Mar cinese meridionale: geografia e diritto internazionale
Le rivendicazioni cinesi sugli arcipelaghi del mar cinese meridionale si scontrano con la giurisdizione e gli interessi delle potenze confinanti e degli Stati Uniti, interessati a mantenere stabilità ed equilibrio. La regione è l’avanguardia del commercio via mare, della modernizzazione navale, e dell’estrazione di risorse
Lo sguardo della Cina sul mar cinese meridionale
La complessa interazione tra il nazionalismo delle potenze coinvolte e la rivalità geostrategica sta minando il potenziale framework collettivo per la salvaguardia degli oceani e del mare. Il Mar cinese meridionale è il perfetto connubio tra area economica ricca di altri attori internazionali così come terreno per avanzare pretese. La postura di Pechino è un mix strategico di tre componenti: l’espansione dello spazio strategico nella periferia marittima per rafforzare la difesa nazionale; l’accesso alle risorse marittime; l’innalzamento della sua posizione di negoziato nei futuri accordi politici. Le speranze per riconoscere un ordine marittimo legittimo si ripongono nella capacità negoziale di Pechino nell’unire le logiche di interesse nazionale con la prevenzione dei conflitti, gli accordi regionali e l’engagement diplomatico per circoscrivere gli impulsi nazionalistici e la vulnerabilità geostrategica. Ecco perchè il mar cinese meriodionale è al centro delle analisi geopolitiche.
Il mar cinese meridionale è lo spazio marittimo più conteso al mondo
Fu Grozio nel 1609 a codificare in legge internazionale il diritto comune di tutte le nazioni all’uso dei mari per obiettivi di navigazione e commercio. Principio che, per assicurarsi l’accesso alle risorse, la sovranità e l’integrità nazionale, e controbilanciare le potenze dell’area, è rimesso in discussione. Le dispute coinvolgono diversi stati: la Repubblica Popolare Cinese, Vietnam, Filippine, Indonesia, Malaysia e Brunei, i quali manifestano diverse rivendicazioni territoriali in base alla storia e alla geografia. La Cina ne rivendica più dell’80%: Spratly, Paracel, Pratas, Macclesfield Bank e Scarborough Shoal; queste sono incluse entro la nine-dash line, una linea tracciata in età repubblicana (ripristinata nel 1992 con la “Law of the PRC on the Territorial Sea and Contiguous Zone”) che va oltre 2000 km dal continente e raggiunge le acque territoriali vicine all’Indonesia e alla Malaysia.
L’interesse per quest’area deriva essenzialmente dalla disponibilità di risorse (petrolio, gas, fondamentali per il fabbisogno energetico di Pechino, pesca) ma è cruciale anche per la sua posizione strategica. Per le sue acque transitano ogni anno circa 5mila miliardi di dollari di merci. Dallo stretto di Malacca a quello di Taiwan vi passano oltre 40.000 navi ogni anno, il 40% del commercio globale via mare. Quasi 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di metri cubi di gas. La Cina stima che tra i 23 e 30 miliardi di tonnellate di petrolio e i 16 trilioni di metri cubi di gas rientrano all’interno della tradizionale linea marittima cinese.
Diritto internazionale e interesse nazionale
Ciò che spinge la Cina a promuovere le “historical claims” sulle isole in questione con la ratifica dell’UNCLOS (la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare) è un mix strategico di priorità dell’interesse e della sicurezza nazionale, nonché obiettivi legati alla crescita economica come sottolineati sia dal Libro Bianco della Difesa[1] che dall’ultimo Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese.
L’UNCLOS stabilisce misure precise: acque territoriali fino a 12 miglia nautiche; zona contigua che arriva fino a 24 miglia nautiche ed in cui lo stato costiero può esercitare controlli atti ad evitare, prevenire, sanzionare, violazioni alle proprie leggi. Sono state poi definite due ulteriori zone, la ZEE o zona economica esclusiva, che arriva fino a 200 miglia nautiche ed in cui lo stato costiero ha diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse. Se esiste una piattaforma continentale che si estende prolungando lo stato costiero, il diritto su di essa può estendersi fino alle 350 miglia nautiche. Pechino non ha ritenuto vincolante tale sentenza, nonostante siano smentite le sue rivendicazioni.
La prima richiesta di arbitrato viene da parte delle Filippine dopo uno scontro nel 2012 nello Scarborough Shoal. Beijing ha rigettato la richiesta di Manila in primis, perché contrario alla Declaration of the Conduct of the Parties in the South China Sea del 2002 (ASEAN)[2] che afferma la risoluzione delle dispute attraverso negoziazioni bilaterali; in secundis, il rifiuto del giudizio di terzi e di un approccio multilaterale. Nel luglio 2016 il Tribunale Permanente di Arbitrato della Aja ha rigettato la legittimità della nine-dash line[3] poiché una violazione del diritto internazionale, come stabilito dalla Convenzione del diritto del mare di Montego Bay, firmata anche dalla Cina.
I vecchi meccanismi per affrontare le dispute non sono più adeguati. Anche tramite le istituzioni, quali l’ASEAN, la Cina fa affidamento a una dichiarazione delle parti per isolare gli Stati Uniti dai negoziati. Questi ultimi supportano la norma della libertà di navigazione come un interesse fondamentale dello stato e una condizione per la stabilità regionale e globale. Contrariamente per i cinesi la libertà di navigazione è condizionata da un obiettivo a lungo termine di ricerca della sicurezza.
