Società cooperativa

La società cooperativa

La società cooperativa è una società di capitali a scopo mutualistico, che presenta varie peculiarità rispetto agli altri modelli societari

 

La società cooperativa: breve inquadramento normativo

La società cooperativa è disciplinata dagli articoli 2511 e seguenti del Codice civile. Questa tipologia di società si inserisce nell’ampia trattazione che il Codice civile dedica alle società, all’interno del Libro Quinto. Rispetto alla tradizionale distinzione tra società di persone[1] e società di capitali, bisogna dire che le società cooperative si collocano nel novero delle società di capitali, nella misura in cui, anche per esse, delle obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il proprio patrimonio.

Di norma, alla società cooperativa possono essere applicate le norme relative alla società per azioni, in quanto compatibili e ove non espressamente derogate dalla disciplina specifica per le società cooperative. Talvolta, lo statuto può inoltre prevedere che alla società cooperativa si applichino altresì le disposizioni dedicate alla società a responsabilità limitata[2].

Sia le società di persone che le società di capitali sono accomunate da un medesimo fondamentale elemento: le stesse sono caratterizzate dalla finalità lucrativa, che le sorregge. Le società lucrative, secondo quanto dispone l’articolo 2247 c.c., hanno ad oggetto, da parte dei soci, l’esercizio di un‘attività in comune «allo scopo di dividerne gli utili».

Discorso diverso vale, invece, per la società cooperativa. L’articolo 2511 c.c. dispone che:

«Le cooperative sono società a capitale variabile con scopo mutualistico iscritte presso l’albo delle società cooperative di cui all’articolo 2512, secondo comma, e all’articolo 223 sexiesdecies delle disposizioni per l’attuazione del presente codice»

 

Da una prima lettura della norma, emerge con chiarezza un primo dato fondamentale: lo scopo della società cooperativa non è lucrativo, bensì mutualistico[3].

 

Lo scopo mutualistico della società cooperativa

Per meglio comprendere il significato e la portata della società cooperativa, è necessario preliminarmente chiarire il concetto di scopo mutualistico.

Anzitutto, va premesso che la legge non precisa l’esatto significato da attribuire a questa espressione.

Esso può desumersi, però, dal complesso della disciplina sulla società cooperativa. Al suo interno, difatti, è essenziale che i soci, c.d. soci cooperatori, ricevano un vantaggio dalla loro partecipazione alla società, il quale risiede:

  1. nell’essere diretti fruitori delle attività realizzate dalla società,
  2. che l’attività sociale della cooperativa si fondi sull’attività lavorativa dei soci cooperatori;
  3. che la cooperativa svolga la propria attività avvalendosi dei beni o servizi resi dai soci[4].

 

La prima di queste tre ipotesi è realizzata dalla c.d. società cooperativa di consumo.

Nel secondo caso si parla invece di società cooperativa di lavoro.

Infine, la terza ipotesi rientra nella società cooperativa di produzione o di trasformazione.

Un’ulteriore fonte di cui occorre fare cenno nella definizione del concetto di scopo mutualistico, da ultimo, è individuabile nella stessa Costituzione, precisamente al primo comma dell’articolo 45[5].

Ai soci cooperatori, in ogni caso, indipendentemente dalla tipologia di società cooperativa che viene in considerazione, deve corrispondere un vantaggio cooperativo. Lo stesso si sostanzia nel fatto che, talvolta:

  • la società distribuisce ai soci i beni o servizi prodotti ad un prezzo inferiore di quello di mercato,

oppure, in alternativa,

  • la società applica ai soci il prezzo di mercato sui propri beni o servizi, per poi restituire loro una somma di denaro. Tale somma, il c.d. ristorno, è vòlta a compensare la differenza tra il prezzo di mercato e quanto previsto dal rapporto mutualistico[6].

 

La mutualità pura, spuria e prevalente nella società cooperativa

La società cooperativa può essere ulteriormente distinta, al suo interno, nelle seguenti tipologie:

  • società a mutualità pura;
  • società a mutualità spuria;
  • società a mutualità prevalente.

 

Il criterio distintivo tra queste tipologie risiede nella gradazione della mutualità ad essa riferibile.

In particolare, nella società cooperativa a mutualità pura, può dirsi che la società non persegue minimamente alcuno scopo di lucro, realizzandosi pienamente in essa la finalità mutualistica.

Diversamente, nelle società a mutualità spuria vi è un leggero distanziamento rispetto alla mutualità pura, nella misura in cui è consentito alla società cooperativa di svolgere la propria attività anche con soggetti terzi rispetto ai soci stessi. Dato il discostamento dalla mutualità pura, però, per adottare il modello della mutualità spuria il Legislatore ha previsto che tale evenienza debba essere statutariamente prevista, ai sensi dell’art. 2521 comma 2 c.c.

La terza e ultima gradazione di mutualità, introdotta con la riforma del diritto societario del 2003, è la c.d. mutualità prevalente, oggi disciplinata dagli artt. 2512- 2514 c.c. Essa si realizza qualora la società cooperativa:

  1. realizzi la propria attività in maniera prevalente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi;
  2. prevalentemente si avvalga delle prestazioni lavorative dei soci nello svolgimento della propria attività;
  3. prevalentemente si avvalga, nello svolgimento della propria attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci.

 

Inoltre, è previsto all’ultimo comma dell’art. 2512 c.c. che la società cooperativa a mutualità prevalente sia iscritta ad un apposito albo, anche al fine di beneficiare, tra l’altro, di talune agevolazioni fiscali.

 

La costituzione della società cooperativa

A norma dell’articolo 2521 c.c., per costituire la società cooperativa occorre la forma dell’atto pubblico. L’articolo riporta poi una serie di indicazioni relative agli elementi essenziali che dovranno essere contenuti nell’atto costitutivo, ossia:

  1. i dati relativi ai soci, siano essi persone fisiche o giuridiche;
  2. la denominazione e il comune ove è posta la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
  3. la indicazione specifica dell’oggetto sociale con riferimento ai requisiti e agli interessi dei soci;
  4. la quota di capitale sottoscritta da ciascun socio, i versamenti eseguiti e, se il capitale è ripartito in azioni, il loro valore nominale;
  5. il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura;
  6. i requisiti e le condizioni per l’ammissione dei soci e il modo e il tempo in cui devono essere eseguiti i conferimenti;
  7. le condizioni per l’eventuale recesso o per la esclusione dei soci;
  8. le regole per la ripartizione degli utili e i criteri per la ripartizione dei ristorni;
  9. le forme di convocazione dell’assemblea, in quanto si deroga alle disposizioni di legge;
  10. il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri, indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società;
  11. il numero dei componenti del collegio sindacale;
  12. la nomina dei primi amministratori e sindaci;
  13. l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico delle società.

 

Lo statuto, invece, quale parte integrante dell’atto costitutivo, dovrà contenere le norme relative al funzionamento della società cooperativa.

 

Caratteristiche della società cooperativa

  1. Il numero di soci

Passando alla disciplina di dettaglio, il Codice civile fissa un numero minimo di soci necessari per la costituzione della società cooperativa: essi devono essere almeno in nove[7].

Se però, successivamente alla costituzione, il numero di soci divenga inferiore, lo stesso dovrà necessariamente essere integrato nel termine di un anno, trascorso il quale, ove non sia intervenuta la reintegra, la società cooperativa sarà sciolta e posta in liquidazione.

  1. Il capitale sociale

Con riguardo alla disciplina relativa al capitale sociale, occorre precisare che nella società cooperativa il capitale sociale è variabile, a differenza di quanto avviene nelle società di capitali di tipo lucrativo.

Di norma, infatti, l’ammontare preciso del capitale sociale è indicato nell’atto costitutivo.

La ragione che giustifica tale differenza risiede nel fatto che, per la società cooperativa, non è pensabile – in ragione della sua struttura e finalità – che ogni volta che si verifichi l’ingresso di un nuovo socio si debba intervenire alla modifica dell’atto costitutivo[8].

Pertanto, con la previsione del capitale sociale variabile, sarà più semplice consentire l’ingresso di nuovi soci nella società cooperativa.

  1. Requisiti dei soci

La definizione dei requisiti che devono essere posseduti dai soci che richiedono di essere ammessi alla società cooperativa è rimessa, a norma dell’art. 2527 c.c., all’atto costitutivo. Nello stesso è inoltre prevista la procedura che deve essere seguita per l’ammissione di nuovi soci.

Il codice dispone però una circostanza nella quale non è possibile essere ammessi: si tratta di coloro che esercitino in proprio imprese in concorrenza con quella della cooperativa.

Oltretutto, in ipotesi di diniego di ammissione, colui che non è stato ammesso avrà facoltà di richiedere che sulla sua istanza si pronunci l’assemblea[9].

Accanto ai soci cooperatori, in ogni caso, potranno essere ammessi – su previsione dell’atto costitutivo – a far parte della compagine sociale anche i c.d. soci finanziatori, ossia coloro che, sottoscrivendo strumenti finanziari emessi dalla società, al di fuori della finalità mutualistica della stessa, mirino alla remunerazione di quanto conferito. Ciò consente alla società cooperativa di acquisire importanti risorse finanziarie per la propria sopravvivenza sul mercato[10].

  1. Gli utili

La divisione degli utili tra i soci della società avviene attraverso due forme:

  1. tramite il dividendo;
  2. tramite il ristorno.

Questi due meccanismi, l’uno tipico delle società lucrative, l’altro più specifico delle società mutualistiche, sono previsti all’interno dell’atto costitutivo, al quale spetta peraltro il compito di determinare le regole per la distribuzione degli utili nonché i criteri per la ripartizione dei ristorni.

In particolare, l’articolo 2545 quinquies c.c. dispone che l’atto costitutivo indichi la percentuale massima della ripartibilità dei dividendi tra i soci.

L’articolo 2545 sexies c.c., dispone invece che l’atto costitutivo debba prevedere che i ristorni siano ripartiti tra i soci in maniera proporzionale alla quantità e qualità degli scambi mutualistici tra i soci e la società cooperativa[11].

  1. Il voto capitario

Quanto al voto dei soci nelle società cooperative, va detto che il socio non dispone di tanti voti in proporzione alla propria partecipazione, ma che ciascun socio ha un solo voto, indipendentemente dal valore della quota o del numero di azioni possedute. Si parla, in questo caso, di c.d. voto capitario.

  1. Quote o azioni

Le partecipazioni sociali della società cooperativa possono essere ripartite sia in quote che in azioni, a seconda che la disciplina che regola la società sia quella riferibile alle società a responsabilità limitata o alla società per azioni[12].

 

Gli organi sociali

  1. L’Assemblea

L’Assemblea nella società cooperativa si caratterizza per il fatto che il peso di ciascun socio in essa non è vincolato all’ammontare della sua partecipazione sociale.

Ad ogni persona fisica, difatti, corrisponde un voto soltanto, mentre ai soci che siano persone giuridiche, invece, possono essere assegnati più voti. Spetta all’atto costitutivo, invece, la facoltà di attribuire voti ai soci finanziatori[13].

Con riguardo al procedimento assembleare, si registrano alcune peculiarità:

  • l’atto costitutivo può prevedere differenti forme di convocazione della stessa rispetto a quelle previste per la società per azioni;
  • i quorum sia costitutivi che deliberativi vanno calcolati in base ai voti spettanti ai singoli soci e non in relazione alla loro partecipazione sociale;
  • la volontà assembleare può essere a formazione progressiva, ossia realizzarsi tramite il meccanismo delle assemblee separate[14].

 

  1. L’Amministrazione e controlli

Rispetto alla società per azioni, nella società cooperativa non si registrano significative differenze riguardo tanto agli amministratori quanto ai sindaci[15].

Va segnalata però la necessità che la maggioranza degli amministratori siano soci cooperatori.

Una prassi della società cooperativa è l’istituzione del collegio dei probiviri, quale ulteriore organo, al quale è affidata la risoluzione di eventuali controversie che dovessero sorgere tra socio e società[16].

Informazioni

A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019.

G. F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, UTET Giuridica, Milano, 2015.

[1] Per approfondimenti relativi alle società di persone, si veda l’articolo su DirittoConsenso, dal titolo “La costituzione di società semplice”, di Leonardo Rubera, 13 dicembre 2022, La costituzione di società semplice – DirittoConsenso.

[2] Ciò è previsto, in particolare, a talune condizioni, ossia nel caso in cui il numero di soci sia inferiore a venti o che l’attivo dello stato patrimoniale non superi il milione di euro. A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 1126.

[3] Peraltro, ai fini dell’accertamento dei requisiti mutualistici, la società cooperativa è soggetta a controlli dell’autorità governativa. G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, op. cit., p. 618.

[4] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 1125.

[5] «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità».

[6] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, op.cit., pp. 1125- 1126.

[7] Con la precisazione, però, che la società cooperativa possa essere costituita anche nel caso in cui vi siano almeno tre soci, quando i medesimi sono persone fisiche e la società adotti le norme della società a responsabilità limitata. (art. 2522, comma 2, c.c.)

[8] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, op.cit., pp. 1127.

[9] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, op.cit., pp. 1127.

[10] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, op.cit., pp. 1128.

[11] A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di Diritto Privato, op.cit., pp. 1127.

[12] G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, op. cit., p. 607.

[13] G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, UTET Giuridica, Milano, 2015, p. 614.

[14] Tale previsione può essere contenuta nell’atto costitutivo, fermo restando che nel caso vi siano più di 3.000 soci le assemblee separate sono obbligatorie. G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, op. cit., pp. 615-616.

[15] G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, op. cit., p. 616.

[16] G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto delle società, op. cit., p. 618.


Funzioni del curatore fallimentare

Le funzioni del curatore fallimentare

Quali sono le funzioni del curatore fallimentare? Spiegazione di compiti e ruoli di questo pubblico ufficiale

 

Breve inquadramento sul ruolo del curatore fallimentare

Il Regio Decreto n. 167 del 1942, ossia la c.d. “Legge Fallimentare”, disciplina il ruolo e le funzioni del curatore fallimentare. Difatti, assumono rilevo una serie di organi che operano nell’ambito di un fallimento, vale a dire:

  • il tribunale fallimentare;
  • il giudice delegato;
  • il comitato dei creditori;
  • il curatore fallimentare.

 

Con specifico riferimento alla figura del curatore fallimentare, una volta nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento[1], lo stesso assume la qualifica di pubblico ufficiale[2].

La nomina del curatore fallimentare, per diventare effettiva, deve poi essere accettata dallo stesso, entro i due giorni successivi: l’inosservanza di tale adempimento comporterà per il tribunale fallimentare il dover provvedere d’urgenza ad una nuova nomina.

La legge prevede che l’operato del curatore fallimentare, in ragione del suo ruolo e delle sue funzioni, sia retribuito. L’art. 39 l. fall. dispone infatti che il compenso e le spese che sono dovuti al curatore vengano liquidati su istanza di quest’ultimo, con decreto del tribunale non soggetto a reclamo; tale liquidazione avviene dopo l’approvazione del rendiconto. Inoltre, il tribunale ha facoltà di concedere, per giustificati motivi, acconti al curatore stesso.

 

Le funzioni del curatore fallimentare: quali sono?

