzioni di Ginevra nate nel 1949 e loro due Protocolli aggiuntivi del 1977. Le Convenzioni ed i loro protocolli nascono per essere applicate all’interno di conflitti armati di qualsiasi tipo.

Gli strumenti convenzionali non contengono, però, alcuna definizione della nozione di conflitto armato: bisogna quindi fare riferimento alla giurisprudenza del Tribunale penale per la ex Jugoslavia che nel caso Tadic che ha osservato che “Un conflitto armato esiste ogni volta che ci sia il ricorso alla forza armata tra Stati o una violenza armata prolungata tra le autorità governative e gruppi armati organizzati o tra questi gruppi all’interno di uno Stato[1].

I conflitti armati possono quindi essere:

  • internazionali o
  • non internazionali.

 

Rientrano nella prima tipologia di conflitto quelli che vedono contrapporsi le forze armate di due Stati, a cui si assommano le guerre di liberazione nazionale, come, ad esempio, l’attuale conflitto fra Ucraina e Russia. La seconda ingloba i conflitti che si sviluppano entro i confini statuali, tra forze regolari e gruppi armati organizzati, come, ad esempio, il conflitto armato siriano.

 

I conflitti armati internazionali

Entrando più nello specifico, vediamo come il diritto considera conflitto armato internazionale l’uso della forza armata fra due o più stati, sia nel caso di guerra dichiarata, sia nel caso lo stato di guerra non sia stato riconosciuto da uno di questi. Inoltre, il conflitto armato internazionale può verificarsi in tutti i casi di occupazione totale o parziale del territorio di uno stato, anche se l’occupazione non incontra alcuna resistenza militare.

Di fatto, l’art. 2, comma 1, comune alle Convenzioni di Ginevra stabilisce che “…la presente Convenzione si applica in caso di guerra dichiara o di qualsiasi altro conflitto armato che scoppiasse tra due o più delle Alte Parti contraenti, anche se lo stato di guerra non fosse riconosciuto da una di esse. La Convenzione è parimente applicabile in tutti i casi di occupazione totale o par­ziale del territorio di un’Alta Parte contraente, anche se questa occupazione non incontrasse resistenza militare alcuna…”[2].

È importante, inoltre, sottolineare che ai conflitti armati vanno equiparate, per effetto dell’art.1, comma 4, del I Protocollo Addizionale del 1977, le guerre di liberazione nazionale, ossia i conflitti armati nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale, l’occupazione straniera o i regimi razzisti, nell’esercizio del proprio diritto all’autodeterminazione.

Nel diritto internazionale classico un conflitto armato iniziava con una dichiarazione di guerra. L’art. 1 della III Convenzione dell’Aja 1907[3], concernente l’apertura delle ostilità, impegnava gli stati a notificare e motivare lo stato di guerra alla controparte; dal momento della notifica iniziava l’applicazione dello ius in bello tra i belligeranti. Con l’entrata in vigore dell’ONU, però, seppur le Convenzioni dell’Aja rimangono comunque in vigore, la dichiarazione di guerra ha perso molto del suo significato fino a diventare quasi del tutto marginale. Parliamo, infatti, di conflitto armato internazionale anche senza previa dichiarazione di guerra.

Infine, bisogna sottolineare che l’intervento di uno stato nel territorio di un altro stato può far sorgere un conflitto armato internazionalizzato, ovvero un combattimento di ordine interno che si è internazionalizzato per l’intervento, a fianco delle forze ribelli statali, di truppe di altri Stati o di forze d’interposizione (ONU) per operazioni di peace keeping o peace enforcing.

 

I conflitti armati non internazionali

Come già detto, anche i conflitti interni ricevono dalle Convenzioni una tutela che, seppur minore, è finalizzata a perseguire i più gravi crimini di guerra.

Esistono due riferimenti normativi principali:

  • l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra e
  • il II Protocollo del 1977.

 

L’art. 3 comune mira alla salvaguardia dei diritti umani: “Nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta ad applicare le disposizioni seguenti…”[4]. Come possiamo notare, l’articolo non fornisce indicazioni circa le caratteristiche di un conflitto armato interno, il II Protocollo completa e sviluppa l’art. 3 comune e si applica a quei conflitti internazionali che “si svolgono sul territorio di un’Alta Parte contraente fra le sue forze armate e le forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del suo territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate.”.

