Frode processuale

Il reato di frode processuale

Analisi del reato di frode processuale e gli sviluppi della giurisprudenza di legittimità

 

Breve introduzione alla frode processuale

Il reato di frode processuale di cui all’art. 374 c.p., contenuto tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, è finalizzato a tutelare la genuinità della decisione giurisdizionale rispetto ad attività dirette ad alterare il materiale probatorio.

Il legislatore ha inteso così sanzionare, al primo comma, la condotta criminosa volta a modificare lo “stato dei luoghi o delle cose o delle persone”, consistente in un’attività materiale, al fine di trarre in inganno il giudice in sede di ispezione o esperimento giudiziale ovvero il perito nell’esecuzione della perizia, qualora il fatto non sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, con la reclusione da 1 a 5 anni.

Tale limite edittale è stato innalzato a seguito della L. 11 luglio 2016, n. 133. Con questa legge il Legislatore, non solo ha introdotto nel codice penale il nuovo reato di frode in processo penale e depistaggio, ma ha modificato l’art. 374 c.p. “Frode Processuale”, sostituendo le parole “da 6 mesi a 3 anni” alle attuali e sopramenzionate “da 1 a 5 anni”.

Allo stesso modo il secondo comma prevede l’applicabilità della stessa disposizione qualora il fatto sia stato commesso nel corso di un procedimento penale, anche davanti alla Corte Penale Internazionale, o anteriormente ad esso. Tuttavia, in tal caso la punibilità è esclusa, se si tratta di reato per cui non si può procedere che in seguito a querela o istanza, e questa non è stata presentata.

Può così facilmente desumersi che in caso di procedimento civile od amministrativo, la condotta debba intervenire nel corso dello stesso mentre, nel caso di procedimento penale, la condotta può essere anche antecedente all’inizio dello stesso. Tale differenza deriva, da un lato, alla maggiore probabilità di un interesse del privato a modificare lo stato dei luoghi dopo la commissione di un reato ma prima dell’inizio del procedimento e, dall’altro lato, al maggior interesse alla tutela del processo penale[1].

 

Analisi strutturale

Il bene giuridico tutelato

Il delitto di frode processuale, come anticipato, rientrando nel novero dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, ha ad oggetto la tutela dell’interesse della collettività al corretto funzionamento della giustizia.

Da tale assunto ne consegue una quaestio processuale di non poco conto affrontata e cristallizzata dalla giurisprudenza di Corte di Cassazione circa la legittimità dell’opposizione di archiviazione proposta dal privato che abbia presentato denuncia per il reato che ci occupa. Difatti è stata esclusa la legittimità anzidetta in virtù del bene giuridico tutelato dall’art. 374 c.p., in quanto il reato di frode processuale è lesivo della corretta amministrazione della giustizia “relativamente al quale l’interesse del privato assume un rilievo solo riflesso e mediato, tale da non consentire l’attribuzione della qualità di persona offesa, ma solo quella di persona danneggiata dal reato” (cfr. Cass. Pen. sez. VI, n. 5009/2008).

 

Natura di reato di pericolo della frode processuale e la sua configurabilità

Il reato di frode processuale si configura come un reato di pericolo a consumazione anticipata che si perfeziona con la modifica dello stato dei luoghi, purché questa si riveli idonea a trarre in inganno i soggetti destinatari della condotta fraudolenta. Pertanto, l’alterazione o l’immutazione non devono necessariamente trarre in inganno il giudice, ma solamente essere in grado di farlo.

Assume perciò importanza la concretezza dell’idoneità, tanto che la frode processuale non è integrata qualora gli atti di immutazione dei luoghi, delle cose o delle persone siano talmente grossolani e agevolmente percepibili a prima vista da non essere idonei a indurre in errore nessuno, non comportando il pericolo implicato dalla norma incriminatrice de quo. Ne consegue come “il pericolo esista ogni qual volta l’immutazione sia percepibile soltanto grazie ad un esame non superficiale e possa sfuggire al controllo di una persona non particolarmente esperta” (cfr. Cass. Pen. Sez. VI, n. 9956/2016).

Il reato di frode processuale è soggetto ad una precisa scansione fattuale, logica e temporale poiché, in primo luogo, deve essere stato commesso un reato ed in secondo luogo, che l’agente operi in modo da sviare le indagini per trarre in inganno il giudice o il perito immutando lo stato dei luoghi o delle cose, subito dopo un fatto delittuoso e anche antecedentemente all’inizio dell’attività di PG. (Cass. Pen., Sez. V, n. 4058/2016).

Tuttavia, vi sono ipotesi in cui nonostante sia commesso il comportamento tipico del reato di cui si parla lo stesso non si integra.

Difatti, le stesse Sezioni Unite in un caso di omicidio si sono espresse confermando come non integri il reato di frode processuale, in vista di un procedimento penale ancora da iniziarsi, la ripulitura della scena del delitto, posta in essere con la rimozione grossolana e maldestra delle tracce di sangue, facendo difetto in tali atti ogni potenzialità ingannatoria ma soprattutto statuendo che la frode processuale non concorra con il precedente reato commesso quando “gli atti di immutazione dei luoghi, delle cose o delle persone posti in essere nel medesimo contesto spazio-temporale dall’autore di una condotta criminosa, non potendosi attribuire autonomo rilievo al fine della configurazione del concorso materiale di reati, per la sostanziale contiguità e il difetto della necessaria alterità rispetto alla condotta precedente” (cfr. Cass. Pen. SS.UU., n. 45583/2007).

Inoltre, il reato di cui all’art. 374 c.p. non è configurabile qualora la condotta ingannatoria consista nella consegna al consulente tecnico d’ufficio di documentazione fraudolentemente modificata che, tuttavia, risulti irrilevante rispetto all’oggetto dell’accertamento e, pertanto, inidonea ad incidere sulle concrete valutazione e determinazioni del consulente (cfr. Cass. pen. n. 51681/2017).

Pur a fronte della lettera della disposizione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, con interpretazione estensiva, di includere anche gli accertamenti ex art. 354 c.p.p.[2] tra le attività tutelate, in quanto si tratta comunque di mezzi di ricerca della prova (che l’art. 246 c.p.p. del resto classifica come ispezione) (cfr. Cass. Pen., Sez. IV n. 47172/2007), mentre ne ha escluso la rilevanza nell’ipotesi del procedimento di ricorso al prefetto avverso l’ordinanza ingiunzione di pagamento di sanzione amministrativa poiché il reato di frode processuale tutela solo lo stretto contesto dell’attività giurisdizionale (cfr. Cass. Pen., Sez. VI n. 37409/2001).

Per quanto concerne, invece, la nozione di procedimento civile, in esso, oltre al procedimento di cognizione e quello di esecuzione, debbono essere considerati anche i procedimenti cautelari (cfr. Cass. Pen., Sez. VI n. 41931/2003).

 

Elemento soggettivo e causa di non punibilità

Per la commissione del reato di frode processuale è necessario che il reo agisca consapevolmente, ossia con volontà cosciente di alterare lo stato dei luoghi o delle persone, al fine di inquinare le fonti di prova o di ingannare il Giudice nell’accertamento dei fatti (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 23615/2005).

Pertanto, requisito psicologico è da identificarsi con il dolo specifico, per la cui dimostrazione è strumentale l’accertamento che non vi siano altre finalità dell’azione.

Oltre alle ipotesi sopra descritte il comma 2 dell’art. 374 c.p. prevede l’esclusione della punibilità se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, anche davanti alla Corte penale internazionale, o anteriormente ad esso, ma non si può procedere che in seguito a querela o istanza, e questa non è stata presentata.

In ordine al reato di frode processuale è, altresì, opportuno richiamare l’esimente di cui all’art. 384, comma 1 c.p. essendo applicabile anche quando lo stato di pericolo – per la libertà o per l’onore – sia stato cagionato volontariamente dall’agente, come statuito dalla Cassazione, la quale aveva ritenuto – in un caso ove, a seguito di un incidente sul lavoro occorso ad un dipendente, il caposquadra aveva mutato lo stato dei luoghi, in modo da far apparire una diversa dinamica dei fatti ed il rispetto delle norme antinfortunistiche – che l’agente, oltre che per favorire il suo datore di lavoro, aveva agito per evitare una imputazione di concorso nel reato di lesioni personali (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, n. 20454/2009)

 

Rapporto con altri reati

Il delitto di frode processuale può concorrere formalmente con quello di violazione della pubblica custodia di cose ex art. 351 c.p. stante la diversità dei beni giuridici tutelati dalle rispettive norme incriminatrici – qualora l’immutazione dello stato della cosa in custodia venga realizzata attraverso la sua sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento per la finalità di trarre in inganno il giudice – poiché da un lato, l’art. 351 c.p. tutela l’interesse della amministrazione ad assicurare la particolare custodia ufficiale di determinate cose  mentre dall’altro lato l’art. 374 c.p., come anzidetto tutela dell’interesse della collettività al corretto funzionamento della giustizia (Cass. Pen., Sez. V, n. 20720/2012).

Nel rapporto tra falsa perizia commessa inducendo in errore il perito (artt. 48 e 373 c.p.) per mezzo di un fatto costituente frode processuale (art. 374), va applicata solo la disposizione dell’art. 373 che prevede una offesa maggiore dello stesso bene giuridico (Cass. Pen., Sez. VI n. 1531/1999).

Infine, nel rapporto tra l’ipotesi criminosa della frode processuale e il nuovo reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 introdotto con l. 11 luglio 2016, n. 133), quest’ultima è norma speciale, anche rispetto alla frode processuale.

Informazioni

Roberto Giovagnoli, Codice Civile Annotato con la Giurisprudenza, edizione 2020, Giuffrè Francis Lefebvre

[1] Per un approfondimento esaustivo sul processo penale, si rimanda a http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/17/uno-schema-pratico-del-processo-penale/

[2] Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone


Cyberbullismo

Cyberbullismo: alcuni dati recenti

Le più recenti statistiche confermano la crescita esponenziale del fenomeno del cyberbullismo e la necessità di apportare strumenti di prevenzione e sensibilizzazione

 

Introduzione

Lo strumento digitale è sempre più presente nelle nostre vite, divenendo elemento fondamentale ed imprescindibile non solo in ambito lavorativo e di studio, ma altresì nel nostro quotidiano e nelle interazioni sociali con gli altri. D’altronde si pensi alla possibilità di poter comunicare istantaneamente con altre persone (familiari, amici, colleghi od anche estranei) di tutto e in tutto il mondo. Sebbene questo sia uno degli aspetti estremamente positivi, siffatti dispositivi tecnologici, soprattutto in punto di comunicazione, celano alcune problematiche significative, che stanno assumendo sempre maggior rilievo ed importanza, su tutte il cyberbullismo.