Al curatore fallimentare la legge attribuisce numerosissimi compiti e funzioni.

Anzitutto, le funzioni del curatore fallimentare devono essere esercitate personalmente da quest’ultimo, anche se allo stesso è data la possibilità di delegare specifiche operazioni ad altri, previa autorizzazione del comitato dei creditori. Inoltre, sempre attraverso il vaglio del comitato dei creditori, il curatore fallimentare può «farsi coadiuvare da tecnici o da altre persone retribuite, compreso il fallito, sotto la sua responsabilità»[3].

Le funzioni del curatore fallimentare sono rappresentate essenzialmente dalla gestione della procedura fallimentare. Ai sensi dell’Art. 31 l. fall., «Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite».

Di seguito verranno suddivise e analizzate le principali funzioni del curatore fallimentare.

  1. Le comunicazioni

Il curatore fallimentare è tenuto ad effettuare tutte le comunicazioni in corso di procedura, sia ai creditori che ai titolari di diritti sui beni posti a carico del curatore stesso, tramite l’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) assegnato al Fallimento. Solo in casi eccezionali il curatore effettua le proprie comunicazioni mediante deposito in cancelleria.

 

  1. Partecipazione al procedimento di nomina del Comitato dei Creditori

Entro 30 giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento il curatore è tenuto a fornire al giudice delegato le proprie indicazioni relativamente alla nomina del comitato dei creditori. Egli deve, infatti, segnalare i nominativi dei creditori, o altri soggetti da questi designati, che avessero dato disponibilità a ricoprire l’incarico, nonché di tutti gli altri creditori risultanti tali allo stato, con indicazione dei relativi crediti e, immediatamente dopo la nomina del comitato dei creditori da parte del giudice delegato, deve convocare i componenti di tale organo affinché si riuniscano entro dieci giorni al fine di accettare la carica e designare il Presidente[4].

 

  1. Operazioni relative allo stato passivo

Tra le funzioni del curatore fallimentare va senza dubbio considerato l’accertamento dello stato passivo. Dopo aver redatto l’inventario sui beni, il curatore è tenuto, ai sensi dell’art. 92 l. fall., a comunicare senza indugio ai creditori e ai titolari di diritti sui beni (di proprietà o in possesso) del fallito, la data fissata per l’esame dello stato passivo, assieme ad ogni altra informazione utile per la presentazione della domanda di ammissione allo stato passivo, ai sensi dell’art. 93 l. fall.

Una volta ricevute le insinuazioni al passivo tramite pec da parte dei creditori ed esaminate tali domande, il curatore predispone apposito progetto di stato passivo, ossia un elenco dei creditori e titolari di diritti sui beni di proprietà o in possesso del fallito, rassegnando per ciascuno una conclusione motivata. Dopodiché il curatore deposita il progetto di stato passivo con relative domande presso la cancelleria del tribunale, almeno 15 giorni prima dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo. Inoltre, lo trasmette anche ai creditori e ai titolari di diritti sui beni di proprietà o in possesso del fallito, affinché possano eventualmente presentare osservazioni scritte.

Il curatore fallimentare è tenuto a partecipare all’esame dello stato passivo e, una volta rilasciata la dichiarazione di esecutività dello stato passivo, deve trasmetterne copia a tutti i ricorrenti, informando coloro che sono risultati esclusi della possibilità di proporre opposizione allo stato passivo, ex art. 98 l. fall.

Tale descritto procedimento si applica anche alle domande di insinuazione tardiva e ultratardiva[5].

Infine, qualora il curatore preveda che non possa essere distribuito attivo ad alcun creditore che abbia presentato domanda[6], può proporre una istanza al tribunale fallimentare, corredata da parere del comitato dei creditori e relazione sulle prospettive di liquidazione, affinché il tribunale disponga il non farsi luogo del procedimento di accertamento del passivo.

 

  1. Redazione del programma di liquidazione

Entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario, e non oltre 180 giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento, il curatore deve predisporre il c.d. programma di liquidazione, ossia l’atto con il quale egli pianifica tutte le attività che andranno svolte per la realizzazione dell’attivo inerenti alla vendita di beni mobili e immobili, all’esercizio di diritti, al recupero dei crediti ed a qualsiasi altra azione che conduca al realizzo di risorse finanziarie. Data la rilevanza e la delicatezza di questa attività, quest’ultima non rientra tra quelle delegabili a terzi.

 

  1. Relazioni ex articolo 33 l. fall.

L’articolo 33 l. fall. disciplina una tra le più importanti funzioni del curatore fallimentare: si tratta infatti della redazione di una relazione particolareggiata al giudice delegato e specifici rapporti riepilogativi, entro 60 giorni[7] dalla dichiarazione di fallimento:

  • sulle cause e circostanze del fallimento;
  • sulla diligenza spiegata dal fallito nell’esercizio dell’impresa;
  • sulla responsabilità del fallito o di altri;
  • su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminariin sede penale.

 

La relazione deve inoltre contenere l’indicazione degli atti del fallito che siano già stati impugnati dai creditori, oltre a quelli che il curatore stesso intende impugnare. Nel caso specifico di società, poi, la relazione dovrà trattare anche delle responsabilità dell’organo amministrativo, dell’organo di controllo, dei soci e delle persone eventualmente estranee alla società.

Con cadenza semestrale, il curatore dovrà poi redigere dei rapporti riepilogativi sulle attività svolte successivamente alla prima relazione, integrati con un rendiconto sulla sua gestione.

Allo stesso compete poi trasmettere una copia di detta documentazione, sia al comitato dei creditori, i quali possono formare osservazioni scritte, sia al registro delle imprese, assieme alle eventuali osservazioni, in via telematica ed entro 15 giorni dalla scadenza per il deposito delle osservazioni presso la cancelleria del tribunale. Da ultimo, altra copia del rapporto deve essere trasmessa ai creditori ammessi e ai titolari di diritti sui beni del fallito.

 

  1. Redazione del rendiconto e del piano finale di riparto

Al termine della liquidazione dell’attivo il curatore fallimentare deve presentare al giudice delegato un rendiconto della propria attività, nel quale espone analiticamente le operazioni contabili dell’attività gestoria della procedura fallimentare. Tale rendiconto dove poi essere depositato presso la cancelleria del tribunale, e successivamente il curatore comunicherà ai creditori sia il deposito del rendiconto che la data d’apposita udienza fissata dal giudice delegato.

Il curatore dovrà, ogni 4 mesi dalla data di esecutività dello stato passivo, presentare inoltre un progetto di riparto parziale, ossia un progetto avente ad oggetto la ripartizione del ricavato dell’attivo ai creditori, con il quale viene indicata la misura in cui questi verranno soddisfatti. Tale progetto si compone di due parti essenziali:

  • un prospetto delle somme complessive disponibili;
  • un prospetto di ripartizioni delle stesse tra i creditori.

 

Una volta approvato il rendiconto e liquidato il compenso, il curatore deve depositare un piano di riparto finale[8].

 

  1. Adempimenti di natura fiscale

Tutte le sopra elencate funzioni del curatore fallimentare sono corredate da altri adempimenti di natura specificamente fiscale.

 

Reclamo contro gli atti del curatore e revoca dello stesso

Le funzioni del curatore fallimentare, così come i doveri connessi al suo ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, devono essere adempiuti con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico. Egli deve tenere un registro, preventivamente vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, per annotarvi giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione.

Contro gli atti di amministrazione del curatore è possibile, da parte del fallito o di ogni altro interessato, proporre reclamo al giudice delegato per violazione di legge, nei termini di cui all’art. 36 l. fall. Il giudice delegato provvede, sentite le parti, con decreto motivato.

Qualora fosse accolto un reclamo contro un comportamento omissivo del curatore, egli è tenuto a dare esecuzione al provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Inoltre, il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d’ufficio, revocare il curatore; il tribunale provvede con decreto motivato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori.

Durante il fallimento l’azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori.

Il curatore che cessa dal suo ufficio, anche durante il fallimento, deve rendere il conto della gestione ai sensi dell’art. 116.

 

Le funzioni del curatore fallimentare nel nuovo C.C.I.

Il decreto legislativo n. 14 del 2019, ufficialmente entrato in vigore il 15 luglio 2022, anche detto Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza, ha apportato una serie di innovazioni alle funzioni del curatore fallimentare.

Tra i profili di novità riguardo alla sua figura, sinteticamente, vi è la previsione di un albo apposito di coloro che siano destinati a svolgere le funzioni di curatore fallimentare, commissario giudiziale o liquidatore[9].

In relazione alle sue funzioni, e con particolare riferimento alle attività di cui all’art. 33 l. fall., è stata in larga parte mantenuta la disciplina previgente, anche se sono ora previsti nuovi obblighi informativi in capo al curatore, tra cui l’obbligo, entro 30 giorni dall’apertura della procedura, di presentare al giudice delegato una relazione contenente informazioni sugli accertamenti compiuti e sugli elementi acquisiti circa le cause dell’insolvenza e l’eventuale responsabilità del debitore, degli amministratori o degli organi di controllo della società soggetta a liquidazione giudiziale[10], ai sensi dell’art. 130 CCI.

Al curatore compete inoltre la redazione di un’ulteriore relazione, da rendersi entro 60 giorni dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, sulla sussistenza di responsabilità del debitore o di terzi.

Informazioni

REGIO DECRETO N. 167 DEL 1942.

DECRETO LEGISLATIVO N. 14 DEL 2019.

D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019.

[1] Per approfondimenti relativi allo stato di insolvenza, si veda l’articolo su DirittoConsenso Lo stato di insolvenza, di Leonardo Rubera, 16 dicembre 2021, Lo stato di insolvenza – DirittoConsenso.

[2] L’art. 28 l. fall., in particolare, disciplina i requisiti di cui deve essere in possesso il curatore fallimentare, specificando anche le relative incompatibilità con questo incarico.

[3] Articolo 32 l. fall.

[4] D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019.

[5] Con le domande di insinuazione tardiva si fa riferimento a quelle proposte decorsi trenta giorni dall’udienza dello stato passivo ed entro dodici mesi dal decreto di esecutorietà dello stesso. Con le domande di insinuazione ultratardiva si fa riferimento a quelle proposte oltre il termine per presentare quella tardiva e sino all’esaurimento dell’attivo fallimentare, ma sono ammissibili unicamente se dovute a causa non imputabile al creditore che la propone. D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019.

[6] Salva comunque la soddisfazione dei crediti prededucibili e delle spese di procedura.

[7] Tale termine di sessanta giorni non è considerato perentorio in considerazione del fatto che non esiste una espressa statuizione in tal senso.  D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019.

[8] D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019

[9] Coloro che hanno diritto di iscriversi a tale albo devono essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 358 CCI, comma 1, lett. a), b) e c). D. FICO, Curatore fallimentare: ruolo e funzioni, IlFallimentarista.it, 10.07.2019


Concessione abusiva del credito

La concessione abusiva del credito

Per concessione abusiva del credito si intende sia una concessione di somme erogate sia la continuazione di linee di credito, a privati o a imprese, qualora le condizioni patrimoniali ed economiche dei finanziati e le prospettive di restituzione siano di fatto incerte

 

La nozione di concessione abusiva del credito e fonti normative

La concessione abusiva del credito è una figura giuridica di creazione giurisprudenziale, in quanto non espressamente normata da parte del legislatore. La stessa prende le mosse, in realtà, dai principi generali in materia di attività bancaria per la concessione del credito, ed in particolare:

  • dal principio di diligenza e professionalità altamente qualificata ai sensi dell’articolo 1176 c.c.;
  • dal principio di prudente e sana gestione del credito e dell’attività bancaria.

 

Tra le fonti che hanno consentito la creazione della concessione abusiva del credito quale fattispecie giuridica vi è anche l’articolo 124 bis del TUB (Testo Unico Bancario, D.Lgs. 385/1993), il quale impone alle banche la regola della preventiva valutazione del c.d. merito creditizio da parte, oltre che del consumatore quale persona fisica, anche delle imprese per la concessione, il rinnovo e il mantenimento del credito. Parimenti contenuto nel TUB, è l’articolo 10 ai sensi del quale l’attività bancaria è ispirata ai principi di correttezza e lealtà contrattuale, quali corollari della buona fede[1].

La definizione che si ricava, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della concessione abusiva del credito è pertanto sia di una concessione di somme erogate sia la continuazione di linee di credito, a privati o a imprese, qualora le condizioni patrimoniali ed economiche dei finanziati e le prospettive di restituzione siano di fatto incerte[2].

La motivazione di fondo di tale figura giuridica può perciò rinvenirsi nella tutela della regolare concessione del credito, per la quale si rende necessario contrastare i finanziamenti concessi dalle banche a soggetti che vedrebbero, in questo modo, aumentare la propria esposizione debitoria e ridurre il proprio patrimonio fino a giungere ad uno stato di decozione tale da giustificare l’apertura di procedure concorsuali e/o da sovraindebitamento, a danno dei creditori[3]. Difatti, la concessione abusiva del credito ha, quali effetti:

  1. l’aggravamento del dissesto finanziario nel quale già versa il soggetto finanziato;
  2. l’occultamento di tale stato di crisi economica a terzi creditori, i quali, tratti in inganno da una solo apparente affidabilità e solidità economica, pongono in essere rapporti e attività contrattuali con un soggetto in realtà non in grado di farvi fronte.

 

La concessione abusiva del credito viene ricondotta, seppur non all’unanimità, alla categoria della responsabilità extracontrattuale, nei confronti dei creditori.

Di tipo contrattuale, sarà invece la responsabilità nei confronti del soggetto finanziato da parte della banca che abbia realizzato una indebita prosecuzione di un finanziamento[4].

 

Breve inquadramento storico e sviluppi della concessione abusiva del credito

Come anticipato, la concessione abusiva del credito è una fattispecie di matrice giurisprudenziale. In realtà, essa viene fatta discendere dapprima dalla giurisprudenza francese, poi in séguito importata in Italia dalla dottrina degli anni Settanta. La prima pronuncia, però, alla quale essa pare riconducibile, è individuabile nella sentenza della Corte di Cassazione del 13 gennaio 1993, n. 343.

Da tale prima decisione, che ha ritenuto in quella sede una banca responsabile ex art. 2043 c.c. per l’omissione di cautele nell’erogazione del credito, ha tratto ispirazione la giurisprudenza degli anni successivi, la quale si è adoperata per delineare gli elementi costitutivi della fattispecie[5]. Tali elementi, pertanto, sono stati individuati come segue:

  • in una condotta, dolosa o colposa, consistente nel sovvenzionare un imprenditore in stato di insolvenza;
  • il ritardo conseguente nella dichiarazione di fallimento del soggetto finanziato (quale ad esempio una società, che grazie all’abusiva concessione del credito rimane artificiosamente in vita);
  • il nesso di causalità tra i su menzionati elementi[6].

 

Affinché l’erogazione del credito sia qualificata come ingiusta è necessario che l’attività contrattuale realizzata dalla banca sia di fatto abusiva (ossia, come anticipato, contraria ai principi che disciplinano il merito creditizio) e che l’imprenditore – o la società – finanziati siano in uno stato di insolvenza irreversibile, e non già in una condizione di mera e generica “crisi”[7].