Pechino cerca di legittimarsi in accordo con la legge internazionale, ma mantiene il diritto dell’azione coercitiva se provocata. Viceversa, da una prospettiva americana (in assenza di un codice di condotta), ogni azione unilaterale verrebbe percepita come un tentativo di trarre profitto dal cambiamento dello status quo, come esemplificato dallo sviluppo degli assets militari e dell’A2/Ad[4] (anti-access/area-denial), l’insieme dei sistemi introdotti al fine di interdire o ritardare l’arrivo dei rinforzi nemici sul campo di battaglia (anti-access), oppure limitarne la libertà di manovra (area-denial).
Conclusioni: verso un ordine legittimo
La buona notizia è che gli obiettivi cinesi sono semplici da capire: non è il nazionalismo, non il desiderio espansivo o la ricerca dell’egemonia (globale e regionale); la politica estera è guidata dalla dura logica della vulnerabilità geostrategica e dalle pressioni domestiche: le minacce alla sua stabilità sociale, l’integrità del territorio nazionale, la sopravvivenza del regime, assicurare risorse e mercati e mantenere l’economia in crescita. Non ha vocazione missionaria di creare regimi cinesizzati nel mondo, o una visione distintiva della Cina al centro dell’ordine. La diplomazia cinese parla di un ordine plurale, democratico e governato dalla legge. E il mar cinese meridionale ne è l’espressione della volontà della Cina.
La notizia meno buona è che la Cina cerca molta più influenza nell’Asia meridionale e nel mare cinese meridionale, obiettivo che collide con le aspettative securitarie degli stati confinanti, incluse le grandi potenze. Il diritto internazionale, mancando di possibilità di sanzioni con il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza occupato dalla Repubblica Popolare Cinese, non è un efficace strumento per la sicurezza. Un ordine marittimo legittimo è possibile se gli obblighi e le responsabilità della salvaguardia dei territori contesi sono divisi tra gli stakeholders, nonché accordi tra le parti che attenuino le possibilità di crisi e aumentino il data-sharing e l’engagement diplomatico.
Informazioni
Limes, rivista italiana di geopolitica, novembre 2018
“China’s ambition in the South China Sea: is a legitimate maritime order possible?”, Katherine Morton, International Affairs 4, 2016
Domestic Factors in the Making of Chinese Foreign Policy, Andrew J. Nathan, CHINA REPORT 52 (2016)
https://www.scmp.com/week-asia/article/2186449/explained-south-china-sea-dispute
https://www.lowyinstitute.org/issues/south-china-sea
http://eng.mod.gov.cn/TopNews/2015-05/27/content_4587121.htm
Un altro terreno in cui l’azione diplomatica (e militare) è attiva è quello afgano: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/12/un-nuovo-ordine-internazionale-i-rapporti-usa-afghanistan/
[1] Il governo cinese ha pubblicato nove white papers on national defense dal 1998 al 2015. Nell’ambito del peaceful development affrontato nel dicembre 2006 “The world is in a critical period of multi-polarization. For the first time this white paper put forth the concept of national security strategy and comprehensively analyzed China’s security environment. It also publicized the main strategic thoughts on the development of the PLA Army, Navy, Air Force and the SAF as well as on China’s nuclear strategy, and set aside an independent chapter to introduce the Chinese People’s Armed Police Force and the information about border defense and coastal defense.” http://eng.mod.gov.cn/TopNews/2015-05/27/content_4587121.htm
[2] L’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico e la Repubblica Popolare Cinese supportano un codice di condotta sulle acque contese, che consiste in “a set of rules outlining the norms and rules and responsibilities of, or proper practices for, an individual, party or organisation. Asean and China agreed to set up a code of conduct in the South China Sea during a 2002 summit amid heightened tensions in the disputed waters. […] For Beijing, a code of conduct could be a non-binding instrument that can be leveraged to improve regional trust, rather than resolve overlapping claims.” https://www.scmp.com/news/china/diplomacy-defence/article/2105190/what-south-china-sea-code-conduct-and-why-does-it
[3] Il tribunale ha deliberato sulle violazioni cinesi, denunciate dalle Filippine, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). Pechino rivendica la sovranità territoriale sul 90 per cento del mar Cinese meridionale ma, secondo la corte, non ha “diritti storici” su queste acque. I cinesi avrebbero anche interferito con il diritto di pesca dei filippini e danneggiato irreparabilmente la barriera corallina dell’arcipelago delle Spratly. https://pca-cpa.org/en/news/pca-press-release-the-south-china-sea-arbitration-the-republic-of-the-philippines-v-the-peoples-republic-of-china/
[4] A2/Ad: “La Repubblica Popolare ha infatti risposto al suo assillante dilemma rispolverando le lezioni apprese durante le vittoriose campagne terrestri di Mao Zedong contro le armate del Kuomintang e dell’impero giapponese, traslandole al dominio marittimo e combinandole con gli ultimi ritrovati in fatto di tecnologia bellica. A2/Ad (anti-access/area-denial) è l’ormai celebre acronimo coniato nel mondo anglosassone per dare un nome all’insieme dei sistemi messi in campo dalle potenze revisionistiche (come appunto la Cina sui mari) al fne di interdire o ritardare l’arrivo dei rinforzi nemici sul campo di battaglia (anti-access), oppure limitarne la libertà di manovra nel caso in cui questi riuscissero comunque a raggiungere la loro area d’impiego (area-denial).” Alberto De Sanctis, La Cina si sta facendo potenza marittima, Limes Novembre 2018.