Difatti la discussione sulla repressione e la prevenzione di questo fenomeno è tornata in auge, in particolare a seguito di episodi avvenuti durante l’utilizzo della Didattica a Distanza negli istituti scolastici per far fronte alla diffusione del covid-19, ove si è assistito a numerose denunce da parte delle scuole, di un uso scorretto delle piattaforme digitali, in quanto gli insegnati divenivano bersaglio di scherno e pesanti insulti da parte, non solo dei loro studenti, ma anche ad opera di terzi, che condiviso loro il link della lezione, partecipavano alla stessa appositamente per offendere e denigrare[1].

 

I tratti generali del cyberbullismo

Il termine cyberbullismo è stato coniato dal docente canadese Bill Belsey per identificare e definire il c.d. bullismo virtuale. Si tratta, dunque, di manifestazioni di azioni violente ed intimidatorie realizzate da un soggetto o un gruppo, mediante l’utilizzo di strumenti elettronici (sms, mms, foto, video, e-mail, telefonate, siti web, social, ecc.), il cui obiettivo è quello di provocare danni, solitamente, ad un coetaneo incapace di difendersi.

Pertanto, emergono fin da subito le caratteristiche tipiche di tale fenomeno, che lo distinguono dal bullismo c.d. ordinario, e che lo rendono inevitabilmente più pericoloso e più complesso sia da reprimere che da prevenire.

Su tutte si evidenziano le principali, quali:

  • Accessibilità, pervasività ed anonimato: il cyberbullo può raggiungere la sua vittima in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo grazie ai cellulari sempre accesi e connessi a Internet;
  • Persistenza del fenomeno ed ampiezza di portata: il materiale diffamatorio pubblicato su Internet può rimanere disponibile online a lungo e può essere ritrasmesso ed amplificato ad un numero infinito di spettatori;
  • Mancanza di feedback emotivo: il cyberbullo, non vedendo le reazioni della sua vittima ai suoi comportamenti, non è mai totalmente consapevole del danno arrecato;
  • Attivazione di meccanismi di disempegno morale: la minimizzazione della propria condotta e la conseguente scarsa assunzione di responsabilità personale.

 

Tali caratteristiche rendono il cyberbullismo difficile da reprimere in sede penale. Sebbene le manifestazioni concrete di tale fenomeno integrino ipotesi di reato (dalle molestie ex art. 660 c.p., alla diffamazione e agli atti persecutori, rispettivamente agli artt. 595 e 612 bis c.p., sino nella peggiore delle ipotesi all’istigazione al suicidio di cui all’art. 580 c.p.), giova rilevare come il diritto penale, tuttavia, non abbia fornito un efficace deterrente alla realizzazione di tali condotte criminose.

Difatti, dapprima l’individuazione del soggetto attivo risulta estremamente difficoltosa, e nell’ipotesi in cui il soggetto venga rintracciato, spesso esso si rivela minorenne, non in grado di comprendere l’effettiva portata lesiva della propria azione. Ciononostante, il cyberbullismo non deve erroneamente pensarsi quale fenomeno esclusivamente di portata giovanile, in quanto gli stessi adulti ne sono sia autori che vittime, e ciò connota con maggiore gravità il fenomeno, considerato che nemmeno quest’ultimi sono consapevoli dei disastrosi danni che possono generare[2].

 

Il cyberbullismo nell’ordinamento italiano: definizione e rimedi

La crescente preoccupazione circa i numerosi episodi di cyberbullismo, ha portato necessariamente il Legislatore ad affrontare il tema e dopo un lungo iter, nel 2017 è stata approvata la Legge 29 maggio 2017, n. 71, recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”.

Sin da subito emerge l’intenzione del Legislatore di predisporre una definizione più ampia possibile di cyberbullismo ricomprendendovi “qualunque forma di pressione, aggressione,  molestia,   ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento  illecito  di  dati personali in danno  di  minorenni,  realizzata  per  via  telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi  ad  oggetto  anche uno o  più componenti  della  famiglia  del  minore  il  cui  scopo intenzionale e predominante sia quello di  isolare  un  minore  o  un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco  dannoso, o la loro messa in ridicolo”.

Altro tratto significativo della presente Legge, è la ratio sanzionatoria predisposta, giacché è stato ritenuto preferibile contrastare il cyberbullismo, non solo mediante il ricorso al diritto penale, bensì privilegiando “azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l’attuazione degli interventi senza distinzione di età nell’ambito delle istituzioni scolastiche”.

In primis, all’art. 2 si prevede la tutela del minore di età superiore ai 14 anni che sia stato vittima di atti di cyberbullismo, attraverso l’inoltro al titolare del trattamento di dati online o al gestore di un sito internet o di un social media, la richiesta di oscurare, rimuovere o bloccare qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet. A seguito della segnalazione, il soggetto responsabile e destinatario della stessa deve attivarsi tempestivamente, comunicando entro ventiquattr’ore la presa in carico dell’istanza e provvedendo entro quarantotto ore all’oscuramento, alla rimozione o al blocco richiesto. Nell’ipotesi in cui sia stato impossibile individuare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media, o il soggetto preposto sia rimasto inerte non provvedendo entro le 48 ore, l’interessato potrà rivolgersi direttamente al Garante per la protezione dei dati personali, autorità amministrativa che nelle successive quarantotto ore provvederà a sollecitare l’adozione di provvedimenti da parte del gestore del sito.

In secundis, sono state previste una serie di misure in ambito scolastico come l’individuazione, in ogni scuola, di un docente quale responsabile, “con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo, anche avvalendosi della collaborazione delle Forze di polizia nonché delle associazioni e dei centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio”.

Si prevede altresì il dovere per il dirigente scolastico che venga a conoscenza di atti di cyberbullismo di informare le famiglie dei minori coinvolti, attivando contemporaneamente azioni di carattere educativo (ed eventualmente adottando anche provvedimenti di carattere disciplinare nei confronti degli studenti resisi autori di tali condotte).[3]

Infine, all’art. 7 si è introdotta un nuovo strumento di contrasto al fenomeno del cyberbullismo, quale l’ammonimento al questore già previsto per il reato di stalking. Così facendo si è estesa la tutela per via amministrativa a questo settore, in modo da coinvolgere un’autorità pubblica che, segnalatogli l’episodio, possa intervenire nel minor tempo possibile ed interrompere le condotte aggressive, decidendo di convocare il minore individuato come autore, alla presenza di almeno un genitore o di altro soggetto esercente la responsabilità genitoriale, per ammonirlo oralmente. Inoltre, lo stesso art. 7, prevede che gli effetti dell’ammonimento cessino automaticamente nel momento in cui il giovane che ne è stato destinatario raggiunge la maggiore età.

 

Un fenomeno in costante crescita: i recenti dati statistici

Certamente lo sviluppo incessante del cyberbullismo trova la sua genesi nell’esponenziale crescita dell’utilizzo degli strumenti informatici[4].  Si pensi come solo in Italia, il rapporto di We Are Social abbia stimato che l’uso di internet, dal 2018 al 2019, sia aumentato del 27%.

Contestualmente, si è abbassata anche la fascia di età che utilizza smartphone e naviga quotidianamente su internet, tanto che fra gli adolescenti di 15-17 anni, la percentuale di chi usa tutti i giorni internet è salita al 74%[5].

L’uso indiscriminato di tale strumento ha determinato, come indicato dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps)[6], in occasione della Giornata Nazionale contro il Bullismo e il Cyberbullismo che si celebra il 7 febbraio, che oltre il 50% dei ragazzi tra gli 11 e 17 anni ha subito episodi di bullismo, e tra chi utilizza quotidianamente il cellulare (85,8%), ben il 22,2% riferisce di essere stato vittima di cyberbullismo[7].

Le statistiche confermano come il cyberbullismo colpisca di più le ragazze, tanto che il 12,4% delle giovani ha ammesso di esserne state vittima, rispetto al 10,4% dei ragazzi. Questa differenza è in particolare determinata dalle sofferenze provocate da commenti a sfondo sessuale, subiti dal 32% delle ragazze, contro il 6,7% dei ragazzi.[8]

Viceversa, le provocazioni in rete che disturbano il 9,5% degli adolescenti, colpiscono di più i maschi (16%) delle femmine (7,2%).

Numeri elevatissimi e in costante crescita che hanno acceso un serio campanello di allarme sul cyberbullismo. La violenza in rete viene infatti ad oggi percepita da 4 adolescenti su 10 (39,7%) come estremamente pericolosa. Ma ciò non è solo una mera percezione. Difatti nel 2019 sono stati 460 i casi di bullismo trattati dalla Polizia Postale che hanno visto vittima un minorenne (52 avevano meno di 9 anni), il 18% in più rispetto al 2018, quando i casi trattati sono stati 389.

 

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni sopraesposte emerge chiaramente quanto sia fondamentale investire su programmi di prevenzione, istruzione e sensibilizzazione nei settori ove si forma la personalità del minore, quali la famiglia e scuola su tutti.

Servono linee guida che garantiscano al minore un uso più consapevole della rete, ma solo nel 55% delle famiglie vengono date limitazioni sull’uso della rete o regole di comportamento, che riguardano pressoché limiti di durata.

Sul punto, giova rammentare come gli studi abbiano evidenziato che la percezione della dannosità del cyberbullismo nel minore, aumenti con la consapevolezza di siffatta pericolosità da parte degli adulti.

Pertanto, essendo la percezione che adulti e adolescenti hanno del livello di rischio nel web ancora differente, suggerisce che vadano migliorati la comunicazione e il dialogo su queste tematiche tra genitori e insegnanti e i loro figli/adolescenti, individuando, anche, da parte degli adulti modalità di rapporto migliori per approcciare gli adolescenti[9].

Informazioni

Mascheroni, G. e Ólafsson, K. (2018). Accesso, usi, rischi e opportunità di internet per i ragazzi italiani. I primi risultati di EU Kids Online 2017. EU Kids Online e OssCom.

Simona C.S. Caravita – Valeria Della Valle – Laura Ghiringhelli, Il cyberbullismo nella percezione di genitori, figli e insegnanti, Consultori Familiari Oggi 27 (2019/1) 41-53.

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/nemmeno-coronavirus-ferma-cyberbullismo-insulti-prof-piattaforme-online-ADJfBZF

[2]  Martorana M., Pinelli L., Bulli in rete, ecco le tre leve per combattere il fenomeno, https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/bulli-in-rete-ecco-le-tre-leve-per-combattere-il-fenomeno/

[3] Bertelli Motta M., Cyberbullismo: la guida completa

[4] Statistiche social network 2019: i dati sull’Italia https://www.digitalic.it/internet/social-network/statistiche-social-network-2019-italia

[5] Mascheroni, G. e Ólafsson, K. (2018). Accesso, usi, rischi e opportunità di internet per i ragazzi italiani. I primi risultati di EU Kids Online 2017. EU Kids Online e OssCom.