In relazione, invece, al criterio di imputazione della responsabilità in capo alla banca concedente, benché dapprima discusso se fosse richiesto esclusivamente il dolo per integrare una concessione abusiva del credito, si è poi convenuto per una interpretazione estensiva che facesse assumere rilievo anche alle erogazioni colpose di crediti. La colpa, in questo caso, risiede nel mancato rispetto di una serie di cautele prodromiche alla salvaguardia di interessi non solo di carattere privatistico, la cui mera inosservanza è idonea di per sé a generare una responsabilità[8].

Infine, il nesso di causalità tra i suddetti elementi consiste nella prova che, qualora l’attività imprenditoriale non fosse proseguita- grazie al finanziamento- la situazione patrimoniale di grave dissesto del soggetto finanziato non si sarebbe aggravata, senza pregiudicare ulteriormente i creditori dello stesso[9].

 

I soggetti danneggiati dalla concessione abusiva del credito

I soggetti danneggiati dalla concessione abusiva del credito possono essere indubbiamente individuati nei terzi creditori del soggetto finanziato, i quali, per effetto del finanziamento concesso:

  1. vedono ridotta la propria aspettativa di soddisfazione del credito, qualora siano creditori antecedenti alla concessione;
  2. si trovano a vantare crediti verso un soggetto con il quale non avrebbero mai contrattato, qualora siano creditori successivi alla concessione[10].

 

Un ulteriore soggetto danneggiato dall’operazione è ravvisabile inoltre nel finanziato, depauperato del proprio patrimonio: in capo allo stesso, a seguito della concessione del credito, sorgono difatti le obbligazioni di corresponsione di interessi, rimborsi spese e restituzione del capitale, con evidenti ripercussioni sul suo patrimonio[11]. Tuttavia, la qualificazione del finanziato quale soggetto altrettanto danneggiato, oltre ai suoi creditori, non è unanime in dottrina, in quanto esiste una corrente di pensiero la quale osserva come in realtà, tale soggetto, sia qualificabile come co-attore nella realizzazione della condotta abusiva[12].

 

La legittimazione del curatore fallimentare all’azione risarcitoria

Oggetto di particolare e acceso dibattito in giurisprudenza è l’aspetto specificamente legato alla legittimazione del curatore fallimentare, successivamente subentrato una volta dichiarato il fallimento del soggetto finanziato, all’azione risarcitoria nell’interesse dei creditori concorsuali.

Un primo orientamento è stato infatti posto a sostegno della tesi per la quale la richiesta di risarcimento per un danno derivante da fatto illecito ex art. 2043 non fosse riconducibile alle azioni di massa[13], ossia le uniche per le quali, ai sensi dell’art. 146 l. fall. il curatore è legittimato ad agire in giudizio. Secondo tale orientamento, non si trattava propriamente di un danno per l’intero ceto creditorio, bensì limitato unicamente ad una parte dei creditori. A corroborare questa tesi sono intervenute, nel 2006, le Sezioni Unite della Cassazione, con le c.d. sentenze gemelle[14]. Con tali pronunce, ancora una volta, la Corte ha difatti escluso che l’azione risarcitoria contro le banche potesse essere qualificata quale azione di massa, escludendo, di conseguenza, la legittimazione del Curatore fallimentare ad esercitarla.

Uno spiraglio in termini di mutamento di tale monolitico orientamento è stato offerto nel 2010, quando la Cassazione, pur rigettando un ricorso proposto dalla curatela fallimentare avverso sentenza che le aveva negato legittimazione all’azione risarcitoria, ha tuttavia riconosciuto la legittimazione ad agire in un caso specifico, ossia quello per il quale questa agisse al fine di far valere il risarcimento del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, senza che potesse assumere rilievo il mancato esercizio dell’azione anche contro l’amministratore infedele[15].

Nel 2017, ancora, la Cassazione è intervenuta nuovamente sul solco della pronuncia n. 3431/2010, riconoscendo la legittimazione del curatore fallimentare ad agire ai sensi dell’art. 146 l. fall., in relazione all’art. 2393 c.c., nei confronti della banca, ove questa sia qualificabile quale terzo corresponsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto della concessione abusiva del credito all’amministratore della società[16].

Da ultimo, con la sentenza della Cassazione del 30 giugno 2021, n. 18610, la Corte ha qualificato definitivamente l’azione risarcitoria contro le banche esercitata dal Curatore al posto dei creditori concorsuali quale azione di massa, applicando analogicamente le previsioni di cui all’art. 146 l. fall.[17].

 

Rilievi penalistici della concessione abusiva del credito

Bisogna infine fare menzione del rilevo penalistico che talvolta assume la concessione abusiva del credito. L’attività della banca, difatti, è qualificabile come penalmente rilevante ogni qualvolta tale concessione del credito sia posta a fondamento per la commissione di reati fallimentari, nonché qualora la banca conceda o mantenga una linea di credito verso un soggetto di cui sarà dichiarato il fallimento[18].

Tramite questa condotta si realizzerà di conseguenza una mistificazione in danno ai creditori, consentendo all’imprenditore o agli amministratori di dilatare i tempi per azionare le procedure concorsuali, e aggravando il dissesto dell’impresa.

Alla banca potranno pertanto essere addebitati, tra gli altri, delitti quali la bancarotta semplice[19], ex art. 217 l. fall., o la bancarotta fraudolenta, ex art. 216 l. fall.

Rilevante al tal proposito sarà vagliare la sussistenza di una consapevolezza o meno da parte della banca dello stato di dissesto dell’impresa cui ha concesso il credito[20]. Oltre a tale consapevolezza sul dissesto, infine, occorre verificare un ulteriore elemento vòlto a fondare la responsabilità penale: la rappresentazione o prevedibilità di un danno in capo ai creditori[21].

Informazioni

IL CONTRATTO BANCARIO E LA TUTELA DEL CONSUMATORE: PROBLEMATICHE E PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI, A. Tanza- S. Ruberti, Giappichelli Editore, Torino, 2020;

Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di A. Bissi, in Ridare.it, fasc. 18 gennaio 2022;

Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110;

CRISI DELL’IMPRESA E ABUSIVA CONCESSIONE DEL CREDITO, L. Balestra, in Giurisprudenza Commerciale, 1, 2013, p. 109 ss.

[1] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, A. Tanza- S. Ruberti, Giappichelli Editore, Torino, 2020, pp. 204 e 205.

[2] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 205.

[3] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 205.

[4] Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di A. Bissi, in Ridare.it, fasc. 18 gennaio 2022.

[5] Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110.

[6] Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110.

[7] Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110.

[8] Crisi dell’impresa e abusiva concessione del credito, L. Balestra, in Giurisprudenza Commerciale, 1, 2013, p. 109 ss.

[9] Crisi dell’impresa e abusiva concessione del credito, L. Balestra, in Giurisprudenza Commerciale, 1, 2013, p. 109 ss.

[10] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 206.

[11] Crisi dell’impresa e abusiva concessione del credito, L. Balestra, in Giurisprudenza Commerciale, 1, 2013, p. 109 ss.

[12] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 206.

[13] Tali azioni hanno per presupposto la lesione della garanzia patrimoniale del debitore, la quale deve pertanto essere reintegrata a beneficio dei creditori dello stesso indistintamente.

[14] Si fa riferimento, in particolare, alle pronunce Cass. Sez. un., 28 marzo 2006, n. 7029; Cass., Sez. un., 28 marzo 2006, n. 7030; Cass. Sez. un., 28 marzo 2006, n. 7031.

[15] Cass. 1° giugno 2010, n. 13413.

[16] Cass. 20 aprile 2017, n. 9983.

Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110.

[17] Non sono mancate, tuttavia, opinioni contrarie in dottrina a tale mutato orientamento, tacciato di incoerenza e di mancanza di ragionamento giuridico sotteso al riconoscimento di una tale legittimazione in capo al curatore.

Nota a sentenza Cassazione civile, 30 giugno 2021, n. 18610, sez. I, di I. D’Anselmo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2022, pag. 1110.

[18] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 212.

[19] Per approfondimenti relativi al reato di bancarotta, si veda l’articolo su DirittoConsenso Il reato e le tipologie di bancarotta, di Valeriya Topolska, 12 aprile 2021, Il reato e le tipologie di bancarotta – DirittoConsenso.

[20] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. pp. 212-213.

[21] Il contratto bancario e la tutela del consumatore: problematiche e profili sostanziali e processuali, op. cit. p. 213.


Fatto illecito

Fatto illecito e responsabilità extracontrattuale in breve

Breve analisi dei singoli presupposti costituenti la responsabilità conseguente un fatto illecito, e sue specifiche variazioni

 

Il fatto illecito quale fonte di responsabilità extracontrattuale

A differenza della responsabilità di tipo contrattuale, il cui presupposto per l’esistenza è la sussistenza di un rapporto di tipo obbligatorio tra le parti, la responsabilità extracontrattuale sorge a prescindere dall’esistenza di un tale rapporto obbligatorio sottostante.

La responsabilità extracontrattuale è disciplinata all’interno del Codice civile dall’articolo 2043 all’articolo 2059.

L’articolo 2043 del codice civile, rubricato “Risarcimento per fatto illecito”, rappresenta appunto la principale fonte normativa con riferimento al fatto illecito. Lo stesso, difatti, così dispone: « qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.».

Tale norma deve necessariamente essere letta congiuntamente ad un altro articolo contenuto nel medesimo titolo del Codice civile, ossia l’art. 2046 c.c.[1], che disciplina l’imputabilità del fatto dannoso. Da ciò deriva che i principali elementi su cui si fonda la responsabilità extracontrattuale da fatto illecito sono i seguenti:

  • il fatto illecito;
  • l’imputabilità del fatto ad un danneggiante e l’elemento soggettivo, ossia il dolo o la colpa del danneggiante;
  • il nesso causale tra il fatto e l’evento dannoso;
  • il danno[2].

 

La responsabilità che, pertanto, discende dalla commissione di un fatto illecito ad opera di un soggetto danneggiante è altrimenti conosciuta anche come responsabilità aquiliana, dalla Lex Aquilia de damno che già in epoca romana disciplinava la responsabilità da fatto illecito.

 

Gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale:

  1. Il fatto illecito

Preliminarmente, occorre precisare che per “fatto” si intende ciò che cagiona il danno: può trattarsi di

  • un comportamento dell’uomo, sia come condotta commissiva (consistente in un fare), sia come condotta omissiva[3] (consistente in un non fare);
  • un mero fatto materiale, quale ad esempio un fatto naturale, pur sempre imputabile ad un soggetto (si pensi ad esempio al crollo di un cornicione dovuto ad una mancata manutenzione del palazzo).

 

In alcune ipotesi, poi, è la legge stessa a provvedere ad indicare un determinato fatto quale illecito. Si pensi ad esempio all’articolo 2600 c.c., a norma del quale è tenuto al risarcimento del danno chiunque ponga in essere atti di concorrenza sleale[4].

Gli illeciti civili, comunque, a differenza di quelli penali, si caratterizzano per la loro atipicità, enunciata proprio dal citato articolo 2043, il quale menziona qualunque fatto, che cagioni un danno ingiusto. Per aversi danno ingiusto, sarà poi necessario che si tratti di un danno cagionato da atto antigiuridico: di conseguenza, naturalmente, non ogni danno subìto potrà essere considerato risarcibile[5].

Infine, per aversi risarcibilità del danno, il fatto, oltre a dover essere contra ius, dovrà essere anche non iure, ossia non commesso nell’esercizio di un diritto in capo al danneggiante, né realizzato con la sussistenza di una causa scriminante quale la legittima difesa (ex art. 2044 c.c.) o lo stato di necessità (ex art. 2045 c.c.).

 

  1. L’elemento soggettivo e imputabilità

Dell’imputabilità del fatto illecito verso un soggetto c.d. danneggiante si è già detto menzionando l’articolo 2046 c.c. Sul punto, in via di sintesi, basti precisare che in capo al soggetto danneggiante non è necessaria la sussistenza della capacità d’agire, essendo sufficiente che al momento della commissione del fatto illecito lo stesso fosse capace di intendere e di volere.

Nell’eventualità in cui il soggetto in questione sia incapace, la responsabilità per danno da fatto illecito ricadrà su colui che aveva il dovere di sorveglianza dell’incapace, dando luogo ad un’ipotesi di c.d. responsabilità per fatto altrui[6] (o responsabilità indiretta, su cui si dirà oltre).

Per ciò che concerne specificamente l’elemento soggettivo, ossia il dolo o la colpa in capo al soggetto danneggiante, si tratta:

  • in caso di dolo, di atto commesso con l’intenzionalità della condotta, pur rilevando anche il solo dolo eventuale[7];
  • in caso di colpa, di atto commesso con negligenza, imprudenza o imperizia.

 

La prova della sussistenza dell’elemento soggettivo è posta in capo al soggetto che richiede il risarcimento del danno, ossia al danneggiato (rappresentando pertanto una inversione dell’onere della prova rispetto a quanto accade nella responsabilità contrattuale, nella quale è il debitore a dover provare di aver adempiuto all’obbligazione, e non il creditore).

Si è accennato, in precedenza, alla c.d. responsabilità indiretta per fatto illecito, intendendosi con essa una forma di responsabilità sussistente anche in capo ad un soggetto diverso dall’effettivo danneggiante. Tale specifica forma di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, difatti, detta anche responsabilità per fatto altrui, si aggiunge a quella “diretta” del danneggiante: in tal modo il danneggiato potrà contare sia sul patrimonio del danneggiante che su quello di un altro soggetto.

Ma chi sono i soggetti che possono essere chiamati a rispondere per un fatto illecito altrui?

A tal proposito, le forme di responsabilità indiretta previste dal codice civile sono le seguenti:

  • danno cagionato dall’incapace (art. 2047 c.c.);
  • responsabilità dei genitori, tutori, precettori e maestri d’arte (art. 2048 c.c.);
  • responsabilità dei padroni e committenti (art. 2049 c.c.).

 

Alla responsabilità di tipo indiretto, si aggiunge la c.d. responsabilità oggettiva da fatto illecito. Questa ulteriore forma di responsabilità extracontrattuale rappresenta una variante di quella sopra esposta disciplinata dall’art. 2043. Difatti, nella responsabilità oggettiva non è presente, in capo al danneggiante, alcun elemento soggettivo, ossia né dolo né colpa.

A tal proposito, è lo stesso Codice civile che contempla varie ipotesi di responsabilità oggettiva, talvolta configurati anche responsabilità indiretta[8], le quali si articolano in:

  • danno cagionato dall’incapace (art. 2047 c.c.);
  • responsabilità dei genitori, tutori, precettori e maestri d’arte (art. 2048 c.c.);
  • responsabilità dei padroni e committenti (art. 2049 c.c.);
  • responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.);
  • danno cagionato da cose in custodia (art. 2051 c.c.);
  • danno cagionato da animali (art. 2052 c.c.);
  • danno da rovina da edificio (art. 2053 c.c.);
  • danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

 

La funzione di tali previsioni è quella che garantire un possibile risarcimento in capo ad un soggetto danneggiato per una serie di attività, da cui possono scaturire danni, che siano già in origine qualificate come potenzialmente dannose, potenzialità di danno che peraltro non viene eliminata neppure con l’adozione di ogni ragionevole misura preventiva e cautelare. Di qui, perciò, la necessità di tutelare ugualmente i soggetti esposti ai rischi connessi a tali attività/fattispecie[9].