Tali gruppi armati organizzati devono: a) avere un comando responsabile; b) esercitare su una parte del territorio un controllo qualificato, ossia tale da permettere operazioni militari prolungate e concertate. Il II Protocollo, infatti, non si applica alle situazioni di disordini o tensioni interne, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza che non sono considerati conflitti armati.

Il criterio per stabilire l’esistenza di un conflitto armato, dunque, consta di due elementi:

  1. L’intensità dello scontro armato
  2. Il livello di organizzazione raggiunto dalle parti in conflitto.

 

Il Tribunale per la ex Jugoslavia, nel caso Tadic, ha osservato che “In un conflitto armato interno o misto, questi due criteri, che sono fra di sé strettamente connessi, sono da utilizzarsi allo scopo di distinguere un conflitto armato da meri atti di banditismo, insurrezioni non organizzate e di breve durata o attività terroriste che non sono soggette al diritto internazionale umanitario[5].

Per valutare l’intensità dello scontro armato bisogna fare riferimento a vari fattori: il numero, la durata e l’intensità dei singoli scontri; il tipo di armi impiegate; il numero di munizioni utilizzate e il loro calibro; il numero di individui che prendono parte ai combattimenti.

Risultano invece, secondo la giurisprudenza, fattori indicativi dell’organizzazione delle parti in conflitto: la presenza di una struttura di comando; la capacità del gruppo di condurre operazioni in maniera organizzata; la capacità in materia di logistica.

Bisogna infine sottolineare come la definizione di conflitto armato interno del II Protocollo è più stringente della definizione contenuta nell’art. 3, questo suppone che possano sussistere dei conflitti interni a cui si applica l’art. 3 ma non il II Protocollo. Il II Protocollo, infatti, si applica alle forze Statali escludendo tutti i conflitti fra gruppi armati, anche organizzati, che non siano statali, per tali conflitti si applica l’art. 3 comune di Ginevra. Viceversa, invece, non esisteranno conflitti a cui si applica il II Protocollo ma non si applica l’art.3.

Informazioni

Fiorillo, Guerra e diritto, Bari, 2009.

Fornari, Nozioni di Diritto internazionale dei conflitti armati, Napoli, 2015.

Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati: sesta edizione, Torino, 2017.

I bombardamenti a tappeto nel diritto internazionale – DirittoConsenso.

[1] ICTY Tadic Decision, 2 ottobre 1995 https://www.icty.org/x/cases/tadic/acdec/en/51002.htm.

[2] Art.2 Oltre alle disposizioni che devono entrare in vigore già in tempo di pace, la presente Convenzione si applica in caso di guerra dichiarata o di qualsiasi altro conflitto armato che scoppiasse tra due o più delle Alte Parti contraenti, anche se lo stato di guerra non fosse riconosciuto da una di esse. La Convenzione è parimente applicabile in tutti i casi di occupazione totale o par­ziale del territorio di un’Alta Parte contraente, anche se questa occupazione non incontrasse resistenza militare alcuna. Se una delle Potenze belligeranti non partecipa alla presente Convenzione, le Potenze che vi hanno aderito rimangono cionondimeno vincolate dalla stessa nei loro rapporti reciproci. Esse sono inoltre vincolate dalla Convenzione nei confronti di detta Potenza, sempreché questa ne accetti e ne applichi le disposizioni”.

[3] Art. 1 “Le Potenze contraenti riconoscono che le ostilità fra esse non devono cominciare senza un avvertimento preliminare e non equivoco, che avrà sia la forma d’una dichiarazione di guerra motivata, sia quella di un ultimatum con dichiarazione di guerra condizionale.”.

[4] L’art. 3 ha assunto valore consuetudinario ed è stato ratificato da 196 Stati. “Nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti:1.Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carat­tere sfavorevole che si riferisca alla razza, al colore, alla religione o alla cre­denza, al sesso, alla nascita o al censo, o fondata su qualsiasi altro criterio analogo. A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei con­fronti delle persone sopra indicate: a) le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assas­sinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b) la cattura di ostaggi; c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti; d)le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili. 2.I feriti e i malati saranno raccolti o curati. Un ente umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce Rossa, potrà offrire i suoi servigi alle Parti belligeranti. Le Parti belligeranti si sforzeranno, d’altro lato, di mettere in vigore, mediante accordi speciali, tutte o parte delle altre disposizioni della presente Convenzione. L’applicazione delle disposizioni che precedono non avrà effetto sullo statuto giuri­dico delle Parti belligeranti.”