[6] https://sip.it/2020/02/06/7-febbraio-2020-giornata-nazionale-contro-il-bullismo-e-il-cyberbullismo/

[7] https://www.lastampa.it/cronaca/2020/02/07/news/bullismo-piu-del-50-dei-ragazzi-tra-gli-11-e-17-anni-sono-vittime-di-attacchi-cyberbullismo-piu-colpite-le-ragazze-1.38437385

[8] Per approfondire il tema dei rati a sfondo sessuale mi si consenta di rimandare a http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/08/revenge-porn/

[9] Simona C.S. Caravita – Valeria Della Valle – Laura Ghiringhelli, Il cyberbullismo nella percezione di genitori, figli e insegnanti, Consultori Familiari Oggi 27 (2019/1) 41-53.


Reato di rissa

Il reato di rissa: un reato plurisoggettivo

Analisi del reato di rissa mediante gli sviluppi della giurisprudenza di legittimità più recente

 

Profili generali

La rissa è il delitto previsto dall’art. 588, del Codice Penale, il quale dispone:

«Chiunque partecipa a una rissa è punito con la multa fino a 309 euro.

Se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa.»

 

Il reato in oggetto è collocato nell’alveo dei delitti contro la persona, giacché i beni giuridici meritevoli di tutela penale sono da ravvisare nell’incolumità personale e la vita dei partecipanti alla rissa ed altresì dei soggetti terzi estranei alla suddetta.

In quanto la condotta può essere posta in essere da chiunque, la rissa si presenta quale reato comune, e inoltre come reato plurisoggettivo, poiché ai fini della configurazione richiede la necessaria partecipazione di più soggetti.

 

Pronunce della Cassazione sul reato di rissa

Sull’integrazione della rissa quale fattispecie criminosa la Cassazione è unanime nel ravvisare il reato in questione come di pericolo rispetto al solo bene giuridico dell’incolumità individuale e non del bene giuridico dell’incolumità pubblica, ritenuto una sola conseguenza del reato. Difatti, il verificarsi di un turbamento dell’incolumità pubblica, si pensi all’ipotesi di una rissa in uno spazio pubblico o aperto al pubblico, non rappresenta un requisito richiesto dalla norma incriminatrice, tantomeno circostanza condizionante il reato di rissa. (ex multis, Cass. Pen. 25 febbraio 1988, Chibbono)

Con riguardo l’elemento oggettivo, è necessario che un gruppo di persone venga alle mani con il proposito di ledersi reciprocamente, tanto che il reato di cui all’art. 588 c.p. è integrato anche nell’ipotesi in cui i partecipanti non siano stati coinvolti tutti contemporaneamente nella colluttazione e l’azione si sia sviluppata in varie fasi e si sia frazionata in singoli episodi, tra i quali non vi sia stata alcuna apprezzabile soluzione di continuità, essendosi tutti seguiti in rapida successione, in modo da saldarsi in un’unica sequenza di eventi (Cass. Pen., sez. V, 23 febbraio 2011, n. 7013).

Mentre, per ciò che concerne l’elemento soggettivo risulta sufficiente il mero dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di partecipare alla contesa con animo offensivo. Pertanto, i gruppi contendenti devono essere guidati da un animus volto al solo scopo di arrecare una lesione ai contendenti.

Ne consegue come si debba escludere la fattispecie criminosa della rissa nelle ipotesi in cui un gruppo di persone ne assalga deliberatamente altre e queste si limitino a difendersi (Cass. Pen., sez. I, 20 maggio 2013, n. 21353) poiché verrebbe a mancare la parte avversaria corrissante, ovvero nei confronti di chi interviene in una colluttazione in corso tra terzi allo scopo di difendere alcuno di essi (Cass. Pen. Sez. I, 23 aprile 1971, n. 1324).

Inoltre, il comma II dell’art. 588 c.p., prevede un aumento di pena consistente nella reclusione da tre mesi a cinque anni, qualora dalla rissa taluno rimanga ucciso o riporti lesioni personali ovvero l’uccisione o la lesione avvenga immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa.

In tema l’indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità ha statuito come l’art. 588, comma I, sia applicabile anche nei confronti del compartecipe che abbia riportato lesioni personali, in quanto colui che partecipa volontariamente alla condotta violenta collettiva diretta ad offendere oltre che difendere, si assume la responsabilità per rissa semplice o aggravata a seconda degli effetti della colluttazione (Cass. Pen. Sez. V, 2 febbraio 2009, n. 4402).

 

Sul numero necessario di partecipanti

Come si evince da un’interpretazione letterale, il Legislatore non ha fornito alcuna definizione precisa della condotta punibile ai sensi del sopracitato articolo, costringendo dottrina e giurisprudenza a circoscrivere la portata applicativa della norma. Innanzitutto, una prima problematica si era creata attorno al numero necessario ai fini della configurazione della rissa. Difatti la norma non specifica quanti soggetti debbano essere coinvolti. Tuttavia, sul numero minimo dei partecipanti alla rissa o dei cosiddetti corrissanti, ad oggi giurisprudenza e dottrina sono concordi sulla sufficienza della partecipazione di almeno tre contendenti, giacché se il fatto fosse commesso da un numero inferiore, ossia di due, si verrebbe a configurare il reato di lesioni (Cass. Pen., Sez. V 17 marzo 2014, n. 12508).

 

Il rapporto con la legittima difesa

Altra quaestio risolta dalla Suprema Corte riguarda l’applicabilità della causa di giustificazione della legittima difesa di cui all’art. 52 c.p. alla rissa[1]. Consolidato orientamento di legittimità esclude che la scriminante suddetta possa trovar spazio considerato che i corrissanti sono ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi ed accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con la conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata (Cass. Pen. Sez. V, 29 novembre 2019, n. 15090). Tuttavia, tale principio è derogato solo in via eccezionale, ove l’esimente in esame può essere riconosciuta qualora, in costanza di tutti gli altri requisiti voluti dalla legge, vi sia stata un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia un’offesa che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta (Cass, Pen. Sez. V, 23 luglio 2015, n. 32381).

Per fini di completezza appare opportuno per il sottoscritto ravvisare anche la sentenza di merito del Tribunale di Ascoli Piceno, estremamente recente, che chiamata ad esprimersi sul rapporto tra rissa e legittima difesa, ha dichiarato che quest’ultima ricorra nel caso in cui il soggetto si sia lasciato coinvolgere al solo fine di resistere alla violenza subita, contrapponendo la sua violenza a quella degli avversari sulla base di una reciproca sopraffazione (Trib. Ascoli Piceno, 3 giugno 2020, n. 272).

 

Provocazione e rissa

Infine, sul tema della provocazione ex art. 62, n. 2 c.p., alla stregua di quanto anzidetto per la legittima difesa, essa risulta configurabile solo in via eccezionale, nell’ipotesi in cui l’azione offensiva di uno dei due gruppi contendenti sia stata preceduta e determinata da una tracotante pretesa, eticamente e giuridicamente illecita o da una gravissima offesa proveniente esclusivamente dall’altro gruppo (Cass. Pen., sez. V, 19 febbraio 2013, n. 8020).

 

Il concorso di persone

Prima di procedere ad affrontare quanto statuito dalla Cassazione in tema di concorso esterno nel reato di rissa, secondo lo scrivente, appare opportuno delineare in modo sintetico, e mi auguro esaustivo, il fenomeno del c.d. concorso di persone di cui all’art. 110 c.p.

Il concorso di persone nel reato è costituito da quattro elementi quali:

  • la pluralità degli agenti,
  • la realizzazione del fatto tipico,
  • il contributo causale di ogni singolo concorrente alla realizzazione ed infine
  • la volontà di cooperare nell’evento.

 

La condotta del concorrente può esplicarsi attraverso compimento materiale degli atti che costituiscono il reato, ovvero essere un mero impulso psicologico: si parla nel primo caso di concorso materiale e nel secondo di concorso morale.

Tuttavia, si ravvisa un importante distinguo tra:

  • concorso c.d. necessario di persone nel reato e
  • concorso c.d. eventuale.

Il primo si configura qualora la norma preveda più condotte che siano tutte necessarie alla realizzazione del reato e debbano essere tenute da più soggetti (ad esempio oltre che dal reato di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., tale ipotesi è costituita proprio dal reato di rissa).

Viceversa, sussistono i reati a concorso eventuale, in cui indifferentemente la fattispecie può essere commessa da un singolo soggetto o da una pluralità di persone.

In via di ulteriore precisazione, all’interno del concorso necessario si distingue tra:

  • reati plurisoggettivi propri in cui tutti i soggetti sono punibili, e
  • reati plurisoggettivi impropri in cui solo taluno dei soggetti sono puniti (esempio l’usura).

É inoltre ravvisabile un’aggiuntiva specificazione nel novero dei singoli reati plurisoggettivi, distinguendo tra:

  1. reati plurisoggettivi collettivi, ove l’attività dei soggetti è diretta verso un univoco risultato;
  2. reciproci, in cui le condotte criminose collaborano ai fini del medesimo scopo;
  3. bilaterali, in cui le condotte si muovono l’una contro l’altra.

In tale contesto si inserisce il tema del concorso esterno, istituto di matrice giurisprudenziale creatosi con particolare riferimento al c.d. concorso esterno nei reati associativi, in cui si ammette la possibilità di un concorso eventuale nel reato associativo o comunque a concorso necessario.

Tuttavia, non vi è univocità di vedute in seno alla dottrina.

Per la tesi affermativa il concorrente esterno fornisce un contribuito causale, rilevante senza voler far parte dell’associazione, e senza necessariamente condividerne gli scopi, pur nella consapevolezza tramite la propria condotta di apportare un ausilio alla medesima.

La tesi negativa trova forza, in assenza di modifiche legislative, sull’applicazione coerente del principio del terzo escluso[2].

 

Il concorso esterno nel reato di rissa

Come accennato nel primo paragrafo, la rissa si configura quale reato plurisoggettivo necessario bilaterale. In particolare, la fattispecie criminosa in esame rientra tra i cosiddetti reati plurisoggettivi necessari propri, ove tutti i soggetti coinvolti nella realizzazione della fattispecie delittuosa sono punibili. Tuttavia, per essere perfezionati, tali delitti richiedono non solo la partecipazione di più persone alla realizzazione del fatto tipico, ma altresì che ciascuna di esse ponga in essere un’altrettanta tipica condotta.

Difatti, come analizzato nei paragrafi precedenti, perché un soggetto possa rispondere del delitto di cui all’art. 588 c.p., occorre che abbia partecipato alla rissa, attraverso cioè una condotta attiva e che, secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, debba sostanziarsi in una contesa violenta tra almeno tre persone.

Pertanto, non ogni comportamento, sebbene posto in essere nell’ambito spazio-temporale in cui la rissa ha luogo, potrà assumere rilevanza penale ai sensi dell’art. 588 c.p.

Si pensi all’ipotesi in cui soggetti diversi da quelli coinvolti nella colluttazione tengano condotte atipiche rispetto a quelle che caratterizzano il reato plurisoggettivo e che tuttavia determinino o agevolino la commissione del reato.