Da ultimo, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, del danno saranno chiamate a rispondere tutte queste, secondo il principio di responsabilità solidale enunciato all’art. 2055 c.c.

 

  1. Il nesso causale tra l’evento lesivo e il fatto illecito

Affinché possa configurarsi un diritto al risarcimento in capo al soggetto danneggiato, è necessario che sussista un nesso di causalità tra il fatto e l’evento lesivo. In altri termini, occorre che l’evento lesivo in questione sia riconducibile alla condotta del soggetto danneggiante, ossia che la sua condotta sia la causa dell’evento lesivo.

Se è vero che tendenzialmente un evento lesivo è frutto di una serie di concause, ossia non è mai riconducibile ad un’unica condotta o fatto, è altrettanto vero che, giuridicamente, devono essere ritenute quali cause di un evento, le sole condotte senza il cui apporto tale evento non si sarebbe verificato, assumendo la qualifica di c.d. condicio sine qua non[10] di quell’evento[11].

La metodologia necessaria per verificare se una determinata condotta effettivamente assurga a condicio sine qua non è quella di cercare di ricostruire la fattispecie indagando se, in assenza di quella condotta o fatto, l’evento dannoso si sarebbe ugualmente verificato.

Talvolta però, a causa delle innegabili difficoltà che possono sorgere in relazione a tale attività di ricostruzione degli eventi, è necessario accontentarsi di un criterio un po’ meno “rigoroso”: la giurisprudenza, difatti, ha negli anni fatti ricorso al concetto di “più probabile che non”, per verificare la sussistenza del nesso causale. In questo modo, ciò che viene richiesto per ritenere realizzato tale presupposto per la responsabilità extracontrattuale è non tanto la certezza che senza quella condotta l’evento non si sarebbe verificato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma la semplice probabilità di ciò[12].

 

  1. Il danno

Un ultimo e necessario presupposto ai fini della sussistenza della responsabilità extracontrattuale è il danno. Non sarebbe ammissibile alcun risarcimento, difatti, in mancanza di un danno effettivo subìto dal danneggiato. Il danno deve essere inteso come un pregiudizio subìto da un soggetto, ovvero una alterazione negativa della sua situazione allo stato precedente la verificazione del fatto illecito[13].

Il danno, in particolare, può essere suddiviso in una duplice tipologia, ossia:

  • il danno patrimoniale;
  • il danno non patrimoniale.

 

Il danno patrimoniale viene ad esistenza qualora l’alterazione negativa della situazione del danneggiato allo stato precedente la verificazione del fatto illecito sia di natura patrimoniale, vale a dire suscettibile di una valutazione economica. Il danno patrimoniale, a sua volta, consta di due componenti, che sono il c.d. danno emergente (da intendersi come diminuzione del patrimonio del danneggiato) e il c.d. lucro cessante (da intendersi come mancato guadagno che il danneggiante avrebbe conseguito senza l’illecito subìto)[14].

Il danno non patrimoniale, invece, espressamente previsto dall’art. 2059 c.c., si configura come un tipo di danno privo di connotazione economica propria. Esso deve intendersi sussistente solo nei casi previsti dalla legge, ossia ai sensi dell’art. 185 co. 2 del codice penale[15] e in caso di danno morale soggettivo (da intendersi quest’ultimo quale turbamento dell’animo, disagio o dolore psichico conseguente all’illecito)[16].

Vi è da dire, a tal proposito, che la giurisprudenza si è negli anni adoperata per estendere il concetto di danno non patrimoniale anche ad ulteriori fattispecie, a fronte della ristrettezza della previsione dell’art. 2059 c.c. In particolare, significative sono le c.d. sentenze “gemelle” dell’11 novembre 2008 (o sentenze di San Martino)[17]: quattro Sezioni Unite della corte di Cassazione che hanno ammesso il danno non patrimoniale in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili della persona[18], come riconosciuti dalla Costituzione.

Si tenga presente, in ogni caso, che il danno non patrimoniale non è mai presunto, essendo al contrario oggetto di onere probatorio da parte di chi ne asserisce l’esistenza, anche tramite presunzioni semplici.

 

Il risarcimento

All’accertamento dell’esistenza di tutti i presupposti conseguirà un probabile risarcimento del danno, il quale potrà articolarsi in:

  • risarcimento per equivalente[19];
  • risarcimento in forma specifica[20].

 

La scelta tra le due alternative è rimessa al danneggiato, salvo che la seconda tipologia non sia più realizzabile: si ricorrerà allora al risarcimento per equivalente.

Informazioni

MANUALE DI DIRITTO PRIVATO, A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, GIUFFRÈ EDITORE, MILANO, 2017

CODICE CIVILE

[1] L’articolo 2046 così dispone: «Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d’intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa.».

[2] Manuale di Diritto Privato, A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Giuffrè Editore, Milano, 2017, p. 916.

[3] Per la sussistenza di una condotta c.d. omissiva, è necessario che sussistano determinati presupposti, ossia che la condotta in questione venga realizzata sia in violazione di un obbligo giuridico di intervenire, che in violazione delle regole di diligenza e correttezza.

Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 916.

[4] Manuale di Diritto Privato, op. cit., p. 918.

[5] Sul punto, vi è una copiosissima giurisprudenza, tesa negli anni a comprendere nel novero di atto ingiusto una vasta categoria di situazioni, dal c.d. danno da inadempimento, al danno da lesione di interesse legittimo. Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 920.

[6] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 928.

[7] A differenza del dolo diretto, questa fattispecie di dolo si verifica allorchè il danneggiante agisca e cagioni un danno non necessariamente con quello specifico fine, essendo sufficiente che lo stesso si sia rappresentato l’eventuale danno quale conseguenza della sua condotta, accettandone il possibile accadimento.

[8] Le citate ipotesi di responsabilità indiretta idonee ad essere qualificate anche come ipotesi di responsabilità oggettiva vengono fatte rientrare anche in quest’ultima categoria in forza del fatto che la difficile prova liberatoria che deve essere resa per essere esenti da responsabilità finisce in concreto per assimilare queste ipotesi alla responsabilità, appunto, oggettiva.

[9] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 933.

[10] Che significa, appunto, dal latino, condizione indispensabile a (…).

[11] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 942.

[12] All’opposto, pertanto, di quanto continua ad avvenire in àmbito penalistico, nel quale per pervenire ad una condanna è richiesta la soddisfazione del criterio dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”.

[13] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 954.

[14] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 958.

[15] A norma del quale ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento.

[16] Manuale di Diritto Privato, op.cit., p. 958.

[17] A queste si aggiungano le sentenze della Cassazione di San Martino del 2019, tornate a pronunciarsi sul tema del danno non patrimoniale.

[18] Per approfondimenti relativi al danno non patrimoniale di creazione giurisprudenziale, si veda l’articolo su DirittoConsenso.it di Vittoria Rondana, Il risarcimento del danno tanatologico, 22 febbraio 2022, http://www.dirittoconsenso.it/2022/02/22/il-risarcimento-del-danno-tanatologico/

[19] Avviene tramite la corresponsione, dal danneggiante al danneggiato, di una somma di denaro del valore equivalente alla lesione del patrimonio subìto.

[20] Consiste nell’obbligazione per il danneggiante di ricostituire la situazione esattamente com’era prima del danno conseguente al fatto illecito.


Imposta di donazione

L'imposta di donazione

Breve inquadramento e analisi sull’imposta di donazione: tra presupposti, soggetti passivi e franchigie

 

I presupposti dell’imposta di donazione

L’imposta sulle successioni e donazioni è un tributo di tipo indiretto[1] che ha ad oggetto un incremento patrimoniale che si realizza in capo ad un soggetto, in relazione a fattispecie traslative non onerose[2]. Posto che per “fattispecie traslative non onerose” si fa riferimento a fattispecie i cui effetti siano il trasferimento di proprietà di beni senza il pagamento di un corrispettivo o il trasferimento di diritti senza una controprestazione, tutte le volte che un soggetto si arricchisce ad esempio a seguito dell’accettazione di un’eredità, o a seguito di una donazione, tale arricchimento è soggetto al pagamento dell’imposta sulle successioni e donazioni.

Attualmente, la disciplina di riferimento dell’imposta sulle donazioni è contenuta all’interno dei TUSD, il Testo Unico sulle Successioni e Donazioni, ossia il d. lgs. 346/1990 come integrato dal d.lgs. 226/2006.

Proprio all’interno del TUSD sono contenuti i presupposti su cui si fonda l’imposta sulle successioni e donazioni, che si articolano in:

  • trasferimenti di beni e diritti per causa di morte;
  • trasferimento di beni e diritti per donazione o per atti a titolo gratuito;
  • la costituzione di vincoli di destinazione, intesi come negozi idonei ad imprimere un vincolo di destinazione su un patrimonio (vi rientrano ad esempio la categoria dei trust)[3].

 

Poiché l’elaborato in questione verte specificamente sull’imposta di donazione, ci si concentrerà in via esclusiva sul secondo dei suddetti presupposti.

Con riguardo al trasferimento di beni e diritti per donazione o per atti a titolo gratuito occorre precisare che tra questi rientrano, appunto, sia le donazioni ex articolo 769 del Codice civile, sia le liberalità atipiche (o non donative), sia gli atti privi di una controprestazione[4].

Ulteriore rilevante elemento da considerare nell’analisi dell’imposta di donazione è la territorialità. Difatti, il TUSD all’articolo 2 afferma che tale imposta “è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all’estero. Se alla data dell’apertura della successione o a quella della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti.[5].

 

I soggetti passivi dell’imposta di donazione

L’articolo 5 comma 1 del TUSD dispone che “l’imposta è dovuta dagli eredi e dai legatari per le successioni, dai donatari per le donazioni e dai beneficiari per le altre liberalità tra vivi.” Perciò, i soggetti passivi che vengono in rilievo per l’imposta di donazione sono:

  • i donatari;
  • i beneficiari

 

Una responsabilità verso il pagamento del tributo in oggetto, poi, si configura inoltre nei confronti del pubblico ufficiale che ha redatto, ricevuto o autenticato l’atto, per l’imposta di donazione che sia dovuta su atti pubblici o scritture private autenticate.

Facendo un esempio pratico, Tizio e Caio si recano dinanzi a Sempronio, notaio, per effettuare la donazione di un immobile. Posto che è Caio, il donatario, ad essere tenuto al pagamento del tributo in quanto soggetto passivo, anche Sempronio, notaio rogante, sarà responsabile per il pagamento dello stesso qualora Caio non adempia, fermo restando il diritto di Sempronio di rivalersi su Caio per il recupero di quanto versato.

Mentre per l’imposta sulle successioni sorge un obbligo solidale degli eredi verso il pagamento del tributo nell’ammontare complessivo dovuto da loro e dai legatari, non può dirsi lo stesso con altrettanta chiarezza nel caso delle donazioni o altre liberalità inter vivos. Difatti, nessuna norma prevede espressamente un obbligo solidale al pagamento del tributo da parte dei soggetti da cui questo è dovuto.

Assume rilievo però la circostanza per la quale le donazioni sono soggette a tassazione secondo le disposizioni del testo unico sull’imposta di registro: di conseguenza, risulteranno applicabili anche ad esse le norme che prevendono la solidarietà di tutte le parti contraenti, nonché del pubblico ufficiale rogante verso il pagamento delle imposte relative ai singoli atti. Pertanto, pare potersi configurare anche nel caso dell’imposta sulle donazioni una responsabilità solidale tra codonatari[6].

Vero è però, come si è accennato nell’esempio precedente, che sia il pubblico ufficiale che il donante sono qualificabili unicamente come meri responsabili d’imposta, potendo questi sempre esercitare un diritto di rivalsa sul beneficiario/ donatario, il quale resta l’effettivo soggetto passivo per questo tributo.

 

La base imponibile dell’imposta di donazione e le franchigie

Nell’imposta sulle donazioni, la base imponibile della stessa è calcolata prendendo in considerazione il valore globale dei beni e dei diritti, determinato ai sensi delle prescrizioni del TUSD, al netto degli oneri di cui è gravato il beneficiario.

Vi sono, poi, ai sensi del TUSD, anche una serie di beni e diritti per i quali non sussiste il requisito della territorialità, e beni e diritti per i quali sono previsti esenzioni ed esclusioni.

In particolare:

  1. per quanto riguarda le esenzioni, significative sono quelle volte a favorire il passaggio generazionale d’impresa o societario, sia attraverso i trasferimenti mortis causa che, appunto, inter vivos, di aziende o rami di esse, così come di azioni o quote sociali, a favore di discendenti o coniuge;
  2. per quanto riguarda le esclusioni, invece, vi rientrano quei beni che siano espressamente non compresi nella base imponibile, ai sensi dell’articolo 12 del TUSD[7].

 

Le franchigie, invece, rappresentano dei limiti quantitativi entro i quali il trasferimento è escluso dall’imposizione[8]. Difatti, il grado di parentela intercorrente tra soggetti che effettuano la donazione è rilevante ai fini della quantificazione del tributo da versare.

Le franchigie che rilevano nell’imposta di donazione sono le seguenti:

  • per le donazioni tra coniugi e tra parenti in linea retta è prevista una franchigia di un milione di euro e si applica un’aliquota del 4%;
  • per le donazioni tra fratelli e sorelle vi è una franchigia di centomila euro e un’aliquota del 6%;
  • per le donazioni tra parenti sino al quarto grado e affini sino al terzo grado non si applica alcuna franchigia, mentre è prevista un’aliquota del 6%,
  • per le donazioni tra altri soggetti non è prevista alcuna franchigia, me vi è un’aliquota dell’8%.

 

Qualora il beneficiario sia portatore di un handicap grave, e indipendentemente dal suo grado di parentela con il donante, l’imposta di donazione trova applicazione esclusivamente per la parte eccedente la franchigia di un milione e mezzo di euro[9].

Le donazioni di valore inferiore alla franchigia non sono soggette al pagamento dell’imposta, e non è dovuta nemmeno l’imposta di registro sulle stesse.

All’opposto, qualora l’imposta sia dovuta ma non venga regolarmente versata (omissione o incompletezza), sono previste delle sanzioni[10] sia per il donante che per il donatario[11].

 

Il coacervo

Il legislatore ha previsto anche l’eventualità che un soggetto, per eludere il versamento dell’imposta di donazione, potesse effettuare una pluralità di donazioni verso lo stesso soggetto tutte di valore inferiore a quello previsto dalla franchigia di riferimento.

Per evitare l’instaurazione di questo meccanismo, è previsto il cosiddetto coacervo: tramite questo sistema, per determinare la franchigia applicabile alla donazione, e quindi capire se l’imposta di donazione sia effettivamente dovuta, occorre sommare il valore della donazione effettuata al valore delle precedenti donazioni effettuate tra gli stessi soggetti, in epoca anteriore[12].

Ciò significa, facendo un esempio, che se Tizio, padre, vuole donare a Caio, figlio, beni per un valore complessivamente superiore a un milione di euro (franchigia di riferimento per donazioni tra parenti in linea retta), e per eludere il pagamento dell’imposta di donazione effettua tante piccole donazioni di tali beni in momenti diversi, tali donazioni saranno nel complesso tutte ugualmente soggette al pagamento del tributo per effetto del coacervo, stante il carattere elusivo di tali donazioni frammentate.