[5] ICTY, Tadic, 1997 https://www.icty.org/en/press/tadic-case-verdict


Bombardamenti a tappeto

I bombardamenti a tappeto nel diritto internazionale

I bombardamenti a tappeto: cosa sono e come contrastano il diritto internazionale? Un’analisi delle norme violate e un breve sguardo al conflitto tra Russia e Ucraina

 

I bombardamenti a tappeto: introduzione storica

I bombardamenti a tappeto sono una tecnica di bombardamento consistente nel colpire in maniera indiscriminata, in uno stato di guerra, varie aree situate in territorio nemico. Lo scopo è quello di conseguire il massimo effetto distruttivo attraverso il lancio fittissimo di bombe.

In ambito internazionale più volte si è provato a regolare la guerra aerea e a vietare l’uso dei bombardamenti. Nel 1923 la commissione nominata dalla Conferenza di Washington per la limitazione degli armamenti presentò un insieme di regole sulla guerra aerea, tale progetto è tutt’oggi l’unico strumento che regola specificatamente i bombardamenti aerei. Bisogna sottolineare però che il progetto è rimasto tale e non è mai entrato in vigore perché gli Stati hanno scartato l’idea di divenire parte ad uno strumento vincolate quale una convenzione e di porre dei limiti a questo mezzo di combattimento.

Il primo bombardamento a tappeto, che ha visto coinvolti civili, della storia sembrerebbe risalire al 26 aprile del 1937, quando la città di Guernica[1] subì un massiccio attacco aereo che la ridusse in cenere. L’operazione fu voluta dai comandati tedeschi, in appoggio alle truppe del generale Franco contro il governo repubblicano di Spagna, con la partecipazione dell’Aviazione Legionaria italiana, per sperimentare l’efficacia pratica di un nuovo tipo di attacco dal cielo fatto di bombe incendiarie di tipo nuovo con bombe convenzionali mitraglianti, lanciate a bassa quota. Gli effetti furono devastanti con una perdita di circa un terzo della popolazione civile; di fatti, con l’esordio del bombardamento a tappeto scomparve per la prima volta ogni distinzione tra civili e combattenti.

Nel 1938 l’Assemblea delle Società delle Nazioni adottò unanimemente una risoluzione con la quale condannava la pratica del bombardamento a tappeto sulla popolazione civile. L’Assemblea auspicava la redazione di un trattato sul bombardamento aereo che però non venne mai negoziato.

Negli anni successivi, infatti, in particolare durante la Seconda Guerra Mondiale, questa pratica è stata largamente adoperata, gli Stati uniti in particolar modo portarono il bombardamento a tappeto ad una dimensione più devastante con il lancio, nel 1945, delle due bombe atomiche contro il Giappone.

 

I bombardamenti a tappeto e il principio di distinzione: tra passato e presente

Entrando più nello specifico possiamo vedere come l’uso di bombardamenti a tappeto viola uno dei principi cardine del diritto dei conflitti armati[2], il principio di distinzione. I bombardamenti a tappeto, infatti, per loro natura non permettono al belligerante di distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili.

Il principio di distinzione costituisce la regola fondamentale che il militare deve seguire nella conduzione della ostilità, sia nella fase della preparazione del combattimento che per tutto la durata del combattimento stesso.

La regola fondamentale della distinzione trova origine, seppur non esplicitamente, nella dichiarazione di San Pietroburgo (1869) sulla rinuncia in tempo di guerra di proiettili esplosivi nella quale era affermato che il solo scopo legittimo che gli stati devono prefiggersi durante la guerra è l’indebolimento dell’esercito nemico. Il principio di distinzione si può dedurre anche dall’art. 25 della IV Convenzione dell’Aja concernente le leggi e gli usi della guerra per terra (1907) che vieta di “attaccare o bombardare con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi”.

Troviamo poi esplicitato questo principio nell’art. 48 I Protocollo del 1977, norma di apertura della Sezione dedicata alla protezione della popolazione civile, “Allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari[3]”.

Corollario di tale regola è l’obbligo per il belligerante di non impiegare armi, che per loro natura, non siano in grado di distinguere tra obiettivo militare e persone o beni civili.