In questo caso emerge la problematica attinente alla compatibilità del concorso eventuale di persone con reati quali la rissa, necessariamente plurisoggettivi.

 

Un caso recente di rissa

Sul punto è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione, chiamata a giudicare in ordine al ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Messina sez. Minorenni, la quale aveva confermato la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato di rissa a seguito della concessione del perdono giudiziale[3].

Nel caso di specie, il Giudice di Primo Grado aveva ravvisato la responsabilità dell’imputato, pur avendo escluso che egli avesse materialmente partecipato alla rissa, sull’assunto che l’aver “accerchiato” i contendenti insieme ad altre persone avesse rafforzato il loro proposito criminoso.

Il ricorso, dunque, muoveva su due motivi: ossia il numero effettivo di partecipanti alla rissa, che dall’istruttoria è emerso essere due, e che l’attività posta in essere dall’imputato è da considerarsi una condotta atipica.

Tali motivi sono strettamente connessi poiché qualificando come atipica la condotta del ricorrente, difetterebbe il numero minimo di partecipanti richiesto per l’integrazione del reato di rissa, ossia tre.

La Corte di Legittimità, difatti, ravvisa siffatto vizio sul numero minimo, ma ne riscontra un ulteriore relativo alla mancata motivazione del contributo causale dell’imputato al rafforzamento del proposito criminoso dei contendenti.

Per tali motivi, la Cassazione annullava con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, sez. Minorenni per un nuovo esame che ricostruisca puntualmente l’episodio contestato al fine di comprendere se la condotta dell’imputato fosse effettivamente un segmento della rissa ovvero altro e precedente, ma soprattutto verificare la sussistenza di ulteriori soggetti compartecipi, rispetto ai due indicati.

Tale sentenza assume grande rilievo nel nostro caso, poiché la Corte d’Appello nel ricostruire i fatti storici secondo le risultanze probatorie si dovrà attenere al principio sancito dalla Suprema Corte la quale conferma la configurabilità del concorso esterno nel reato di rissa “attraverso la realizzazione di condotte atipiche, come l’istigazione ed il rafforzamento della volontà dell’effettivo partecipe alla rissa, purché, ovviamente, si traducano in un effettivo e concreto contributo alla sua consumazione” (Cass. Pen., Sez. V, 3 ottobre 2019, n. 51103).

Informazioni

A. Bazzichi, I presupposti per la responsabilità del concorrente esterno nel reato di rissa, cit., in CamminoDiritto, 11 marzo 2020

[1] Per un approfondimento sul tema della legittima difesa, si rimanda a http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/10/la-legittima-difesa-nella-cronaca-e-nel-codice/

[2] A. Bazzichi, I presupposti per la responsabilità del concorrente esterno nel reato di rissa, cit., in CamminoDiritto, 11 marzo 2020

[3] Mi si consenta rinviare sul perdono giudiziale a http://www.dirittoconsenso.it/2020/02/18/perdono-giudiziale-processo-penale-minorile/


Reati agroalimentari

I reati agroalimentari nel futuro del d.lgs. 231/2001

Il novero dei reati presupposto si estende ai reati agroalimentari e un nuovo modello 231 ad hoc

 

Premessa ai reati agroalimentari

La sempre maggiore attenzione dei consumatori nella selezione, acquisto ed utilizzo dei prodotti alimentari è in continua crescita. Vi è una costante ricerca di prodotti sani e di alta qualità che siano il risultato di un procedimento trasparente, tracciabile e genuino, ove al produttore è richiesto dal mercato l’innalzamento del livello di diligenza e cura.

Il fine è quello di garantire sia il maggior benessere della comunità, sia quello degli animali destinati all’allevamento ed al consumo, ad esempio, mediante una serie di regolamentazioni specifiche e settoriali capaci di guidare gli operatori economici nella scelta e nell’utilizzo dei prodotti chimici da destinare ai mangimi ed ai prodotti alimentari di nostro diretto consumo.

Tuttavia, l’attuale mercato mondiale degli alimenti appare inevitabilmente dominato dalle multinazionali del settore, soggette alla globalizzazione e a continue aggregazioni societarie. Tutto ciò determina un aumento di investimenti nel settore alimentare rendendo quindi la food company, “il principale referente criminologico” del settore agro-alimentare[1].

Da siffatti motivi emerge la necessità di predisporre una responsabilizzazione diretta delle società commerciali per la realizzazione dei c.d. food crimes[2].

Pertanto, appare evidente come anche nel settore agroalimentare possano configurarsi attività imprenditoriali scorrette, unicamente volte ad aumentare i profitti dell’ente, violando le prescrizioni che regolamentano la produzione, conservazione e vendita di prodotti alimentari.

A titolo esemplificativo, si pensi alla grande impresa che produca e prepari alimenti con modalità che non ne garantiscano la genuinità oppure alla grande catena di distribuzione che conservi e poi venda alimenti alterati o in cattivo stato di conservazione o la società con molti dipendenti che, nell’ambito del servizio mensa, serva a costoro alimenti non genuini[3].

Alla luce di queste brevi premesse, risulta altresì necessario il coinvolgimento delle persone giuridiche nei c.d. reati agroalimentari, che sebbene configurino condotte criminose di rilevante portata, ad oggi attinenti a vere e proprie attività d’impresa, tuttavia tali fattispecie criminose non sono richiamate tra i c.d. reati presupposto, capaci di configurare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. 231/2001.

 

Il progetto di riforma Castelli sui reati agroalimentari

Il 25 febbraio 2020, il Consiglio dei Ministri ha approvato il Ddl n. 283 rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”.

Il documento riprende i contenuti del precedente DDL S n. 2231 del 2016, con il quale era stato recepito il progetto di riforma dei reati in materia agroalimentare elaborato dalla Commissione Castelli nel 2015.

L’intento originario della riforma è rimasto inalterato, dimostrando una particolare lungimiranza nel capire e comprendere l’evoluzione del settore alimentare, in particolare rivolgendo una grande attenzione su quella che sarebbe, e ad oggi è diventata la criminalità “alimentare”, sempre più dominata, come anticipato nella premessa, da società commerciali e da grandi multinazionali.

Una riforma organica volta ad incidere, da un lato, sulle disposizioni del codice penale e della legislazione speciale succedutasi nel tempo, dall’altro lato sull’assetto dei reati presupposto contemplati nel D.lgs. 231/2001, mediante l’inserimento di nuove fattispecie criminose a tutela degli interessi protetti in materia alimentare, dovuta alla riscontrata mancanza di una disciplina ad hoc della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati agroalimentari.

É proprio dalla Relazione di Accompagnamento al DDL S n. 283, che è possibile ricavare i due macro-obbiettivi prefissati dal Legislatore: la tutela della salute e la tutela dell’ordine economico, in quanto oltre ai consumatori è importante tutelare anche le imprese dalla concorrenza sleale.

Si predispone una rielaborazione della struttura e delle ipotesi delittuose poste a tutela degli interessi in materia alimentare e l’introduzione, nell’ordinamento, di strumenti idonei a contrastare i fenomeni evolutivi di frode alimentare, sempre più manifestatasi mediante condotte illecite, frutto di politiche ed attività commerciali.

Per il perseguimento degli obbiettivi anzidetti, la Commissione intervenne in modo organico sia sulla legge di riferimento in materia, ossia la Legge n. 283/1962, sia sul codice penale[4], anche mediante la contemplazione di nuove fattispecie delittuose, quali il reato di agropirateria (art. 517 quarter 1 c.p.) e di disastro sanitario (art. 445 bis c.p.).

Quest’ultimo “si staglia come ipotesi aggravata e autonoma di singoli mini-disastri” realizzabile quando dai fatti di cui agli artt. 439 bis, 440, 441, 442, 443, 444 e 445 c.p., e anche del delitto di commercio all’ingrosso di alimenti non sicuri, pregiudizievoli per la salute o inadatti al consumo umano, di cui ai commi 1 e 2 del riformato art. 5 della legge n. 283 del 1962, siano derivate per colpa:

(a) la lesione grave o la morte di tre o più persone e

(b) il pericolo grave e diffuso di analoghi eventi ai danni di altre persone, facendo scattare una sanzione particolarmente afflittiva, come sempre accade per i reati aggravati dall’evento.

 

Particolare rilievo ai fini della nostra disamina assume il reato di agropirateria, volto a contrastare il fenomeno di aggressione stabile, organizzata e massiccia al patrimonio agroalimentare, che si manifesta tradizionalmente attraverso illeciti commessi nell’ambito delle attività d’impresa. Dunque, l’intento è quello di reprimere tutti quei comportamenti criminosi e dannosi che compromettano il prodotto alimentare ab origine, come le condizioni degli animali, l’uso di prodotti chimici ecc…

Ma per ciò che concerne l’interesse del presente elaborato, la riforma incide sulla disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al d.lgs. 231/2001, attraverso l’ingresso dei reati agroalimentari nel novero dei reati presupposto, in modo da favorire l’adozione di modelli di organizzazione e controllo dell’attività d’impresa basati sulla prevenzione del fenomeno di tali reati.

 

La responsabilità da illecito alimentare e il nuovo modello 231

L’intervento della Commissione può essere ricondotto a tre macro-direttrici desumibili dalle Linee Guida per lo schema di disegno di legge recante “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”:

  1. estendere la responsabilità degli enti ai reati agroalimentari di maggiore gravità;
  2. incentivare l’applicazione concreta delle norme in tema di responsabilità degli enti;
  3. favorire l’adozione e l’efficace attuazione di più puntuali modelli di organizzazione e di gestione da parte delle imprese anche di minore dimensione.

 

Si è dunque predisposta una ristrutturazione della parte speciale in materia punitiva del D. Lgs. 231/2001, non limitandosi al mero inserimento di nuovi reati, bensì attraverso la scomposizione dell’art. 25 bis1 d.lgs. 231/2001 in tre nuovi e distinti capi destinati a coprire le tre direzioni di tutela percorse dalla riforma, articolandosi secondo la seguente struttura:

  • Art. 25 bis.1: che rimane dedicato ai “Delitti contro l’industria e il commercio”;
  • Art. 25 bis.2 rubricato “Delle frodi in commercio di prodotti alimentari”;
  • Art. 25 bis.3 rubricato “Dei delitti contro la salute pubblica”.

 

Sul piano sanzionatorio oltre alle sanzioni pecuniarie ricomprese tra le 100 e le 800 quote nei casi di cui all’art. 25 bis.2 e tra le 300 e le 1000 quote nei casi di cui all’art. 25 bis.3, sono previste anche le temute sanzioni interdittive di cui all’art. 9 comma 2 del D. Lgs. 231/2001, da applicare:

  • con riferimento all’art. 25 bis.2. limitatamente ai soli casi di condanna per il summenzionato reato di “Agropirateria”; e
  • con riferimento all’art. 25 bis.3. nei casi di condanna per tutte le fattispecie ivi menzionate secondo una durata definita sulla base della gravità dell’illecito commesso.