Va precisato, infine, che tale istituto è stato abrogato per quanto riguarda l’imposta sulle successioni, mentre lo si ritiene ancora in vigore per l’imposta di donazione.

Tuttavia, vi sono state pronunce in giurisprudenza[13] che hanno precisato come il coacervo non conteggi anche le donazioni antecedenti che siano “fiscalmente irrilevanti”, ossia poste in essere nel periodo storico nel quale tale tributo era stato abrogato[14] o in quanto esenti[15].

Informazioni

Testo Unico sulle Successioni e Donazioni

CARINCI, T. TASSANI, MANUALE DI DIRITTO TRIBUTARIO, GIAPPICHELLI EDITORE, 2020, TORINO

SOGGETTI PASSIVI NELL’IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI, PUBBLICATO IL 14.05.2016 -AGGIORNATO IL 29.11.2019- CONSULTATO IL 16.08.2022, https://www.dirittiadirotto.com/

LA LEGGE PER TUTTI, COS’È LA FRANCHIGIA SULLE DONAZIONI, PUBBLICATO IL 12.04.2021 – CONSULTATO IL 16.08.2022, https://www.laleggepertutti.it/

A. MAURO, COACERVO ANCORA APPLICABILE NELL’IMPOSTA SULLE DONAZIONI, PUBBLICATO IL 28.01.2021- CONSULTATO IL 16.08.2022, https://www.eutekne.info/Sezioni/Art_818568_coacervo_ancora_applicabile_nell_imposta_sulle_donazioni.aspx#:~:text=L%E2%80%99istituto%20del%20coacervo%2C%20abrogato%20per%20l%E2%80%99imposta%20sulle%20successioni%2C,periodo%20di%20soppressione%20dell%E2%80%99imposta%20o%20in%20quanto%20esenti.

[1] Con il concetto di tributo indiretto si fa riferimento ad un tipo di tributo nel quale la forza economica rilevante ai fini dell’imposizione è data, in via appunto indiretta, da cosiddetti fatti-indice che siano in grado di disvelare la capacità economica di un soggetto. Pertanto, per questi tipi di tributi, la ricchezza viene colpita indirettamente, ad esempio tramite il consumo o trasferimento di ricchezza.

[2] A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, Giappichelli Editore, 2020, Torino, p. 187.

[3] A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, op. cit., p. 187.

[4] Esclusi dal novero di atti soggetti all’imposta sono invece le donazioni o liberalità che siano relative a spese non soggette a collazione (ad esempio spese di mantenimento) e spese relative a donazioni di modico valore, in A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, op. cit., p. 187.

[5] Articolo 2 del TUSD, commi 1 e 2.

[6] Soggetti passivi nell’imposta sulle successioni e donazioni, pubblicato il 14.05.2016 – aggiornato il 29.11.2019- consultato il 16.08.2022, https://www.dirittiadirotto.com/soggetti-passivi-nellimposta-sulle-successioni-donazioni/

[7] 1. Non concorrono a formare l’attivo ereditario:

a) i beni e i diritti iscritti a nome del defunto nei pubblici registri, quando è provato, mediante provvedimento giurisdizionale, atto pubblico, scrittura privata autenticata o altra scrittura avente data certa, che egli ne aveva perduto la titolarità, salvo il disposto dell’art. 10;

b) le azioni e i titoli nominativi intestati al defunto, alienati anteriormente all’apertura della successione con atto autentico o girata autenticata, salvo il disposto dell’art. 10;

c) le indennità di cui agli articoli 1751, ultimo comma, e 2122 del Codice Civile e le indennità spettanti per diritto proprio agli eredi in forza di assicurazioni previdenziali obbligatorie o stipulate dal defunto;

d) i crediti contestati giudizialmente alla data di apertura della successione, fino a quando la loro sussistenza non sia riconosciuta con provvedimento giurisdizionale o con transazione;

e) i crediti verso la Stato, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e di assistenza sociale, compresi quelli per rimborso di imposte o di contributi, fino a quando non siano riconosciuti con provvedimento dell’amministrazione debitrice;

f) i crediti ceduti allo Stato entro la data di presentazione della dichiarazione della successione;

g) i beni culturali di cui all’art. 13, alle condizioni ivi stabilite;

h) i titoli del debito pubblico, fra i quali si intendono compresi i buoni ordinari del tesoro e i certificati di credito del tesoro, ivi compresi i corrispondenti titoli del debito pubblico emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo;

i) gli altri titoli di Stato, garantiti dallo Stato o equiparati, ivi compresi i titoli di Stato e gli altri titoli ad essi equiparati emessi dagli Stati appartenenti all’Unione europea e dagli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo, nonché ogni altro bene o diritto, dichiarati esenti dall’imposta da norme di legge;

l) i veicoli iscritti nel pubblico registro automobilistico.

[8] A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, op. cit., p. 191.

[9] A. Carinci, T. Tassani, Manuale di diritto tributario, op. cit., p. 192.

[10] Per approfondimenti relativi alle sanzioni per debiti tributari, si veda l’articolo su DirittoConsenso “La prescrizione dei debiti tributari”, di Virginia Schlegel, 17 novembre 2021, http://www.dirittoconsenso.it/2021/11/17/prescrizione-dei-debiti-tributari

[11] La legge per tutti, Cos’è la franchigia sulle donazioni, pubblicato il 12.04.2021 – consultato il 16.08.2022, https://www.laleggepertutti.it/484283_cose-la-franchigia-sulle-donazioni

[12] La legge per tutti, Cos’è la franchigia sulle donazioni, pubblicato il 12.04.2021 – consultato il 16.08.2022, https://www.laleggepertutti.it/484283_cose-la-franchigia-sulle-donazioni

[13] In particolare, si fa riferimento alla pronuncia 727 del 19 gennaio 2021 della Corte di Cassazione.

[14] Con la legge n. 383 del 2001, all’art. 13, l’imposta sulle successioni e donazioni era stata infatti abrogata, per poi essere reintrodotta tramite il d.l. 262/2006, art. 2 comma 47, convertito nella l. 286/2006.

[15] A. Mauro, Coacervo ancora applicabile nell’imposta sulle donazioni, pubblicato il 28.01.2021- consultato il 16.08.2022, https://www.eutekne.info/Sezioni/Art_818568_coacervo_ancora_applicabile_nell_imposta_sulle_donazioni.aspx#:~:text=L%E2%80%99istituto%20del%20coacervo%2C%20abrogato%20per%20l%E2%80%99imposta%20sulle%20successioni%2C,periodo%20di%20soppressione%20dell%E2%80%99imposta%20o%20in%20quanto%20esenti.


Quote sociali in regime di comunione di beni

Le quote sociali in regime di comunione di beni

Breve inquadramento sulla sorte delle quote sociali in regime di comunione dei beni: quando sono escluse dalla comunione e quando invece entrambi i coniugi ne sono contitolari?

 

La comunione dei beni tra coniugi: come funziona?

Secondo il Codice civile, il regime legale patrimoniale tra coniugi è dato dalla comunione dei beni[1]. L’articolo 177 comma 1 del Codice civile, nel disciplinare la comunione dei beni, dispone che “costituiscono oggetto della comunione:

  • gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
  • i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
  • i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
  • le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.”.

 

Accanto a questo articolo, che costituisce la regola generale di riferimento, è necessario fare menzione anche dei due articoli successivi, i quali disciplinano invece le eccezioni al regime di comunione legale tra coniugi.

L’articolo 178 c.c., difatti, disciplina la c.d. comunione de residuo, ossia la comunione nella quale rientrano beni che sono destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente: tali beni si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.

Infine, l’articolo 179 c.c. disciplina i beni che restano comunque esclusi dalla comunione, ossia beni che restano strettamente personali al coniuge. Tra questi, appare rilevante evidenziarne alcuni, tra cui:

  • i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
  • i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione.

 

Alla luce di tale preliminare disamina, passiamo ora ad analizzare la gestione di un particolare bene: le quote sociali in regime di comunione dei beni.

 

Le quote sociali in regime di comunione dei beni: come si qualificano?

Durante la vigenza della comunione dei beni, può ben darsi che uno dei due coniugi acquisti delle quote sociali. In tali casi, occorre svolgere una riflessione con riguardo alla sorte di questa particolare tipologia di bene: può dirsi che tale acquisto, in forza della vigenza della comunione dei beni, ricada nel patrimonio comune dei coniugi? O potrebbero, al contrario, qualificarsi tali quote come beni personali e pertanto esclusi dalla comunione?

Certamente, si potranno qualificare come esclusivamente personali quelle quote sociali che siano frutto di acquisto antecedentemente al matrimonio, ma anche quelle che, in vigenza della comunione dei beni, derivino da un testamento o da una donazione.

Un’altra ipotesi nella quale, pure in vigenza di comunione dei beni, le quote sociali acquistate restano di proprietà esclusiva di uno dei due coniugi è quella nella quale l’acquisto avviene menzionando espressamente uno solo dei due coniugi nell’atto di acquisto.

Diversamente dalle ipotesi sopra menzionate, l’acquisto di quote sociali in regime di comunione dei beni apre un duplice scenario a seconda che si verifichino una serie di condizioni:

  • rientrano nella comunione dei beni tra coniugi le quote sociali che siano acquistate a scopo di investimento, ossia non direttamente funzionali allo svolgimento della propria professione imprenditoriale, e le quote che comportino per l’acquirente una responsabilità limitata;[2]
  • rientrano invece nella comunione de residuo quelle quote sociali acquistate da un coniuge proprio per lo svolgimento della propria attività di impresa, oppure che diano adito ad una responsabilità in forma illimitata[3].[4].

 

L’ingresso delle quote sociali in regime di comunione dei beni all’interno della comunione de residuo ha come conseguenza, come si è già anticipato, che le stesse saranno sotto l’esclusiva disponibilità del coniuge che le ha acquistate per tutta la vigenza della comunione, salvo poi, al momento di un eventuale scioglimento della stessa, far sorgere in capo all’altro coniuge un diritto di credito che sia pari alla metà del valore delle quote stesse[5].

A titolo esemplificativo, poniamo il caso che Tizio acquisti delle quote sociali di una s.n.c. (che è una società che prevede una responsabilità illimitata per i soci). Tali quote, aventi un valore di €.100.000 rimarranno di proprietà di Tizio per tutta la durata della comunione dei beni che lo stesso ha con Caia, sua coniuge. Qualora la comunione dovesse cessare, in capo a Caia sorgerà un diritto di credito verso Tizio pari ad €.50.000, ossia la metà del valore delle quote sociali, poiché le stesse, facenti parte della comunione de residuo, al momento dello scioglimento diverranno per il 50% di proprietà anche di Caia.

 

Una particolare tipologia di quote: le quote di S.r.l.

Per le quote di società a responsabilità limitata[6] si sono posti in passato, in dottrina e in giurisprudenza, problematiche relative alla loro qualifica. In particolare, ad oggi un orientamento della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di poter assimilare queste tipologie di quote ai beni immateriali equiparati, ex articolo 812 del Codice civile, ai beni mobili materiali, e pertanto seguenti la relativa disciplina[7].

Occorre osservare, inoltre, che per questa tipologia di quote sociali lo statuto della società potrebbe contenere un’apposita clausola volta proprio alla limitazione – o all’esclusione – della trasferibilità di tali quote ad altri soggetti che soci non siano già: questa circostanza resta però comunque estranea all’ipotesi di quote sociali in regime di comunione dei beni, poiché in tali casi il coniuge è divenuto contitolare delle quote proprio per effetto della comunione legale stessa.

Tale contitolarità andrà però distinta dall’esercizio dei diritti sociali: questi non sono estesi ad entrambi i coniugi, restando appannaggio esclusivo del coniuge acquirente. Per l’altro coniuge l’unico modo per vedersi estesa questa prerogativa è rappresentato dalla propria legittimazione verso la società tramite iscrizione nel Registro delle Imprese[8].

 

E in caso di donazione indiretta?

Come si è già anticipato nel presente articolo, la donazione di quote sociali in regime di comunione dei beni rientra in quelle casistiche che consentono di escludere le stesse dalla comunione, restando pertanto queste all’interno del patrimonio personale del ricevente.

Un aspetto particolare, a lungo dibattuto soprattutto in giurisprudenza, riguarda le quote sociali che siano frutto di donazione non già diretta, bensì indiretta. La donazione indiretta, non espressamente disciplinata dal Codice civile, la si potrebbe definire come un negozio indiretto, a titolo di liberalità”.

Tale negozio, al pari della donazione, consiste nell’arricchimento di un soggetto a fronte dell’impoverimento di un altro.

Talvolta, si verifica nella prassi che quote sociali in regime di comunione dei beni siano oggetto di donazione indiretta da un soggetto verso uno dei due coniugi. Tale ipotesi viene ad esempio in rilievo quando, anziché effettuare una donazione diretta di quote sociali, venga effettuata da un soggetto, per spirito di liberalità, una donazione di denaro finalizzata all’acquisto successivo di quote sociali. Tali quote, sebbene acquistate, sono frutto di una donazione indiretta da parte del soggetto che ha fornito il denaro volto all’acquisto delle stesse.

Sulla sorte di tali quote, ossia se rientranti nella comunione dei beni o se escluse dalla stessa, si è molto dibattuto.

Una tesi risalente sosteneva che in situazioni di questo tipo dovesse prevalere una sorta di favor communionis, ossia una predilezione per l’ingresso delle quote nella comunione dei beni. Sempre secondo tale orientamento, l’articolo 179 c.c. si sarebbe dovuto leggere in chiave restrittiva, ossia considerando la donazione ivi menzionata esclusivamente come diretta, non rilevando altri tipi di negozi giuridici[9].

In tempi successivi la giurisprudenza di legittimità ha mutato il proprio orientamento, arrivando a statuire che “non sussiste un’ontologica incompatibilità della donazione indiretta con la norma dell’articolo 179 lett. b) c.c., sicché il bene oggetto di essa non deve necessariamente rientrare nella comunione legale”[10].

Ad oggi, pertanto, può certamente sostenersi che la donazione ai sensi dell’articolo 179 c.c. debba essere intesta in senso estensivo, di modo che possa rientrarvi anche la donazione indiretta.

Informazioni

F. Galgano, Manuale di diritto privato, CEDAM, Wolters Kluwer, Milano, 2017

Codice civile

[1] Il regime alternativo è invece rappresentato dalla separazione dei beni, la quale, per operare, dovrà essere espressamente scelta dai coniugi.

[2] Le società la cui responsabilità dei soci è limitata sono le seguenti:

– società per azioni;

– società a responsabilità limitata;

– società in accomandita semplice o in accomandita per azioni, con esclusivo riferimento però ai soci accomandanti.

[3] Tale circostanza si verifica qualora le quote siano riferite alle seguenti tipologie di società:

– società in nome collettivo;

– società in accomandita semplice o in accomandita per azioni, con esclusivo riferimento ai soci accomandatari.