Il dettato dall’art. 48 I Protocollo ha assunto valore di norma consuetudinaria; ciò è dimostrato da varie dichiarazione degli Stati stessi e dall’inserimento dell’obbligo di distinzione nei manuali di diritto bellico di Stati che non sono parte al I Protocollo. Gli Stati Uniti, per esempio, pur non essendo parte al I Protocollo del ’77, rispettano il dovere di distinzione. Il Dipartimento di difesa degli Stati Uniti ha richiamato espressamente l’art. 48 in un rapporto del 1992, presentato al Congresso statunitense, in merito alla conduzione della guerra contro l’Iraq del 1991.

Ancora, il manuale di diritto dei conflitti armati del Regno Unito del 2004 richiede che gli attacchi siano limitati agli obbiettivi miliari, seppur faccia discendere l’obbligo di non attaccare i beni civili dal principio di necessità militare.

L’obbligo di distinzione venne confermato dall’Assemblea Generale delle Nazione Unite in una risoluzione nel 1968, Risoluzione 2444 (XXIII)[4], nella quale si sottolinea che deve essere fatto valere in qualsiasi momento l’obbligo di distinzione tra le persone che partecipano all’ostilità e i membri della popolazione civile, al fine di risparmiare il più possibile quest’ultimi. Con la Risoluzione 1296 (2000)[5], adottata il 19 aprile 2000, dedicata alle problematiche derivanti dal coinvolgimento dei civili in situazioni di conflitto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riafferma il divieto di colpire civili e il divieto di incitare a colpire i civili.

 

I bombardamenti a tappeto e il divieto di attacchi indiscriminati

Bisogna inoltre sottolineare come la natura indiscriminata dei bombardamenti a tappeto, fa cadere tale metodo di combattimento in una ulteriore violazione, in riferimento al divieto di attacchi indiscriminati disciplinato all’51 I Protocollo, par. 4, “Sono vietati gli attacchi indiscriminati. Con l’espressione attacchi indiscriminati si intendono: a) quelli che non sono diretto contro un obiettivo militare determinato; b) quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento che non possono essere diretti contro un obiettivo militare determinato; o c) quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento i cui effetti non possono essere limitati, come prescrive il presente Protocollo; e che sono di conseguenza, in ciascuno di tali casi, atti a colpire indistintamente obiettivi miliari e persone civili o beni di carattere civile.[6]

Per attacchi indiscriminati si intendono quegli attacchi che sono di natura tale da colpire gli obiettivi militari e i civili o i beni di carattere civile senza alcuna distinzione.

In particolare, come vediamo dall’art. 51, un attacco può essere indiscriminato in tre casi:

  • per l’obiettivo scelto o per i mezzi impiegati. Si fa riferimento a quegli attacchi volti a colpire obiettivi non militari o che vengono attuati con mezzi non di precisione e quindi non in grado di colpire esclusivamente l’obiettivo militare prescelto.
  • quando l’obiettivo militare non è unico. Si intende quell’attacco che tratta come un unico obiettivo militare più obiettivi militari distanziati e distanti fra loro. In relazione a ciò, ad esempio, sono indiscriminati i bombardamenti a tappeto che sono stati effettuati durante la Seconda Guerra Mondiale dalle aviazioni statunitense e britanniche contro città nemiche, tramite il lancio di bombe a caduta libera.
  • infine, quando provoca perdite umane e danni collaterali eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto.

 

L’art. 51 del I Protocollo può essere letto in relazione all’art. 35 I Protocollo ’77 riguardante la regola fondamentale che un belligerante deve tenere in considerazione per scegliere quale metodo o mezzo di combattimento utilizzare; non vi è, infatti, libertà assoluta nella scelta dei mezzi e dei metodi di combattimento.

Tale norma serve da guida per indicare i criteri da dover rispettare:

  • Il divieto di uso di armi che provocano sofferenze inutili o mali superflui;
  • Il divieto dell’uso di armi che provocano effetti indiscriminati;
  • Il divieto di uso di armi perfide;
  • Il divieto di armi che provocano disastri ecologici.

 

I bombardamenti a tappeto e la guerra in Ucraina

Nonostante, come si è detto, i bombardamenti a tappeto siano contrari al diritto internazionale nella prassi questo metodo di combattimento viene frequentemente utilizzato.