 

In entrambi i casi, poi, alla previsione delle sanzioni interdittive temporanee viene prevista la possibilità di ricorrere all’applicazione nei confronti dell’ente della più grave misura dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività “nel caso in cui lo scopo unico o prevalente dell’ente sia il consentire o l’agevolare la commissione dei reati sopra indicati”[5].

Tuttavia, a modesto parere dello scrivente, l’intervento di maggior rilievo è la previsione di introdurre una nuova disposizione – art. 6 bis – speciale rispetto all’art. 6 del decreto legislativo n. 231 del 2001.

 

L’art. 6 bis del d.lgs 231/2001 

Con tale articolo si intende rivolgere una maggiore attenzione alle situazioni di deficit organizzativo suscettibili di evolversi in comportamenti illeciti, attraverso l’istituzione di un modello 231 specifico per la prevenzione dei reati agroalimentari la cui adozione ed efficace attuazione consente di fruire di una presunzione relativa di idoneità alle imprese alimentari  intese come “ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti” secondo la definizione fornita a livello europeo dall’art. 3 del Regolamento (CE) n. 178/2002.

L’art. 6 bis, detta un particolare disciplina, da applicare solo alle imprese alimentari, come sopra specificate, prevedendo standard personalizzati per la creazione e l’implementazione di un Modello 231 integrato che richieda l’assolvimento di tre classi di obblighi eterogenei con finalità di tutela diverse[6]:

  • obblighi a tutela dell’interesse dei consumatori quali (art. 6bis lett. a) e b) D. Lgs. 231/2001):

– l’osservanza degli standard relativi alla fornitura di informazioni sugli alimenti;

– l’obbligo di verifica sui contenuti delle comunicazioni pubblicitarie al fine di garantire la coerenza degli stessi rispetto alle caratteristiche del prodotto;

  • obblighi a protezione della genuinità e della sicurezza degli alimenti sicurezza degli alimenti sin dalla originaria fase di produzione, laddove all’art. 6 bis lett. c), d) ed e) del D. Lgs 231/2001 vi è il riferimento alle:

– attività di vigilanza con riferimento alla rintracciabilità;

– attività di controllo sui prodotti alimentari, finalizzati a garantire la qualità, la sicurezza e l’integrità dei prodotti e delle relative confezioni in tutte le fasi della filiera;

– procedure di ritiro o di richiamo dei prodotti alimentari importati, non conformi ai requisiti di sicurezza degli alimenti;

  • obblighi in merito agli standard di monitoraggio e controllo (art. 6 bis lett. f) e g) D. Lgs. 231/2001) imponendo:

– attività di valutazione e di gestione del rischio, compiendo adeguate scelte di prevenzione e di controllo;

– periodiche verifiche sull’effettività e sull’adeguatezza del Modello di Organizzazione e Gestione.

 

Inoltre, è previsto per le imprese di modeste dimensioni di poter beneficiare di alcune semplificazioni operative, dettagliatamente descritte nell’art. 6-bis commi 3 e 4 d.lgs. 231/2001.

In conclusione, sebbene la riforma dimostri un effettivo e concreto intento preventivo e repressivo circa le condotte criminose alimentari, tuttavia essa presta il fianco ad alcune critiche[7], tra queste, ad esempio la irragionevole subordinazione della suddetta “efficacia esimente o attenuante” limitatamente “ai casi di cui all’articolo 6” [8] che trova applicazione con riferimento ai reati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, dai c.d. soggetti apicali, neutralizzando dunque la portata del beneficio processuale laddove il reato sia stato commesso dai soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza così come indicati all’art. 7 del D. Lgs. 231/2001.

Informazioni

Avv. Pasquale Grella Avv. Giada Scarnera, D.lgs. 231/2001 e nuovi illeciti agro-alimentari: la tutela della filiera riparte dalla responsabilizzazione delle imprese, in AODV 231;

V. Mongillo, Responsabilità delle società per reati alimentari. Spunti comparatistici e prospettive interne di riforma, in DPC, n. 4/2017;

N. Menardo, “Prospettive di riforma dei reati agroalimentari, rischio penale d’impresa e responsabilità degli enti”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4;

C. Santoriello, Reati alimentari e responsabilità della persona giuridica, https://www.giurisprudenza.unipg.it/files/generale/IMPORT/AVVISI/EVENTI/01_Reati-alimentari.pdf

[1] Cfr. Avv. Pasquale Grella Avv. Giada Scarnera, D.lgs. 231/2001 e nuovi illeciti agro-alimentari: la tutela della filiera riparte dalla responsabilizzazione delle imprese, in AODV 231

[2] V. Mongillo, Responsabilità delle società per reati alimentari. Spunti comparatistici e prospettive interne di riforma, in DPC, n. 4/2017.

[3] C. Santoriello, Reati alimentari e responsabilità della persona giuridica, https://www.giurisprudenza.unipg.it/files/generale/IMPORT/AVVISI/EVENTI/01_Reati-alimentari.pdf

[4] Per maggiori approfondimenti N. Menardo, “Prospettive di riforma dei reati agroalimentari, rischio penale d’impresa e responsabilità degli enti”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4

[5] Avv. Pasquale Grella Avv. Giada Scarnera, D.lgs. 231/2001 e nuovi illeciti agro-alimentari: la tutela della filiera riparte dalla responsabilizzazione delle imprese, in AODV 231

[6] Classificazione opportunamente redatta da Avv. Pasquale Grella Avv. Giada Scarnera, D.lgs. 231/2001 e nuovi illeciti agro-alimentari: la tutela della filiera riparte dalla responsabilizzazione delle imprese, in AODV 231

[7] Per approfondimenti, V. Mongillo, Responsabilità delle società per reati alimentari. Spunti comparatistici e prospettive interne di riforma, in DPC, n. 4/2017.

[8] Circa i criteri d imputazione di siffatta responsabilità, si consente di rinviare al mio precedente articolo http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/


Epidemia colposa

Cos'è l'epidemia colposa?

Dall’emergenza covid-19 emerge una possibile responsabilità penale da epidemia colposa: analisi del reato e rilievi critici

 

Premessa

Prima di parlare specificamente dell’epidemia colposa, dobbiamo inquadrare il contesto normativo e l’attuale situazione contemporanea. Sin dagli inizi del mese di marzo, purtroppo, l’Italia è stata oltremodo colpita dall’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, meglio conosciuto come Coronavirus. Un diffondersi rapido che ha coinvolto, dapprima, e con maggiore violenza, la parte settentrionale, per poi propagarsi in tutta la penisola. L’inesorabile espansione del virus ha portato il governo ad assumere decisioni[1] volte a contenere l’attuale pandemia, mediante l’adozione di numerose misure restrittive allo scopo di ridurre sensibilmente la circolazione delle persone sul tutto il territorio[2].

Ma come far rispettare tali misure di contenimento?

La prima fonte normativa attraverso cui porre le fondamenta legali alle sanzioni introdotte per punire la violazione delle misure di contenimento (nello specifico, la misura di quarantena, per coloro che provenivano dalla Cina e per coloro che avevano avuto contatti con casi conclamati di contagio) è il D. L. n. 6 del 23 febbraio 2020. Difatti all’art. 3, comma IV si prevedeva che “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 c.p.. La sanzione, per l’inosservanza di un provvedimento dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è: l’arresto fino a tre mesi, l’ammenda fino a 206,00 euro.”

Successivamente, a seguito del D.P.C.M. del 9 marzo 2020 con cui sono state disposte nuove misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull’intero territorio nazionale, si è adottato il modulo di autodichiarazione, che tutti noi abbiamo imparato a conoscere, incorrendo, dunque, nel rischio di poter essere incriminati anche per i c.d. reati di falso.

Infine, con il D. L. n. 19/2020, da un lato, si è proceduto alla riorganizzazione della disciplina emergenziale, mentre dall’altro, le sanzioni penali di cui all’art. 650 c.p., previste in caso di violazione delle misure di contenimento sono state sostituite con sanzioni amministrative.

Tuttavia, oltre al rischio di incorrere in queste possibili sanzioni, dalla cronaca è emersa la possibilità di poter configurare una responsabilità penale ancor più grave, ossia quella del reato di epidemia, in particolar modo quello di epidemia colposa.

 

Sull’epidemia colposa

Il delitto di epidemia è disciplinato dall’art. 438 c.p. il quale punisce con la pena dell’ergastolo “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”[3]. L’epidemia colposa deriva dal combinato disposto degli artt. 438-452 c.p., ove quest’ultimo prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni, aumentata da tre a dodici anni qualora ne consegua la morte di più persone.

Il bene giuridico posto a tutela è di primaria rilevanza e trova espresso riconoscimento nell’art. 32 Cost., ossia il bene della salute. Tuttavia, dalla collocazione codicistica degli artt. 438-452 c.p. nel Libro II, titolo IV – “Delitti contro l’incolumità pubblica”, capo II – “Dei delitti di comune pericolo mediante frode”, emerge come la salute da tutelare sia da interpretare nella sua accezione pubblica ancor prima che come diritto del singolo individuo.

Si tratta di un reato comune, in quanto l’art. 438 c.p. utilizza il termine “chiunque”, ravvisando la possibilità che ogni persona possa porre in essere tale comportamento criminoso. Ciononostante, appare evidente che solo colui che sia portatore di germi patogeni possa realizzare la condotta di cui all’art. 438 c.p.

Giova precisare, dunque, il significato che è stato attribuito al termine “epidemia”, al fine di comprendere maggiormente la fattispecie criminosa trattata.

Dal punto di vista scientifico, si considera epidemia ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio, capace di colpire un numero elevato di persone, tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.

La nozione invece adottata dal nostro Legislatore, nonostante accolga quella espressa dalla scienza medica, appare più circoscritta. Con l’inciso “mediante la diffusione di germi patogeni”, si è inteso restringere la punibilità alle sole condotte caratterizzate da determinati percorsi causali[4]. Ciò configurerebbe il reato di epidemia come un reato causalmente orientato “a mezzo vincolato”[5].

Pertanto, l’epidemia costituisce l’evento cagionato dalla condotta sanzionata dalla norma, la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria, o nel caso di epidemia colposa, per negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di disposizioni, di germi che il soggetto agente sa essere patogeni.

In concreto, l’epidemia si connota per la diffusione, diffusibilità, incontrollabilità del propagarsi del male in un dato territorio e su un numero alto e indefinibile di persone, con conseguente esclusione del reato nell’ipotesi di malattie che insorgano e si esauriscono entro un ambito circoscritto quale può essere un ente ospedaliero[6].