[4] Si veda, in proposito, “Coniugi e partecipazioni societarie”, Avv. M. Napolitano, online, http://www.avvocatomarconapolitano.it/2019/11/16/coniungi-partecipazioni-societarie/

[5] Sul punto, vedasi “Cosa accade quando un coniuge in regime di comunione legale dei beni acquista quote societarie?”, Dott. D. Boraldi e Avv. C. Modonesi, online,  https://www.radio5punto9.it/2020/11/03/legge-cosa-accade-quando-un-coniuge-in-regime-di-comunione-legale-dei-beni-acquista-quote-societarie/

[6] Per approfondimenti relativi alle società a responsabilità limitata, si veda l’articolo su DirittoConsenso “La società a responsabilità limitata unipersonale” di Elena Wang, 12 marzo 2021, La società a responsabilità limitata unipersonale – DirittoConsenso.

[7] “Cosa accade quando un coniuge in regime di comunione legale dei beni acquista quote societarie?”, Dott. D. Boraldi e Avv. C. Modonesi, online,  https://www.radio5punto9.it/2020/11/03/legge-cosa-accade-quando-un-coniuge-in-regime-di-comunione-legale

[8] Ibidem

[9]Il rapporto tra donazione indiretta e la comunione dei beni”, T. Di Palma, in Rivista Familia, online, https://www.rivistafamilia.it/2019/05/15/rapporto-la-donazione-indiretta-la-comunione-dei-beni/

[10] Cass. civ., 8 maggio 1998 n. 4680.


Pratiche commerciali ingannevoli

Le pratiche commerciali ingannevoli

Le pratiche commerciali ingannevoli sono una sottocategoria delle pratiche commerciali scorrette, e come tali represse e sanzionate dall’ordinamento

 

La natura delle pratiche commerciali ingannevoli e fonti normative

Una pratica commerciale è, in senso generico, qualsiasi condotta adottata o attività posta in essere da un imprenditore (o professionista[1]) per promuovere, vendere o fornire un proprio prodotto ai consumatori[2]. Per tutelare adeguatamente i consumatori[3], in merito all’adeguatezza di tali pratiche e al loro corretto ed ordinato svolgimento, si è resa necessaria però una puntuale regolamentazione.

Difatti, in ottemperanza alla direttiva 84/450/CEE, è stato emanato nel 1992 in D. lgs. N. 74, il quale è poi stato aggiornato nel D. lgs n. 145/2007, per ciò che attiene specificamente alla pubblicità ingannevole e alla pubblicità comparativa illecita.

Tale emanazione normativa ha costituito una prima cornice di tutela per i consumatori dalle pratiche commerciali ingannevoli, stante l’inadeguatezza della già presente normativa sulla concorrenza sleale. Essa infatti è posta a tutela non già dei consumatori e delle proprie scelte, ma del corretto svolgimento della concorrenza tra gli stessi imprenditori. La normativa sulle pratiche commerciali, invece, sebbene dapprima frammentata, è stata poi riunita ed integrata sotto il cappello di una più generale regolamentazione volta a reprimere le pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori, ossia dagli articoli dal 18 al 27 quater del Codice del Consumo[4].

In definitiva, pertanto, ad oggi la tutela dei consumatori dalle pratiche commerciali illecite è specificamente disposta dall’ordinamento statale, e le condotte dei professionisti sono valutate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[5] (c.d. AGCM), in qualità di controllo amministrativo[6].

Le pratiche commerciali scorrette, che l’ordinamento ha interesse a reprimere, sono pertanto caratterizzate da due elementi principali, che devono sussistere cumulativamente:

  • esse sono non conformi al grado di diligenza che il consumatore può legittimamente attendersi essere adottato da parte del professionista, in violazione del principio di buona fede e correttezza;
  • esse sono idonee a falsare le scelte che i consumatori compiono, ossia idonee ad indurre il consumatore medio a compiere scelte commerciali che altrimenti non avrebbe effettuato[7].

 

Il Codice del Consumo, nel rapportarsi alle pratiche commerciali scorrette, individua due gruppi distinti in cui queste possono categorizzarsi. In particolare, costituiscono pratiche commerciali scorrette:

  • le pratiche commerciali ingannevoli;
  • le pratiche commerciali aggressive.

 

La definizione di pratica commerciale ingannevole

La categoria delle pratiche commerciali ingannevoli, che rientra nel più ampio novero delle pratiche commerciali scorrette, può essere qualificata come l’insieme di pratiche che sono idonee a trarre il consumatore medio in errore circa elementi essenziali del prodotto che si sta promuovendo o vendendo, e pertanto possono indurlo ad assumere decisioni commerciali che altrimenti non avrebbe assunto[8].

A tal proposto è proprio il Codice del Consumo stesso, all’articolo 21, che offre una specifica definizione di tale condotta, disponendo difatti che “è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.[9].

Alcuni degli elementi essenziali di un prodotto che vengono qui in considerazione, ai sensi dell’art. 21 del Codice del Consumo, sono:

  • le caratteristiche principali di un prodotto, tra cui la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore, ecc…;
  • il prezzo o il modo in cui questo è calcolato;
  • la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione;
  • le qualifiche e i diritti del professionista e la portata dei suoi impegni, oltre alla motivazione della pratica commerciale;
  • i diritti del consumatore.

 

Il comma due dell’articolo 21 cod.cons. prosegue poi disponendo che sono altresì qualificate come ingannevoli le pratiche commerciali che generino, in capo al consumatore medio, una confusione tra prodotti, marchi, segni distintivi o denominazione sociale di un concorrente, da valutarsi in base al caso concreto, o che comportino da parte del professionista una violazione del codice di condotta che lo stesso è tenuto a rispettare.

Sono altresì considerate pratiche commerciali ingannevoli anche le c.d. omissioni ingannevoli, disciplinate dettagliatamente all’articolo 22 del Codice del Consumo. Le omissioni ingannevoli consistono in una omissione di informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole di natura commerciale, inducendolo così ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso; le omissioni ingannevoli sono oltretutto realizzate quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui si è detto.

 

L’articolo 23 del Codice del Consumo

Sebbene non esista un elenco chiuso e tassativo di tali pratiche commerciali ingannevoli, per agevolarne l’individuazione, il Legislatore all’articolo 23 del Codice del Consumo ha offerto una elencazione di alcune condotte che si considerano in ogni caso pratiche commerciali ingannevoli.

A titolo esemplificativo, se ne riportano di seguito alcune:

  • affermazione non rispondente al vero, da parte di un professionista, di essere firmatario di un codice di condotta;
  • esibire un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione;
  • asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta;
  • invitare all’acquisto di prodotti ad un determinato prezzo e successivamente: rifiutare di mostrare l’articolo pubblicizzato ai consumatori, oppure rifiutare di accettare ordini per l’articolo o di consegnarlo entro un periodo di tempo ragionevole, oppure fare la dimostrazione dell’articolo con un campione difettoso, con l’intenzione di promuovere un altro prodotto;
  • dichiarare, contrariamente al vero, che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo sufficiente per prendere una decisione consapevole;
  • avviare, gestire o promuovere un sistema di promozione a carattere piramidale nel quale il consumatore fornisce un contributo in cambio della possibilità di ricevere un corrispettivo derivante principalmente dall’entrata di altri consumatori nel sistema piuttosto che dalla vendita o dal consumo di prodotti.

 

La tutela amministrativa dalle pratiche commerciali ingannevoli

Come si è anticipato, l’autorità preposta al monitoraggio delle pratiche commerciali e conseguente repressione di quelle scorrette è l’AGCM.  Essa, ai sensi dell’articolo 27 del Codice del Consumo “d’ufficio o su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, inibisce la continuazione delle pratiche commerciali scorrette e ne elimina gli effetti[10]. Inoltre, per lo svolgimento del proprio ruolo l’Autorità può avvalersi di poteri investigativi ed esecutivi, oltre che del supporto della Guardia di finanza.

Tramite l’emanazione di un provvedimento motivato, l’Autorità può disporre la sospensione provvisoria della pratica commerciale reputata illecita, ove vi sia la necessità di agire con urgenza. Altrimenti, sarà necessario aprire un’istruttoria al professionista, raccogliendo le opportune informazioni. Durante lo svolgimento della fase istruttoria, l’Autorità può disporre che il professionista fornisca prove sull’esattezza dei dati di fatto connessi alla pratica commerciale, se tale esigenza appare giustificata dal caso concreto. Sul professionista, invece, incombe l’onere di provare che egli non poteva ragionevolmente prevedere gli impatti della sua pratica commerciale sui consumatori.

Qualora, terminata l’istruttoria, ritenga la pratica commerciale effettivamente ingannevole, l’Autorità ne vieta la diffusione se ancora non è stata portata a conoscenza del pubblico, oppure ne vieta la prosecuzione se questa sia già in essere. L’Autorità può inoltre disporre la pubblicazione della delibera o di un’apposita dichiarazione rettificativa, in modo da impedire che le pratiche commerciali scorrette continuino a produrre effetti.

Per quanto riguarda invece un’eventuale richiesta di risarcimento del danno da parte del consumatore, la competenza a decidere su di essa ricade sul giudice ordinario.

 

Breve focus sulla pubblicità ingannevole

Si è detto che inizialmente le prime fonti normative in materia concernevano specificamente la pubblicità ingannevole[11]. Ad oggi, alla disciplina pubblicitaria è riservata una normativa speciale che, in ragione della particolare diffusività di tale strumento commerciale, viene posta a tutela dei consumatori.

Nello specifico, il D.lgs. 145/2007 dispone che la pubblicità, per essere legittima, debba essere palese veritiera e corretta, oltre che riconoscibile chiaramente come tale[12]. La legge, nel vietare la pubblicità ingannevole, dispone all’articolo 2 del citato decreto che si considera tale “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”[13].

Come per le pratiche commerciali ingannevoli, anche per la pubblicità ingannevole la legge effettua una elencazione dei criteri in base ai quali è possibile qualificare una pubblicità come illecita, ossia:

  • le caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l’esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi;
  • il prezzo o al modo in cui questo è calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti;
  • la categoria, le qualifiche e i diritti dell’operatore pubblicitario, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, i diritti di proprietà intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all’impresa ed i premi o riconoscimenti[14].

 

In caso una pubblicità fosse ritenuta ingannevole, ogni interessato ha facoltà di denunciarne l’uso all’Autorità garante, la quale, anche d’ufficio, potrà poi procedere alla repressione della stessa esercitando anche poteri di carattere sanzionatorio[15], non diversamente da quanto avviene per le pratiche commerciali ingannevoli[16].

Informazioni

G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale 1- Diritto dell’impresa, UTET Giuridica, Wolters Kluwer Italia S.r.l., Milano, 2018;

Codice del Consumo;

D. lgs. 145/2007.

[1] A tal proposto, per il concetto di professionista si fa rinvio all’articolo 18, lett. b, del Codice del Consumo, che lo definisce come “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”.

[2] G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale 1- Diritto dell’impresa, UTET Giuridica, Wolters Kluwer Italia S.r.l., Milano, 2018, p. 259.

[3] In tema di diritti dei consumatori, si consiglia la lettura dell’articolo su DirittoConsenso dal titolo “La tutela dei diritti dei consumatori”, di Lisa Montalti, del 21/03/2022, La tutela dei diritti dei consumatori – DirittoConsenso

[4] D.lgs. 206/2005.

[5] Per approfondimenti relativi all’AGCM, si consiglia la lettura dell’articolo su DirittoConsenso dal titolo “Antitrust: come funziona e cosa fa?” di Giuseppe Nicolino, dell’08/11/2018, Antitrust: come funziona e cosa fa? – DirittoConsenso.it

[6] G.F. CAMPOBASSO, op cit., p. 259.

[7] G.F. CAMPOBASSO, op cit., p. 260.

[8] G.F. CAMPOBASSO, op cit., p. 260.

[9] Articolo 21 primo comma, cod. cons.

[10] Articolo 27 cod. cons.

[11] Per approfondimenti sul tema della pubblicità ingannevole, si veda l’articolo su DirittoConsenso “Pubblicità ingannevole, Real time marketing e covid-19”, di Maria Cristina Salvetti, del 29/04/2020, Pubblicità ingannevole, Real time marketing e covid-19 – DirittoConsenso.it

[12] Ciò ai sensi di quanto disposto dall’ articolo 1 comma 2 e articolo 5 del D. lgs. 145/2007.

[13] Articolo 2 lett. b D. lgs. 145/2007.

[14] Articolo 3 D. lgs. 145/2007.

[15] A tal proposito, si veda l’articolo 8 del D. lgs. 145/2007. L’articolo 9, successivamente, prevede invece la possibilità di rivolgersi preventivamente al Giurì di autodisciplina.

[16] G.F. CAMPOBASSO, op cit., p. 264.


Concorrenza parassitaria

La concorrenza parassitaria

La concorrenza parassitaria può essere individuata in una sistematica imitazione di iniziative o idee di imprenditori concorrenti, la quale comporta una perdita di originalità e individualità delle stesse

 

La concorrenza parassitaria: una prima definizione

Nel vigente codice civile, l’articolo 2598[1] disciplina gli atti di concorrenza sleale[2]. Secondo quanto disposto dai primi due commi di detto articolo, la concorrenza sleale tra operatori economici può essere svolta

  • tramite azioni di confusione, tra prodotti o attività proprie e dei concorrenti, o
  • tramite atti di denigrazione o vanteria, rispetto a prodotti o attività di un concorrente.

 

Il terzo comma dell’articolo 2598, invece, tramite una formulazione c.d. aperta, permette di considerare come atti di concorrenza sleale anche quelli contrari ai principi di correttezza professionale.

Anche se non è certamente agevole individuare di quali atti si tratti, data la formulazione piuttosto vaga della norma, la prassi giurisprudenziale si è più volte occupata del tema designando una serie di condotte come appartenenti alla categoria. Tra queste, vi rientra senza dubbio la c.d. concorrenza parassitaria.

Questa nuova tipologia di illecito è stata per la prima volta teorizzata dal giurista Remo Franceschelli nel 1956, ispirandosi da un lato alla Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883 e dall’altro alla dottrina francese di metà secolo scorso[3].

La concorrenza parassitaria, secondo una prima definizione, può essere individuata come una sistematica imitazione di iniziative o idee di imprenditori concorrenti, imitazione che di conseguenza comporta una perdita di originalità e individualità di tali iniziative imprenditoriali[4]. Se è vero infatti che l’imitazione di idee o forme dovrebbe essere sempre consentita al di fuori di quelle coperte da brevetto, è altrettanto vero che un’imitazione che sia sistematica non possa certo considerarsi lecita[5]. Di qui, per l’appunto, il termine ‘parassitaria’ che la connota.

Dunque, tra gli elementi costitutivi della concorrenza parassitaria, è necessario annoverare:

  • lo sfruttamento di iniziative o idee altrui;
  • l’originalità di tali iniziative o idee;
  • l’idoneità di tale imitazione a recare danno all’altrui impresa;
  • la sistematicità di tale imitazione.

 

Come per gli altri atti di concorrenza sleale[6], anche per la concorrenza parassitaria l’attività si considera vietata per la sua idoneità oggettiva a ledere il concorrente, ossia a prescindere da qualsiasi elemento psicologico del soggetto agente, sia esso di colpa o di dolo.