Facendo riferimento al conflitto in corso possiamo vedere che la conduzione dell’ostilità da parte dei russi in Ucraina è stata, già dall’inizio, particolarmente indiscriminata come dimostra il bombardamento del teatro di Mariupol o delle acciaierie Azovstal; l’amministrazione ucraina, infatti, in entrambi i casi, aveva denunciato l’utilizzo di bombe a grappolo, vietate dalle convenzioni internazionali.

A principio di ottobre, però, l’esercito russo ha intensificato l’uso dei bombardamenti a tappeto per contrastare la resistenza ucraina. Il presidente francese Emmanuel Macron, ha affermato che i bombardamenti a tappeto sul territorio ucraino dimostrano un cambiamento profondo della natura della guerra; allo stesso modo il segretario generale delle Nazioni Uniti Antonio Guterres ha condannato i bombardamenti russi sull’Ucraina come una “escalation inaccettabile della guerra”.

Apparentemente questi bombardamenti a tappeto, in diverse regioni dell’Ucraina, sono la risposta all’esplosione, avvenuta l’8 ottobre, del ponte di Kerch, che collega la Russia alla Crimea, di grandissima importanza strategica per l’esercito russo perché veniva usato per il rifornimento dell’esercito. Nella realtà tali bombardamenti dimostrano quanto nelle guerre i civili rappresentano ormai obiettivi di grande importanza.

I bombardamenti sui centri abitati effettuati dall’esercito russo vogliono colpire il morale e la determinazione della popolazione in generale, cercando di indebolire la capacità di resistenza degli ucraini.

Informazioni

Cannone, Armi vietate diritto internazionale dei conflitti armati e crimini di guerra, Bari, 2013

Fornari, Nozioni di Diritto internazionale dei conflitti armati, Napoli, 2015

Il diritto internazionale umanitario: in breve http://www.dirittoconsenso.it/2022/09/26/il-diritto-internazionale-umanitario-in-breve/

Zagato, La protezione dei civili nei conflitti armati, in DEP. Deportate, esuli, profughe, 2010, pp. 222-243

[1] Il bombardamento di Guernica ha dato ispirazione al celebre dipinto di Pablo Picasso che compose il quadro, su commissione del governo repubblicano spagnolo, tra maggio e giugno 1937 ed esposto in occasione dell’Esposizione Internazionale di Parigi il 12 luglio del 37.

[2] Le prime importanti codificazioni le abbiamo con le conferenze dell’Aja (1899 e 1907), volte a regolamentare i metodi e i mezzi per condurre la guerra e le quattro Convenzioni di Ginevra (1949), volte a tutelare e proteggere gli individui che non partecipano all’ostilità. Le norme delle conferenze dell’Aja e di Ginevra hanno trovato poi la loro massima espressione nei due Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra, stipulati l’8 giugno del 1977.

[3] « En vue d’assurer le respect et la protection de la population civile et des biens de caractère civil, les Parties au conflit doivent en tout temps faire la distinction entre la population civile et les combattants ainsi qu’entre les biens de caractère civil et les objectifs militaires et, par conséquent, ne diriger leurs opérations que contre des objectifs militaires ».

[4] Respect for Human Rights in Armed Conflicts. Resolution 2444 (XXIII) of the United Nations General Assembly, 19 December 1968.

https://ihl-databases.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/Article.xsp?action=openDocument&documentId=7F99C549B16DF20BC12563CD0051D3BC

[5] Resolution 1296 (2000), adopted by the Security Council at its 4130th meeting, on 19 April 2000 https://digitallibrary.un.org/record/412414

[6] « Les attaques sans discrimination sont interdites. L’expression « attaques sans discrimination » s’entend : a) Des attaques qui ne sont pas dirigées contre un objectif militaire déterminé ; b) Des attaques dans lesquelles on utilise des méthodes ou moyens de combat qui ne peuvent pas être dirigés contre un objectif militaire déterminé ; où c) Des attaques dans lesquelles on utilise des méthodes ou moyens de combat dont les effets ne peuvent pas être limités comme le prescrit le présent Protocole ; Et qui sont, en conséquence, dans chacun de ces cas, propres à frapper indistinctement des objectifs militaires et des personnes civiles ou des biens de caractère civil. »