Infine, circa l’elemento soggettivo, ai fini della punibilità del soggetto agente, in caso di epidemia volontaria, è sufficiente che lo stesso abbia agito con dolo generico, dunque, animato dalla volontà di diffondere agenti patogeni. Nel caso dell’epidemia colposa, il soggetto attivo deve agire, come anzidetto, per negligenza, imperizia o inosservanza di disposizioni, diffondendo germi che l’agente riconosce e conosce come patogeni, senza però l’intenzione di cagionare un’epidemia.

 

Rilievi critici della fattispecie di epidemia colposa

Innanzitutto, appare opportuno procedere ad una breve premessa circa il concetto di diffusione dell’epidemia. Essa difatti assume un ruolo centrale nella possibile incriminazione per il reato oggetto dell’odierna analisi.

Ma in cosa consiste la diffusione? Nello spargimento di germi patogeni capaci di colpire in tempi brevi, un numero elevato di soggetti[7]. Orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di legittimità più recente[8], ove si è esclusa la responsabilità penale per il delitto di epidemia colposa di un soggetto che aveva contagiato con HIV numerose donne attraverso plurimi rapporti sessuali non protetti, poiché difettava, nel caso concreto, l’evento tipico dell’epidemia, da intendersi come “malattia contagiosa con elevata tendenza a diffondersi”, non potendo il contagio umano realizzatosi attraverso il contatto fisico con le vittime, essere ricondotto alla nozione normativa di diffusione.

Da siffatta interpretazione, emerge come ai fini della configurabilità del delitto in esame, sia necessario che la malattia provocata dalla diffusione di germi patogeni abbia un ulteriore quid pluris, consistente nella capacità di colpire un numero elevato di soggetti, altrimenti verrebbe a mancare l’offensività[9].

Inoltre, il reato di epidemia è stato oggetto di diatribe dottrinali e giurisprudenziali circa la struttura della fattispecie, anche se ad oggi, si ritiene che l’epidemia abbia natura di evento o danno quanto di pericolo.

Questo è l’orientamento emerso dalla più recente giurisprudenza, la quale ritiene necessario, ai fini della configurazione del reato di epidemia:

  1. di un evento di danno, consistente nella concreta manifestazione, in un sostenuto numero di persone, di una patologia eziologicamente connessa ai germi patogeni di cui era portatore il soggetto attivo, e;
  2. di un evento di pericolo, rappresentato dalla possibilità che il morbo possa propagarsi ad altri soggetti in ragione della capacità degli agenti patogeni di trasmettersi ad altri individui senza l’intervento dell’autore del reato[10].

 

Un ulteriore problema si realizza qualora si voglia procedere ad imputare il reato di epidemia colposa in caso di comportamento omissivo. Si pensi alla figura dell’operatore sanitario che esegua in ritardo il tampone diagnostico per rilevare l’infezione da Covid-19 e, conseguentemente adottare tutte le misure precauzionali necessarie allo scopo di contenere e ridurre la diffusione del contagio.

Essendo, secondo l’orientamento maggioritario, l’epidemia un reato a forma vincolata, essa risulta incompatibile con il disposto di cui all’art. 40, comma 2, c.p., in quanto da riferirsi alle sole condotte omissive a forma libera, ossia quando non risulti necessario che la condotta presenti determinati requisiti modali[11]. La stessa giurisprudenza di legittimità si è espressa sul punto, proprio con riguardo al reato di epidemia colposa, negando la possibilità di poter integrare il reato di cui all’art. 452 c.p.[12] in caso di condotta omissiva.

Appare, dunque, inapplicabile la fattispecie di epidemia colposa alla condotta omissiva in quanto incompatibile con l’art. 40 co. 2 c.p., non potendosi ravvisare nell’omesso impedimento di un evento di cui si aveva l’obbligo giuridico di impedire, il disvalore espresso dalle modalità dell’azione indicate dalla fattispecie incriminatrice di parte speciale[13].

In conclusione, si deduce come il reato di epidemia circoscriva dunque la punibilità alle sole condotte commissive a forma vincolata, ossia a quelle condotte che abbiano cagionato l’evento secondo un preciso percorso causale, e cioè mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni, ad un numero cospicuo di soggetti.

Informazioni

Marina Zalin, Le nuove fattispecie di reato introdotte ai tempi del coronavirus, in “Filodiritto”

M. Panattoni, La responsabilità penale dell’operatore sanitario per il reato di epidemia colposa. Il “caso Codogno”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4

https://www.diritto.it/coronavirus-il-reato-di-epidemia-considerazioni-anche-sulleventuale-concorso-con-lomicidio/

[1] Si tratta di un susseguirsi di decreti legge. Tali strumenti sono stati considerati proprio per il loro uso in situazione dell’emergenza e approfonditi in questo articolo di DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/16/il-decreto-legge-come-strumento-emergenziale/

[2]  Cfr. Marina Zalin, Le nuove fattispecie di reato introdotte ai tempi del coronavirus, in “Filodiritto” (https://www.filodiritto.com).

[3] Art. 438, comma 2 c.p.: “Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte].”

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. IV 12 dicembre 2017, n. 9133.

[5] M. Panattoni, La responsabilità penale dell’operatore sanitario per il reato di epidemia colposa. Il “caso Codogno”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4.

[6] Cfr. Cass. pen., sez. I, 20 maggio 1966, n. 888.

[7] Cass. Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576: “l’evento tipico dell’epidemia si connota per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido e autonomo sviluppo entro un numero indeterminato di soggetti, per una durata cronologicamente limitata.”

[8] Cass. Pen., Sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014.

[9] Cfr. Trib. Savona, 6 Febbraio 2008 che ha escluso il delitto in questione in un caso di salmonella in cui l’insorgere della malattia si erano esauriti nell’ambito di un ristretto numero di persone.

[10] Cfr. Trib. Trento, 16 luglio 2004.

[11] https://www.diritto.it/coronavirus-il-reato-di-epidemia-considerazioni-anche-sulleventuale-concorso-con-lomicidio/

[12] Cfr. Cass., Sez. IV 12 dicembre 2017, n. 9133.

[13] M. Panattoni, La responsabilità penale dell’operatore sanitario per il reato di epidemia colposa. Il “caso Codogno”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4, cit.


modello 231

Modello 231 e l'ardua sfida del Covid-19

La complessa e difficile compliance aziendale del modello 231 al tempo del Coronavirus

 

Premessa

La rapida diffusione del Covid-19, meglio noto come Coronavirus, sta determinando oltre ad una drammatica emergenza sanitaria, anche una crisi economica sempre più in rapida ascesa che sta mettendo a dura prova le nostre imprese. Circa quest’ultime, inizialmente, con il DPCM dell’11 marzo 2020, si era imposta, da un lato, la sospensione di numerose attività e, dall’altro, una serie di raccomandazioni per il proseguimento delle attività produttive e professionali non sospese. A causa della crescente diffusione del virus si sono rese necessarie ulteriori restrizioni che hanno determinato la sospensione di tutte le attività produttive industriali e commerciali non essenziali e non strategiche (DPCM 22 marzo 2020[1]).

Nonostante la compromissione della libertà di circolazione delle persone, sono state mantenute in attività le imprese che erogano servizi e beni essenziali, dai generi alimentari ai prodotti sanitari per citarne alcuni tra i più rilevanti, per garantire l’approvvigionamento di tali beni alla collettività.

Ciò ha determinato per le imprese, e nello specifico per alcuni soggetti dell’organigramma aziendale, il dovere di predisporre misure di prevenzione “eccezionali” anti-coronavirus per tutelare la salute e la sicurezza dei luoghi di lavoro e non solo.

 

I soggetti responsabili della prevenzione e il modello 231

Come anzidetto, l’impatto del Covid-19 sul mondo aziendale sta avendo notevoli ripercussioni da un punto di vista economico, ma rischia di averne anche su di un piano sanzionatorio.

Difatti, nel contesto sopra evidenziato, eventuali lacune circa l’apposizione dei presidi essenziali volti a prevenire il rischio di infezione da Coronavirus dei propri dipendenti, può determinare molteplici rischi e connesse sanzioni: da un lato, a carico delle persone fisiche inserite nell’organigramma aziendale e responsabili dell’apposizione di misure di prevenzione, dall’altro la possibilità di integrare una responsabilità a carico della persona giuridica stessa.

L’emergenza Covid-19 che interessa le imprese di tutto il territorio nazionale obbliga gli operatori ad una riorganizzazione delle misure di prevenzione. Il datore di lavoro ex art. 2087 c.c.[2] e dal Testo Unico Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 81/2008[3]) ha l’obbligo di valutare costantemente quali siano i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro e sulla base di ciò, adottare le misure idonee ed opportune volte a diminuirne il rischio.

Tuttavia, oltre al datore di lavoro, all’interno della società vi sono altri soggetti responsabili:

  1. Il delegato del datore di lavoro, ossia una persona esterna al datore di lavoro a cui sono stati affidati i compiti di quest’ultimo, salvo quelli non delegabili.
  2. I dirigenti, ossia coloro che, dotati di competenze e poteri gerarchici e funzionali adeguati, attuano le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa;
  3. I preposti, ossia coloro che sono titolare sì, di un potere di sovraordinazione altrui, ma sono privi delle funzioni tipicamente “assunte” dai soggetti anzi citati (es. i capi reparto od i capi turno)
  4. a questi si aggiungono altre figure di rilievo come il Rappresentante della Sicurezza per i lavoratori (RLS – una o più persone elette e designate per rappresentare i lavoratori relativamente alle problematiche di salute e sicurezza sul lavoro col compito di vigilare sulla congruità delle misure di sicurezza e loro applicazione), il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP – normalmente un soggetto esterno all’azienda con l’incarico di assistere il datore di lavoro o suo delegato nell’individuazione delle misure di sicurezza) e il medico competente (un medico in possesso di specializzazione in medicina del lavoro e autorizzazione, incaricato dall’azienda di verificare la salute dei lavoratori sotto il profilo medico).

 

Rischi da Covid-19 e possibili sanzioni da d.lgs. 231/2001

Qualora il lavoratore contragga il Coronavirus sul luogo di lavoro a causa delle inidonee ed inefficaci misure adottate dai soggetti di cui sopra, e dal contagio ne consegua, nella peggiore delle ipotesi, il decesso, tali soggetti responsabili della prevenzione rischierebbero di incorrere nella sanzione penale di cui agli artt. 589 c.p. (omicidio colposo) e 590 c.p. (lesioni colpose gravi) ed in un’eventuale azione civile per il risarcimento del danno[4].

Ma non solo. Così facendo, se da tali reati si ravvisasse un interesse od un vantaggio per l’impresa e la mancata adozione ed attuazione di un idoneo modello 231, sarebbe possibile contestare alla persona giuridica il reato di cui all’art. 25-septies d.lgs. 231/2001[5], con la possibilità per l’ente di incorrere in sanzioni pecuniarie particolarmente elevate, che in caso di omicidio colposo possono giungere fino 1,5 milioni di euro, e nelle temute sanzioni interdittive[6].