 

Il caso Motta-Alemagna: la concorrenza parassitaria diacronica

Stante la mancanza di una puntuale definizione di concorrenza parassitaria da parte del legislatore, la giurisprudenza negli anni ha tentato di colmare tale lacuna con una serie di pronunce. Nello specifico, di estrema importanza è stata la pronuncia n. 752 del 1962 resa dalla Corte di Cassazione, la c.d. sentenza Motta-Alemagna.

La massima che può trarsi da detta sentenza è la seguente: “la concorrenza parassitaria è quella che si attua attraverso la sistematica riproduzione delle realizzazioni del concorrente nei vari campi e che consiste nell’imitare non un singolo marchio o un singolo brevetto o una singola iniziativa, ma tutta una serie di marchi, di brevetti, di iniziative, di tipi di prodotti, di forme di pubblicità, di sistemi di lavorazione, di criteri di vendita, di forme di imballaggio e così via, in guisa che l’imprenditore venga a collocarsi in modo continuativo nella scia del concorrente[7].

Questa pronuncia ha rappresentato un vero e proprio punto di riferimento nella qualificazione della concorrenza parassitaria, tanto che fino agli anni Ottanta del secolo scorso ha aperto la strada ad un primo orientamento giurisprudenziale che qualificava come sleale la concorrenza parassitaria c.d. diacronica.

Nel caso di specie, Alemagna lamentava a carico di Motta l’illiceità di talune sue condotte volte ad una imitazione reiterata nel tempo di sue iniziative imprenditoriali, chiedendone la repressione e condanna per concorrenza sleale parassitaria. Tale pluralità di condotte, nello specifico, si costituiva di atti di per sé illeciti, come la contraffazione di marchi, e atti neutri, quali ad esempio l’imitazione delle medesime forme di confezionamento dei prodotti e l’imitazione di talune iniziative in campo pubblicitario. Alla luce di ciò, la Corte Suprema ha ritenuto di poter affermare in quell’occasione che: “l’adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzi una confusione di attività e prodotti, è contraria alle regole che presiedono all’ordinato svolgimento della concorrenza[8].

Oltretutto, rientrando la concorrenza parassitaria tra gli atti contrari alla correttezza professionale, che come detto rappresenta un concetto dai contorni non ben definibili, la Corte Suprema ha anche precisato che il “concetto di correttezza professionale non va interpretato in senso restrittivo, e cioè come applicabile soltanto in caso di inosservanza di una norma giuridica, ma in senso ampio, sicché possono sussistere atti che, benché conformi alle disposizioni di legge, siano tuttavia tali da potersi considerare non onesti e non corretti, perché improntati a frode o astuzia[9].

 

La concorrenza parassitaria sincronica

Successivamente, la Cassazione è tornata ad esprimersi sulla concorrenza parassitaria nella altrettanto importante pronuncia n. 5852 del 1984, nella quale viene individuata una nuova ed ulteriore forma di concorrenza parassitaria, ossia la c.d. sincronica. Essa può essere definita, nello specifico, come lo sfruttamento dell’altrui lavoro tramite non già un sistematico insieme di atti protratti nel tempo, bensì un comportamento globale o una pluralità di atti posti in essere simultaneamente e una sola volta[10].

Difatti, in occasione di detta pronuncia, la Corte ha affermato che: “non v’è ragione di ritenere indispensabile la ripetitività nel tempo di più atti imitativi, essendo perfettamente logico che, la sistematicità e continuità, da cronologicamente successive che sono nell’ipotesi di base, possano anche essere simultanee ed esprimersi nei caratteri quantitativi dell’imitazione[11].

Alla luce del contributo della Cassazione, pertanto, è possibile suddividere la fattispecie della concorrenza parassitaria in due categorie: quella diacronica e quella sincronica. Esse si distinguono sulla base dell’elemento temporale nel quale vengono posti in essere gli atti lesivi della concorrenza, ossia protratti nel tempo per la prima e simultanei per la seconda.

Quest’ultima pronuncia, oltretutto, offre un ulteriore importante elemento di riflessione sul tema della concorrenza parassitaria, sostenendo in particolare che la creatività, nel nostro ordinamento, viene tutelata per un periodo limitato nel tempo, ossia fino a che l’originalità si sia esaurita e un determinato modo di produrre o commercializzare sia divenuto patrimonio comune di conoscenze o esperienze[12]. Qualora una data iniziativa o idea divenga poi nel tempo generalizzata e spersonalizzata, essa non costituirà più un atto contrario alla correttezza professionale; pertanto, una sua imitazione non sarà più idonea a danneggiare i concorrenti.

Può dirsi, in definitiva, che l’imprenditore che ponga in essere una condotta concorrenziale parassitaria tragga indebitamente profitto dagli studi e dalle spese sostenute dal concorrente. Difatti, egli si avvale di idee o prodotti già collaudati sul mercato, preservandosi dall’incertezza che caratterizza le novità, ad esempio in termini di insuccesso. Oltretutto, egli beneficia in questo modo anche di minori costi di produzione, ponendo sul mercato i suoi prodotti a prezzi inferiori dell’imitato[13].

 

Quali sono le forme di tutela dalla concorrenza parassitaria?

Qualora l’imitazione di prodotti, idee o attività di un concorrente integri gli estremi della concorrenza parassitaria, ossia non rappresentando più mera espressione della libera concorrenza così come consentita dall’articolo 41 Cost., il soggetto leso non resta privo di tutele.

Allo stesso, infatti, l’ordinamento offre una serie di rimedi affinché non veda vanificato il proprio lavoro e la propria innovazione. Detti strumenti di tutela si sostanziano in:

  • sequestro giudiziario ex 670 c.p.c.;
  • inibitoria ex 2599 c.c.;
  • altri provvedimenti d’urgenza ex 700 c.p.c.;
  • risarcimento del danno ex 2600 c.c.;
  • pubblicazione della sentenza ex 2600 c.c.

Informazioni

V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, Giappichelli Editore, Torino, 2020;

F. MICHETTI, Concorrenza sleale parassitaria: origine ed evoluzione del fenomeno nella recente giurisprudenza, aggiornato il 06/09/2020, consultato il 10/04/2022, Concorrenza sleale parassitaria: origine ed evoluzione del fenomeno nella recente giurisprudenza – Ius in itinere ;

ACLAW – Avv. Roberto Ceccon, La concorrenza parassitaria nella giurisprudenza più recente, pubblicato il 26/03/2013, consultato il 10/04/2022, La concorrenza parassitaria nella giurisprudenza più recente | AC Law Studio Legale Internazionale ;

S. GRISANTI, Concorrenza parassitaria: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Dir. ind., 2019, 4, 325;

Cassazione civile, 17 aprile 1962, n. 752;

Cassazione civile, 17 novembre 1984, n. 5852, in Riv. dir. ind. 1985, II, p. 3 ss.

[1]  L’articolo 2598 c.c. dispone quanto segue: “ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.”

[2] Per approfondimenti relativi alla concorrenza sleale si veda l’articolo su DirittoConsenso dal titolo “Che cos’è la concorrenza sleale?” di Lisa Montalti, del 21 aprile 2022, Che cos’è la concorrenza sleale? – DirittoConsenso

[3] F. MICHETTI, Concorrenza sleale parassitaria: origine ed evoluzione del fenomeno nella recente giurisprudenza, aggiornato il 06/09/2020, consultato il 10/04/2022, Concorrenza sleale parassitaria: origine ed evoluzione del fenomeno nella recente giurisprudenza – Ius in itinere

[4] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, Giappichelli Editore, Torino, 2020, p. 148.

[5] V. BUONOCORE, op. cit. p. 148.

[6] Tra questi si fa menzione, a titolo esemplificativo, del boicottaggio, della sottrazione di segreti imprenditoriali, della pubblicità iperbolica o dello storno di dipendenti.

[7] Cass. civ., 17/04/1962, n. 752.

[8] Cass. civ., 17/04/1962, n. 752.

[9] Cass. civ., 17/04/1962, n. 752.

[10] ACLAW – Avv. Roberto Ceccon, La concorrenza parassitaria nella giurisprudenza più recente, pubblicato il 26/03/2013, consultato il 10/04/2022, La concorrenza parassitaria nella giurisprudenza più recente | AC Law Studio Legale Internazionale

[11] Cass. civ., 17/11/1984, n. 5852, in Riv. dir. ind. 1985, II, p.3 ss.

[12] Cass. civ., 17/11/1984, n. 5852, in Riv. dir. ind. 1985, II, p.3 ss.

[13] S. GRISANTI, Concorrenza parassitaria: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Dir. ind., 2019, 4, 325.


Concorrenza sleale

Che cos'è la concorrenza sleale?

L’articolo 2598 c.c. prevede tre categorie di atti di concorrenza sleale: gli atti per confusione, gli atti per denigrazione e vanteria e atti contrari alla correttezza professionale

 

La definizione di concorrenza sleale

Affinché il sistema concorrenziale presente sul mercato possa essere corretto e “pulito”, è necessario che questo sia anche regolato[1]. In mancanza di un intervento da parte del legislatore che orienti le condotte degli operatori economici, questo finirebbe certamente per andare alla deriva. Il sistema di norme presenti nel nostro ordinamento volto alla repressione della concorrenza sleale, allora, lungi dal costituire una limitazione alla concorrenza, rappresenta un necessario strumento per tutelarla.

L’astensione di taluni comportamenti ritenuti dannosi per la concorrenza, difatti, non può che giovare a tutti gli operatori economici.

Un’importante osservazione che occorre preliminarmente fare, prima di passare all’analisi della disciplina relativa alla concorrenza sleale, è che questa non è volta alla tutela dei consumatori, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere. Essa è rivolta invece a realizzare gli interessi della categoria imprenditoriale, interesse ossia a che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti non corretti per raggiungere questo fine[2].

La principale fonte nel nostro ordinamento che regola la concorrenza sleale è rappresentata dal codice civile, in particolare dall’articolo 2598. Esso si suddivide in tre punti dal seguente contenuto:

  • divieto di realizzare atti di confusione;
  • divieto di realizzare atti denigratori o di vanteria;
  • clausola generale volta a vietare atti di concorrenza sleale non tipizzati ai primi due commi.

 

I singoli atti di concorrenza sleale sono vietati nella loro oggettività, indipendentemente dalla consapevolezza del soggetto agente di porli in essere.

L’articolo 2598, nella sua formulazione, utilizza il termine chiunque per riferirsi a soggetti che possano porre in essere atti di concorrenza sleale: in realtà, come detto, essa è indubbiamente riferibile ai soli soggetti che rivestano la qualifica di imprenditori[3] e che possano realizzare una condotta concorrenziale verso altri.

Non assume rilevanza nemmeno il carattere pubblico o privato del soggetto imprenditore, purché sia in grado di realizzare una concorrenza c.d. prossima, ossia rivolta allo stesso settore di mercato in cui operano i soggetti destinatari[4]. Nella definizione di soggetto a cui imputare gli atti di concorrenza sleale non rileva neppure che sia propriamente lui a realizzarli, essendo talvolta riferibili a taluni imprenditori atti realizzati dagli stessi indirettamente, ossia per il tramite di altri soggetti che operino nel loro interesse[5].

 

Gli atti di concorrenza sleale per confusione

Il primo punto dell’articolo 2598 dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”.

Perché gli atti in questione possano effettivamente costituire atti di confusione è necessario che si tratti di atti idonei a tal fine: non è necessario che la confusione in capo ai consumatori sia realmente avvenuta, in quanto costituiscono condotte punibili ai sensi dell’art. 2598 n. 1 tutte quelle che siano anche in potenza in grado di generare confusione, che siano cioè confondibili in capo al consumatore medio del settore di mercato di riferimento[6].

Il comma in questione effettua una ulteriore distinzione tra gli atti di confusione. Esso parla infatti di:

  • atti di confusione tipici;
  • atti di confusione atipici.

 

La prima categoria è costituita dall’uso di nomi o segni distintivi usati legittimamente da altri e dall’ imitazione servile di prodotti di un concorrente. Per nomi o segni distintivi deve intendersi sia quelli tipici come marchi, insegne o brevetti, che quelli atipici come ad esempio le etichette. Vero è che i primi trovano già nell’ordinamento una loro protezione specifica, tramite l’azione di contraffazione[7], mentre i secondi, privi di una protezione specifica, la trovano tramite questa disposizione[8].

La seconda categoria di atti per confusione tipici concerne invece l’imitazione servile di prodotti di un concorrente. Con il concetto di imitazione si fa riferimento all’imitazione della forma del prodotto, qualora questa sia riconducibile ad una certa impresa. Non rilevano infatti quali imitazioni servili quelle di forma prive di originalità, così come quelle che siano indispensabili al funzionamento del prodotto, che rispondano ossia ad esigenze di tipo tecnico[9].

La categoria di atti di confusione atipici, invece, allude a tutti gli altri atti che con qualsiasi mezzo siano idonei a creare confusione con prodotti e attività dei concorrenti. Questa clausola generale ha il ruolo di comprendere, nel novero di atti vietati, tutti quelli che sfuggano alle due categorie precedenti.

 

Gli atti di concorrenza sleale per denigrazione e per vanteria

Il secondo punto dell’articolo 2598 dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.

Occorre distinguere pertanto gli atti di denigrazione da quelli di vanteria.

Compie denigrazione colui il quale diffonda notizie o apprezzamenti idonei a determinare il discredito di concorrenti. Tale diffusione non rileva che sia quantitativa, ossia rivolta ad un ampio numero di persone, essendo anzi sufficiente una diffusione di tipo qualitativo, vale a dire rivolta anche solo ad un soggetto che riveste un determinato peso sul mercato (si pensi ad esempio ad un cliente particolarmente importante)[10]. Affinché sia realizzata la condotta in questione non rileva neppure la veridicità di quanto diffuso. Unico caso nel quale si ritiene essere consentita la denigrazione, ossia la diffusione di notizie e informazioni negative ma rispondenti al vero su un concorrente, è quella della legittima difesa del soggetto agente[11]. Con essa si fa riferimento ad una reazione, giustificata, di un imprenditore ad un atto di denigrazione subito da altri.

L’atto di denigrazione più esemplificativo è rappresentato dalla c.d. pubblicità superlativa: questo tipo di atto è volto a porre un proprio prodotto su un piano di assoluta superiorità rispetto a quelli altrui[12].

Il punto n. 2 dell’articolo 2598 fa divieto anche di quelle condotte c.d. di vanteria. Con esse debbono intendersi tutti quegli atti di appropriazione di pregi di prodotti o attività di un concorrente. La principale condotta con la quale si realizza la vanteria vietata è l’agganciamento: con esso l’imprenditore in questione presenta al pubblico i propri prodotti sottolineando la loro somiglianza con quelli di un concorrente, realizzando una forma di sfruttamento sistematico della fama e dell’impegno di altri per lanciare il proprio prodotto sul mercato[13].

 

Le altre fattispecie di concorrenza sleale

Dispone il punto n. 3 dell’articolo 2598 che compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda“.