Questa è sicuramente l’area di rischio di maggior rilevo, ciononostante non l’unica.

Si osservi, ad esempio, come il Covid-19 abbia costretto le imprese, che abbiano la possibilità di poter svolgere l’attività produttiva al proprio domicilio o a distanza, ad utilizzare modalità di lavoro agile, il c.d. smartworking[7].

Dunque, in tale situazione emergono nuove aree di rischio che possano determinare la commissione di ulteriori reati:

  1. Reati contro la PA, si pensi ai rapporti con i Prefetti circa l’autorizzazione per la prosecuzione delle attività ai sensi del DPCM 11 marzo 2020.
  2. Delitti contro l’industria e commercio, come la produzione e/o commercializzazione di DPI contraffatti[8].
  3. Delitti informatici o violazione diritto d’autore, derivante dal possibile accesso abusivo ai sistemi informatici dell’azienda ad opera dei c.d. smartworker.
  4. Delitti tributari[9], come il beneficiare di detrazioni, deduzioni e dei crediti d’imposta previsti dal D.L. 18 marzo 2020 “Cura Italia”.

 

Il fondamentale ruolo dell’Organismo di Vigilanza  

Proprio a causa delle possibili sanzioni in cui può incorrere l’ente, diviene fondamentale il ruolo di controllo svolto dall’Organismo di Vigilanza (ODV) sulle misure adottate.

In primis, l’ODV dovrà verificare che i soggetti responsabili della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro abbiano effettuato una corretta identificazione dei rischi connessi al Covid-19, in secundis che abbiano predisposto idonee misure precauzionali e che queste siano state efficacemente attuate.

Una serie di raccomandazioni su tali misure sono delineate dal “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 marzo 2020[10]. Si tratta di 13 raccomandazioni da poter integrare e migliorare secondo la tipologia specifica di attività produttiva:

  1. Obblighi di informazione circa le disposizioni impartite dalle Autorità volte al contrasto del virus;
  2. Regolamentazione degli ingressi in azienda del personale dipendente;
  3. Regolamentazione modalità di accesso dei fornitori esterni, secondo procedure di ingresso, transito ed uscita per ridurre al minimo le occasioni di contatto;
  4. Pulizia e sanificazione degli ambienti di lavoro giornaliera e periodica;
  5. Precauzioni igienico-sanitarie personali come lavarsi spesso le mani ed utilizzare gel igienizzanti;
  6. Dispositivi di protezione individuale, come mascherine protettive, mantenimento delle distanze con il personale ecc.;
  7. Gestione degli spazi comuni contingentati;
  8. Organizzazione aziendale riguardo alle modalità di svolgimento dell’attività produttiva. Da applicare, ove possibile, lo smartworking, utilizzare una maggiore turnazione dei lavoratori, ricorso agli ammortizzatori sociali ecc.;
  9. Gestione entrata-uscita del personale dipendente;
  10. Spostamenti interni e riunioni da sospendere e limitare prediligendo la formazione continua del personale “a distanza”;
  11. Gestione di una persona sintomatica in azienda, secondo le direttive del personale sanitario, (isolamento, ricostruzione possibili contagi, quarantena…), nel rispetto e nella tutela della privacy del soggetto;
  12. Sorveglianza sanitaria/medico competente/RLS da implementare, ricorrendo ad un maggiore flusso di informazioni;
  13. Aggiornamento del Protocollo di regolamentazione e costituzione di un Comitato di Crisi per l’applicazione del Protocollo di Regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

 

La stessa Confindustria si è espressa su tali raccomandazioni attraverso la predisposizione di un fac-simile[11] al fine di agevolare le imprese nell’adozione delle misure di sicurezza declinate dal Protocollo in questione. Anche l’Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro (AiFOS) ha elaborato un documento nel quale sono raccolte le buone prassi per lo svolgimento di corsi di formazione e per i sopralluoghi e consulenze aziendali (Linea guida AiFOS per formatori, consulenti, RSPP e datori di lavoro in tema di gestione del rischio biologico da coronavirus)[12].

 

Conclusioni

Oltre a quanto sopraesposto, l’ODV dovrà svolgere un’ulteriore attività di controllo e verifica che riguarderà il modello 231 adottato dall’impresa.

Con riguardo alla tutela e sicurezza degli ambienti di lavoro giova precisare che gli art. 5 e 6 d.lgs. 231/2001 risentano della normativa dettata dal Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro (d.lgs. 81/2008) volta ad indirizzare il contenuto del modello 231 all’adempimento degli obblighi giuridici indicati dalla legislazione antinfortunistica. Difatti al fine di escludere una responsabilità della persona giuridica per il reato di cui all’art. 25 septies d.lgs. 231/2001, il modello di organizzazione e gestione deve prevedere quanto statuito dall’art. 30 d.lgs. 81/2008[13].

Ne consegue come il modello 231 possa concretamente essere già idoneo per affrontare le aree di rischio venutesi a creare a seguito del Covid-19, indi per cui l’aggiornamento non deve essere automatico.

Tuttavia, diviene quantomai essenziale che l’ODV aumenti la propria attività di vigilanza al fine di verificare che i presidi di prevenzione vengano concretamente rispettati, ed inoltre accertare se il modello 231 adottato ante rischio pandemico risultasse essere “lungimirante” circa i rischi diretti ed indiretti connessi al Covid-19.

A modesto parere dello scrivente, l’ODV per poter verificare l’adeguatezza, il funzionamento e l’osservanza del modello 231 dovrà concentrarsi su particolari aspetti, di cui alcuni già trattati in precedenza:

  1. sul potenziamento dei flussi informativi secondo i canali adottati nel modello, soprattutto con il Comitato di Crisi;
  2. sul rispetto degli obblighi di cui all’art. 30 d.lgs. 81/2008, in particolare circa l’idoneità del sistema aziendale adottato per far fronte al rischio biologico da contagio Covid-19;
  3. sullo svolgimento di un “pressante” monitoraggio sul rispetto delle normative e direttive dell’Autorità; e
  4. sull’idoneità del modello 231 circa la prevenzione degli “altri reati” (delitti contro la PA, delitto contro Industria e Commercio, ecc…) dovuti alla creazione di nuovi processi per fronteggiare la situazione emergenziale.

Informazioni

M. Grassi, “L’Organismo di Vigilanza alla prova del Coronavirus. Spunti operativi.”, in AODV231;

C. Corsaro – M. Zambrini, “Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3.

[1] http://www.governo.it/sites/new.governo.it/files/dpcm_20200322.pdf

[2] “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”

[3] https://www.ispettorato.gov.it/it-it/in-evidenza/Documents/Testo-unico-salute-sicurezza-gennaio-2020.pdf

[4] Cfr. M. Grassi, L’Organismo di Vigilanza alla prova del Coronavirus. Spunti operativi.”, in AODV231; C. Corsaro – M. Zambrini, “Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico”, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3.

[5] Si consenta di rinviare al mio precedente articolo http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/

[6] Art. 9, co. 2 d.lgs. 231/2001: “Le sanzioni interdittive sono:

a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività;

b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;

c) il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;

d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;

e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.”

[7] Per una puntuale analisi del fenomeno dello smartworking rinvio a http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/20/lo-smart-working/

[8] Per un’attenta osservazione sul punto rinvio a http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/24/i-dpi-alla-luce-dellemergenza-coronavirus/

[9] Si consenta nuovamente di rinviare ad un mio precedente scritto http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/13/lingresso-dei-reati-tributari-nel-d-lgs-231-2001/

[10] https://www.uil.it/documents/protocollo_condiviso.pdf

[11] https://www.confindustriafirenze.it/coronavirus-fac-simile-protocollo-e-modulo-trattamento-dei-dati-personali/

[12] https://aifos.org/inst/aifos/public/data/general/files/news/documenti/2020/febbraio/linee-guida-rischio-biologico-corona-virus-2.pdf

[13] Tali obblighi riguardano: a) il rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) le attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti;  c) le attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;  d) le attività di sorveglianza sanitaria;  e) le attività di informazione e formazione dei lavoratori;  f) le attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori;  g) l’acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;  h) le periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate.


Reati tributari

L'ingresso dei reati tributari nel d. lgs. 231/2001

Il nuovo articolo 25 quinquiesdecies d.lgs.231/2001 e i reati tributari: il rafforzamento del modello 231

 

Reati tributari e d.lgs. 231/2001: i più recenti interventi normativi

Gli ultimi mesi dell’anno appena trascorso sono stati particolarmente incisivi per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche[1], poiché il nostro Legislatore, mediante il d.l. 26 ottobre 2019, n. 124 (c.d. Decreto Fiscale), ha deciso di introdurre nel novero dei reati presupposto, al nuovo articolo 25 quinquiesdecies, i reati tributari, limitandosi, almeno inizialmente, alla sola fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, ossia la “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.

Tuttavia, a seguito della legge di conversione n. 157/2019 che ha apportato modifiche al d.l. sopracitato, è stata di fatto estesa la portata applicativa del d.lgs. 231/2001 fino a ricomprendere ulteriori reati tributari.

Nello specifico si tratta di:

  • “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” (art. 3),
  • “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8),
  • “Occultamento o distruzione di documenti contabili” (art. 10) ed infine
  • “Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte” (art. 11).

 

I decisivi impulsi europei

Appare opportuno rilevare come il nuovo indirizzo non sia frutto di un’autonoma scelta interna ma bensì derivi dagli impulsi del Legislatore europeo, in particolare dalla Direttiva UE 2017/1371 (c.d. Direttiva PIF[2]), in materia di protezione degli interessi finanziari dell’Unione, attraverso cui si era fissato l’obbiettivo di adottare un sistema rafforzato di misure di protezione delle risorse finanziarie dell’Unione, mediante un processo di armonizzazione dei singoli apparati legislativi dei Paesi Membri[3].

Per ciò che concerne la disciplina in esame, la Direttiva PIF impone, relativamente alle frodi IVA gravi[4], per le persone fisiche la reclusione per un massimo di almeno 4 anni, ma soprattutto una responsabilità per tali illeciti a carico delle persone giuridiche. Dal combinato disposto degli artt. 6 e 9 della Direttiva in questione, difatti emerge come gli Stati Membri debbano:

  • da un lato, adottare le misure necessarie volte a riconoscere la responsabilità delle persone giuridiche per i reati, in materia di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica;
  • dall’altro, irrogare sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” comprensive non solo di sanzioni pecuniarie ma altresì di sanzioni “interdittive”.

 

Sulla base di ciò il Parlamento italiano ha approvato in via definitiva il disegno di legge di delegazione europea 2018 con la quale è stato assegnato al Governo la delega per il recepimento della Direttiva PIF, e, mentre si attende l’entrata in vigore del decreto delegato, in medio tempore, con il Decreto Fiscale e la sua legge di conversione, è entrata così in vigore la responsabilità “da reato tributario” delle persone giuridiche.