Questa clausola di chiusura, che, come detto, ha l’intento di punire gli atti di concorrenza sleale atipici, ossia non contemplati ai punti precedenti, fa riferimento al concetto di correttezza professionale. Tale nozione non è di agevole definizione in quanto può esserle data sia una lettura propriamente etica nella misura in cui fa riferimento ad una sorta di codice deontologico dell’imprenditore, sia una lettura di tipo fenomenologico, ossia riferito alla prassi seguita dagli imprenditori[14].

Ad ogni modo, questa ulteriore categoria ha l’intento di vietare tutte quelle condotte di concorrenza sleale che via via sorgono nella prassi, per le quali il legislatore avrebbe difficoltà ad una tipizzazione mano a mano che vengono in essere. Nonostante la loro acclarata atipicità, comunque, è possibile proporre una elencazione delle principali, a titolo esemplificativo.

Costituiscono atti di concorrenza sleale atipica:

  • storno di dipendenti (ossia la sottrazione di forza lavoro particolarmente qualificata alla concorrenza, al solo fine di recare danneggiamento)[15];
  • boicottaggio (ossia sistematico rifiuto a contrattare con la concorrenza, realizzato in maniera collettiva con altri imprenditori);
  • sottrazione di segreti imprenditoriali;
  • concorrenza parassitaria (sistematica imitazione delle idee dell’impresa concorrente);
  • ribasso dei prezzi irregolare (finalizzato unicamente ad eliminare dal mercato concorrenti minori, ma effettuato in perdita per chi lo pratica, ossia al di sotto dei costi di produzione)[16];
  • violazione di norme di diritto pubblico (ad esempio il divieto di realizzare frode in commercio);
  • pubblicità menzognera, suggestiva o iperbolica.

 

La tutela giurisdizionale

In sede di tutela da atti di concorrenza sleale, si definisce soggetto legittimato attivamente colui che subisce la condotta vietata, mentre è soggetto legittimato passivo colui che, direttamente o indirettamente, la pone in essere. Si fa menzione, oltretutto, anche all’articolo 2601 del codice civile, il quale dispone che qualora gli atti di concorrenza sleale realizzati abbiano pregiudicato gli interessi di una categoria professionale, la repressione degli stessi spetti anche alle associazioni o enti che rappresentino tale categoria.

In riferimento alle sanzioni previste dal codice, l’articolo 2599 prevede il rimedio dell’inibitoria, ossia la facoltà del soggetto leso di richiedere al giudice che la condotta lesiva cessi, così come richiedere allo stesso di emettere provvedimenti volti anche ad eliminarne gli effetti. Tali rimedi, talvolta, possono poi essere assunti anche in via immediata e urgente, stante la necessità di far cessare nel minor tempo possibile la reiterazione delle condotte ed evitare l’aggravamento del danno.

L’articolo 2600, infine, prevede proprio la risarcibilità del danno. Questo è possibile se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa, anche se all’ultimo comma dello stesso articolo si precisa che la colpa, una volta accertati gli atti, è presunta. Ciò è volto a sgravare il soggetto leso dall’onere di provare l’elemento psicologico in capo al soggetto agente, mettendolo unicamente nella condizione di provare l’effettività della condotta lesiva[17].

Il secondo comma dell’articolo 2600 prevede poi la possibilità, per il giudice, di ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna.

Informazioni

V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, quattordicesima edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2020;

N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, Giuffrè Editore, Milano, 2012.

[1] Per approfondimenti relativi alla normativa a tutela della concorrenza e del mercato, si veda l’articolo su DirittoConsenso “La tutela della concorrenza e del mercato: uno sguardo alla normativa”, di Lisa Montalti, 10 febbraio 2022, La tutela della concorrenza e del mercato: uno sguardo alla normativa – DirittoConsenso

[2] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, quattordicesima edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2020, p. 142.

[3] Per approfondimenti relativi alla figura del soggetto imprenditore, si veda l’articolo su DirittoConsenso dal titolo “Imprenditore e impresa”, di Leonardo Rubera, 8 settembre 2021, Imprenditore e impresa – DirittoConsenso

[4] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 143.

[5] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 143.

[6] N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, Giuffrè Editore, Milano, 2012, p. 114.

[7] Si ritiene che in questo caso le due tutele, quella offerta dall’articolo 2598 e l’azione di contraffazione, possano dirsi cumulabili, non costituendo un duplicato, in quanto hanno presupposti e sanzioni differenti. N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, op. cit., p. 115.

[8] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 145.

[9] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 145.

[10] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.

[11] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.

[12] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.

[13] N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, op.cit., p. 118.

[14] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 147.

[15] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit. p. 148.

[16] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 148.

[17] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 150.


Tutela dei diritti dei consumatori

La tutela dei diritti dei consumatori

A causa dei frequenti squilibri contrattuali tra consumatori e professionisti il Legislatore ha predisposto una vera e propria disciplina posta a tutela dei diritti dei consumatori

 

La necessità di tutela dei diritti dei consumatori e breve inquadramento storico

Il consumatore è definito dal Codice del Consumo come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta[1]. I consumatori, notoriamente, rappresentano una categoria di soggetti particolarmente bisognosa di tutela da parte del Legislatore. Infatti, nella prassi si verificano situazioni di vero e proprio squilibrio tra consumatori e professionisti dal punto di vista contrattuale, stante l’asimmetria che connota queste due categorie. I consumatori, pertanto, sin dal momento genetico della formazione del contratto con il professionista si pongono come “parte debole”: il Legislatore ha per questo ritenuto opportuno intervenire con una disciplina che potesse in qualche modo reprimere gli abusi che si verificavano a danno di questi[2].

A fronte di tale esigenza, il Legislatore è intervenuto con l’introduzione di un’importante fonte normativa che potesse fungere da pietra miliare nella tutela dei diritti dei consumatori: questa è rappresentata dal decreto legislativo del 6 settembre 2005 n. 206, c.d. Codice del Consumo[3].

Prima dell’attuale Codice del Consumo, a tutela dei diritti dei consumatori era posta un’altra importante fonte normativa, la Legge 281/1998. Tale legge, recante la “disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, si è posta come particolarmente innovativa per quegli anni, fungendo da raccordo per la normativa di settore precedentemente emanata e apportando anche una serie di novità[4]. In particolare, innovazioni significative si sono registrate nel riconoscere a consumatori e utenti una serie di diritti fondamentali, i quali fino ad allora assumevano rilievo solo quali interessi diffusi o collettivi e azionabili in giudizio solo in forma collettiva[5].

Ad oggi, ad ogni modo, la predetta legge è stata espressamente abrogata dall’articolo 146 del Codice del Consumo, sostituendosi quest’ultimo alla precedente disciplina.

 

L’articolo 2 del Codice del Consumo: i diritti fondamentali

Come premesso, il Codice del Consumo ha apportato un significativo impulso alla tutela dei diritti dei consumatori, in particolare enunciando, tra i suoi primo articoli, una serie di principi e di diritti per così dire fondamentali del consumatore stesso. L’articolo 2 del codice, infatti, rubricato proprio Diritti dei consumatori, riconosce e garantisce i diritti e gli interessi sia individuali che collettivi dei consumatori, promuovendone la tutela anche in forma collettiva e associativa[6].

Al secondo comma del medesimo articolo viene realizzata invece una vera e propria elencazione di quelli che sono i fondamentali diritti dei consumatori, ossia:

  • diritto alla tutela della salute;
  • diritto alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
  • diritto ad un’adeguata informazione e una corretta pubblicità;
  • diritto all’esercizio delle pratiche commerciali secondo buona fede, correttezza e lealtà;
  • diritto all’educazione al consumo;
  • diritto alla correttezza, alla trasparenza e all’equità nei rapporti contrattuali;
  • diritto alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti;
  • all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

 

Anzitutto, alla luce di questa disamina, è importante precisare che la dicitura “diritti fondamentali” non ha la medesima cogenza dei diritti di rango costituzionale. Tali diritti, infatti, sono enunciati da una norma ordinaria: il concetto di fondamentale può essere inteso come essenziale, ossia suscettibile di tutela tramite applicazione di una sanzione a seguito di una loro violazione[7]. Altra importante osservazione è quella per cui tali diritti non costituiscono nemmeno un numero chiuso, ma si pongono come basilari rispetto a nuove pretese e nuove necessità di tutele che potrebbero sorgere, giustificando una integrazione degli stessi[8].

 

La correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali

Tra i diritti enunciati dall’articolo 2 comma 2 del Codice del Consumo figura alla lettera e anche quello alla correttezza, alla trasparenza e all’equità da parte dei professionisti.

Volendo procedere ad una analisi più dettagliata degli stessi, si potrebbe inquadrare il primo diritto, quello di correttezza, come un dovere da parte del professionista di non abusare della propria posizione di “contraente forte” per procurarsi un ingiusto vantaggio a scapito del consumatore, che sarà tenuto dall’altra parte a sopportare maggiori sacrifici. Pertanto, la correttezza si pone come una sorta di attenuazione di quello squilibrio tra le parti di cui inizialmente si è parlato. La correttezza assume rilievo quale regola di condotta, ossia parametro a cui deve conformarsi l’agire del professionista.[9]

L’altro importante diritto riportato alla lettera e del medesimo articolo è quello di trasparenza: non si può non considerare il diritto alla trasparenza come direttamente collegato a quello della correttezza, in quanto è di tutta evidenza che, ad esempio, un contratto redatto in maniera chiara, non arzigogolata e appunto trasparente rappresenti uno strumento di maggiore tutela per il consumatore. Proprio anche attraverso la forma del contratto si estrinseca il diritto alla correttezza verso il consumatore, e questa passa necessariamente attraverso la trasparenza che consente al consumatore stesso di prestare un consenso pieno e consapevole[10].

Sempre a tutela dei diritti dei consumatori è posto l’ultimo dei tre diritti enunciati alla lettera e, ossia l’equità, che si pone come un importante strumento correttivo e integrativo del contratto. L’equità qui considerata va peraltro posta in relazione all’articolo 33 del Codice del Consumo, in quale al comma 1 dispone che:” nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Il significativo squilibrio qui menzionato fa riferimento unicamente allo squilibrio nella sua accezione normativa e non già anche economica. Per questa ragione, l’equità enunciata dall’articolo 2 quale diritto fondamentale del consumatore sarà da intendersi come equità di tipo meramente normativo, e non attinente ad esempio all’adeguatezza del corrispettivo nel contratto[11].

 

L’irrinunciabilità dei diritti dei consumatori e le tutele in caso di violazione degli stessi

L’articolo 143 del Codice del Consumo, posto quale norma di chiusura tra le disposizioni finali del decreto, enuncia quanto segue: “i diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili. È nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice. Ove le parti abbiano scelto di applicare al contratto una legislazione diversa da quella italiana, al consumatore devono comunque essere riconosciute le condizioni minime di tutela previste dal codice.”.

Ciò significa che la tutela dei diritti dei consumatori passa anche attraverso l’irrinunciabilità degli stessi, disposta per legge. Infatti, risulterà nulla ogni pattuizione in senso contrario, volta a contrastare le disposizioni del codice. Con ciò, il livello di protezione assicurato al consumatore assume certamente un rilievo ancor più significativo.

Ove queste disposizioni non fossero sufficienti per scongiurare una lesione dei diritti fondamentali dei consumatori, il Legislatore ha opportunamente predisposto un insieme di rimedi che possano riparare ad eventuali violazioni.

La tutela dei diritti dei consumatori, in caso di violazione degli stessi e in particolare di quelli enunciati all’articolo 2 del Codice del Consumo, si estrinseca in varie tipologie. Nel caso in cui la violazione dei suoi diritti generi un significativo squilibrio contrattuale, così come disposto dal già menzionato articolo 33, il consumatore potrà esperire lo strumento della c.d. nullità di protezione: essa si distingue dalla nullità in senso classico per il fatto di essere posta a specifico presidio dei diritti dei consumatori. La nullità di protezione ha come scopo proprio quello di evitare che, in presenza ad esempio di una clausola vessatoria nel contratto, questo possa essere invalidato in toto sulla base dei principi generali della nullità, comportando quindi un maggior danno al consumatore. Diversamente, la nullità di protezione comporterà conseguentemente la caducazione solamente della clausola vessatoria in questione.

Altro rimedio posto a tutela dei diritti del consumatore è rappresentato invece da quello risarcitorio: ciò assume rilievo qualora la violazione dei diritti non abbia generato un significativo squilibrio tra le parti. In questo caso il risarcimento dovrà essere parametrato, secondo la Cassazione[12], al minor vantaggio o maggiore aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti, salvo la prova di ulteriori danni[13].

Di recente introduzione è infine lo strumento della class action, o azione di classe, introdotta con legge 12 aprile 2019 n.31 tramite l’inserimento dell’articolo 140 bis del Codice del Consumo. Con tale strumento potranno agire in giudizio a tutela dei diritti dei consumatori, contro l’autore di condotte lesive, le organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro iscritte in un pubblico elenco presso il Ministero della Giustizia, così come anche ciascun componente della classe. Sul piano processuale, le procedure da seguire per porre in essere la class action sono contenute negli articoli dall’840 bis all’840 sexiesdecies del codice di procedura civile.

Informazioni

F. CAMILLETTI, L’articolo 2 del codice del consumo e i diritti fondamentali del consumatore nei rapporti contrattuali, Contratti, 2007,10,907 (commento alla normativa);

O. CARLI, A. SAMENGO, G. GIULIANO, G. MELE, La legge 281/98. Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. La tutela in sede di giurisdizione amministrativa, Lexitalia.it, http://lexitalia.it/articoli/codacons_tutelaconsum.htm ;

CODICE DEL CONSUMO.

[1] Articolo 3 comma 1 lett. a del Codice del Consumo.

[2] F. CAMILLETTI, L’articolo 2 del Codice del Consumo e i diritti fondamentali del consumatore nei rapporti contrattuali, Contratti, 2007,10,907 (commento alla normativa), in Leggi d’Italia, Wolters Kluwer Italia, (ultimo accesso 23/02/2022).

[3] Per approfondimenti relativi al Codice del Consumo, e in particolare sulla protezione dal danno da prodotto difettoso, si veda l’articolo su DirittoConsenso di Morena Grilli, Il danno da prodotto difettoso, 4 settembre 2021, http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/04/il-danno-da-prodotto-difettoso/

[4] Tra queste, si fa menzione dell’istituzione di un elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale “riconosciute” e di un Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti presso il Ministero dell’Industria, costituito e partecipato dai rappresentanti delle associazioni dei consumatori e degli utenti e da un rappresentante delle regioni e delle province autonome.  O. CARLI, A. SAMENGO, G. GIULIANO, G. MELE, La legge 281/98. Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. La tutela in sede di giurisdizione amministrativa, Lexitalia.it, (ultimo accesso 23/02/2022), http://lexitalia.it/articoli/codacons_tutelaconsum.htm

[5] O. CARLI, A. SAMENGO, G. GIULIANO, G. MELE, opera citata

[6] Art. 2 comma 1 Codice del Consumo: ”Sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni.”.

[7] F. CAMILLETTI, opera citata.

[8] F. CAMILLETTI, opera citata.

[9] F. CAMILLETTI, opera citata.

[10] F. CAMILLETTI, opera citata.

[11] F. CAMILLETTI, opera citata.

[12] Cass. 29 settembre 2005, n. 19024

[13] F. CAMILLETTI, opera citata.