 

I reati tributari di cui all’art. 25 quinquiesdecies d.lgs.231/2001

Si procede dunque ad analizzare le singole fattispecie criminose “tributarie” disciplinate dal d.lgs. 74/2000 ed inserite nel novello art. 25 quinquiesdecies d.lgs. 231/2001.

Prima di addentrarsi nell’analisi dei delitti contenuti nell’articolo sopracitato, giova premettere e specificare come il Decreto Fiscale sia intervenuto anche su tali reati tributari “presupposto”, apportando modifiche circa il trattamento sanzionatorio, che viene intensificato, e con riguardo le soglie di punibilità, ove previste, queste vengono ridotte in modo da estendere la portata applicativa della disciplina repressiva.

  • Nel reato di Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2), la sanzione viene incrementata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni a quella della reclusione da 4 a 8 anni. Si introduce inoltre nella norma un comma 2-bis ove viene mantenuto il precedente trattamento nell’ipotesi in cui l’ammontare degli elementi passivi sia inferiore ai 100.000 euro.
  • Anche per la Dichiarazione fraudolenta mediante artefici (art. 3) è stato intensificato l’apparato sanzionatorio passando dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da 3 a 8 anni, senza alcuna modifica della soglia di punibilità.
  • Inasprita pure la risposta sanzionatoria prevista per il reato di Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8) passando dalla reclusione da un anno e sei mei a sei anni alla reclusione da 4 a 8 anni. Inoltre, come nel caso dell’art. 2 di cui sopra viene inserito il comma 2-bis il quale mantiene il precedente limite edittale qualora “l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta è inferiore ai 100.000 euro”.
  • Elevata la pena prevista per il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) in cui si passa dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla pena della reclusione dai 3 ai 7 anni.
  • Mentre rimane invariato il trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11) ossia con la reclusione da sei mesi a quattro anni se l’ammontare complessivo delle imposte è superiore a 50.000 euro, mentre è prevista la reclusione da un anno a sei anni se l’importo complessivo supera i 200.000 euro.

 

Per ciò che concerne il nostro punto d’interesse, l’art. 25-quinquiesdecies (“Reati tributari”) commina in capo all’ente responsabile: per tutte le ipotesi, le sanzioni interdittive di cui all’art. 9 co. 2 let. c), d), ed e) d.lgs. 231/2001[5]:

  1. per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, una sanzione pecuniaria fino a 500 quote, mentre nell’ipotesi di cui al comma 2-bis fino a 400 quote;
  2. per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante artifici di cui all’art. 3, la sanzione pecuniaria fino a 500 quote;
  3. per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto all’art. 8, co. 1, la sanzione pecuniaria fino a 500 quote mentre nell’ipotesi di cui al comma 2-bis fino a 400 quote;
  4. per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10, la sanzione pecuniaria fino a 400 quote;
  5. per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto all’art. 11, la sanzione pecuniaria fino a 400 quote.

 

Da un punto di vista pratico, dunque, considerando che l’importo di una singola quota debba rientrare nel limite prescritto all’art. 10 d.lgs. 231/2001, ossia da un minimo di 258 ad un massimo di 1.549 euro, pertanto, l’ammontare delle sanzioni pecuniarie a cui possono incorrere le persone giuridiche variano tra i 25.800 e i 774.550 euro (per i reati tributari sanzionati tra le 100-500 quote) e tra i 25.800 e i 619.600 (tra le 100-400 quote). Ovviamente sarà poi il giudice nel caso concreto a dover determinare in primo luogo il numero delle quote sulla base della gravità del fatto, del grado di responsabilità dell’ente e dell’attività svolta al fine di eliminare o quantomeno attenuare e ridurre le conseguenze del fatto e prevenire la commissione di reati, ed in secondo luogo il quantum della singola quota sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente[6].

 

I riflessi dell’estensione della disciplina 231 all’ambito tributario

Sicuramente l’obbiettivo dichiarato era ed è il rafforzamento degli strumenti sanzionatori di carattere patrimoniale nei confronti delle persone giuridiche, le quali appaiono le effettive beneficiarie delle utilities connesse alla realizzazione del reato tributario contestato alla singola persona fisica[7].

L’estensione della responsabilità da reato tributario alle persone giuridiche determinerà per le imprese, un necessario adeguamento formale e sostanziale del modello 231 ai rischi fiscali connessi alle attività svolte. Tuttavia, questa tipologia di reati presenta caratteristiche sui generis e risultano essere estremamente pervasivi nell’ambito dell’attività d’impresa, le quali divengono terreno fertile per il loro proliferare, in quanto connessi pressoché a tutte le attività poste in essere dalla società (si pensi alle comuni emissioni di fatture).

Di conseguenza, le aree maggiormente a rischio saranno da ricercare nell’idonea tenuta della documentazione contabile e nel complesso delle attività dichiarative volte alla determinazione dei tributi, che ogni società o ente è tenuta a svolgere. Inoltre, sarà quantomai opportuno prestare attenzione alle varie procedure gestionali, come quelle con i fornitori, soprattutto con riguardo ai processi di selezione della controparte.

A modesto giudizio dello scrivente, non si tratta di temi nuovi per le società solite a confrontarsi con la disciplina di cui al d.lgs. 231/2001, anche se l’introduzione dei reati tributari tra gli illeciti presupposto deve far necessariamente cambiare la prospettiva attraverso cui osservare la gestione aziendale. Se da un lato sarà certamente fondamentale la predisposizione di un assetto amministrativo-contabile capace di escludere o quantomeno limitare le possibili negligenze contabili e gestionali dalle quali possono pervenire siffatti reati, dall’altro si ritiene di non dover ricorrere a modelli 231 ex novo, ma questi dovranno essere soggetti a revisione, al fine di poterne verificare l’idoneità preventiva avverso il nuovo art. 25-quinquiesdecies, d.lgs. 231/2001.

In conclusione, si tratterà di procedere ad analizzare queste “nuove” fonti di rischio, non più in chiave strumentale rispetto alla realizzazione di reati già presenti nel decreto, come il riciclaggio, ma come vere e proprie aree di rischio dirette, per cui i reati tributari dovranno essere affrontati parimenti alle altre fattispecie criminose già inserite nel decreto[8].

Informazioni

http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32017L1371&from=EN

S. Finocchiaro, “In vigore la “riforma fiscale”: osservazioni a prima lettura della legge 157/2019 in materia di reati tributari, confisca allargata e responsabilità degli enti”, in Sistema Penale, 2020.

G. Flora, “Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della Direttiva PIF nel settore dei reati tributari e della responsabilità penale degli enti”, in disCrimen, 2019.

F.  Ventimiglia, “Introdotti i reati tributari nel D.lgs. 231/01: le conseguenze per le Società tra rischio di bis-in-idem e nuove esigenze preventive”, in Diritto24, 2019.

[1] Circa i criteri d imputazione di siffatta responsabilità, si consente di rinviare al mio precedente articolo http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/21/il-rapporto-tra-modello-231-e-giurisprudenza/

[2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32017L1371&from=EN

[3] Cfr. G. Flora, “Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della Direttiva PIF nel settore dei reati tributari e della responsabilità penale degli enti”, in disCrimen, 2019.

[4] siano connesse nel territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10.000.000 euro”

[5] Le sanzioni interdittive sono:

c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;

d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;

e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

[6] Art. 11 “Criteri di commisurazione della sanzione pecuniaria”

  1. Nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonchè dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.
  2. L’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione.
  3. Nei casi previsti dall’articolo 12, comma 1, l’importo della quota è sempre di lire duecentomila [valore in euro 103.29, NdR].

[7] Cfr. S. Finocchiaro, “In vigore la “riforma fiscale”: osservazioni a prima lettura della legge 157/2019 in materia di reati tributari, confisca allargata e responsabilità degli enti”, in Sistema Penale, 2020.

[8] F. Ventimiglia, “Introdotti i reati tributari nel D.lgs. 231/01: le conseguenze per le Società tra rischio di bis-in-idem e nuove esigenze preventive”, in Diritto24, 2019.


modello 231

Il rapporto tra modello 231 e giurisprudenza

I dubbi sull’efficacia esimente del modello 231 sul tema dei reati colposi d’evento. L’evoluzione della giurisprudenza e il d.lgs. 231/2001

 

Il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231: profili generali

Il 2001 ha rappresentato una svolta epocale nel sistema giuridico e sanzionatorio italiano. Gli stimoli comunitari ed internazionali hanno indotto il Legislatore a superare il principio sancito dal noto brocardo societas delinquere et puniri non potest mediante l’emanazione del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”. Così facendo i soggetti collettivi sono divenuti coprotagonisti della vicenda punitiva e destinatari immediati di risposte sanzionatorie a contenuto afflittivo, orientate alla prevenzione di reati e, dunque, strumentali alla tutela di interessi penalmente rilevanti. Si parla così di “modello 231”.

La responsabilità sorge in capo all’ente qualora ricorrano gli elementi indicati dai criteri di imputazione di cui al decreto legislativo anzi citato.

Il criterio d’imputazione oggettivo ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 231/2001 richiede, oltre alla realizzazione di uno dei reati presupposto da parte di un soggetto qualificato, sia esso un soggetto apicale (art. 5, comma 1, let. a) o un subordinato (art. 5, comma 1, let. b), che la persona fisica abbia agito nell’interesse o vantaggio dell’ente collettivo.

Il collegamento oggettivo tra reato e societas, formalizzato da tale locuzione, costituisce l’espressione normativa del “rapporto di immedesimazione organica”, che prova l’esistenza in prima battuta di un “coinvolgimento” della persona giuridica nella commissione dell’illecito, facendo sorgere le basi per l’imputazione della responsabilità. Nonostante la formula utilizzata abbia dato origine fin da subito a contrasti interpretativi, ad oggi la giurisprudenza maggioritaria considera i due criteri come alternativi e disgiunti[1]: da un lato, l’interesse assumerebbe una connotazione marcatamente soggettiva, suscettibile di una valutazione ex ante; dall’altro, il termine vantaggio indicherebbe il risultato della condotta dell’individuo, evocando un dato di natura oggettiva, richiedendo una verifica ex post[2].

Per quanto concerne i criteri soggettivi d’imputazione, tipizzati negli artt. 6 e 7 d.lgs. 231/2001, è stato predisposto un modello di colpevolezza sui generis, ispirata al modello dei compliance programs di matrice anglosassone. È stato dunque introdotto un rimprovero da muovere esclusivamente a carico dell’ente, fondato sul fatto che il reato sia da considerarsi espressione di una politica aziendale deviante o il prodotto di una colpa d’organizzazione. Il correttivo esimente è fondato e strutturato attorno alla funzionalità del “modello di organizzazione e gestione” (c.d. modello 231), alla cui efficacia e idoneità è legata la sussistenza o meno della colpa organizzativa e di conseguenza il riconoscimento della responsabilità punitiva dell’ente.

Tuttavia, in origine il decreto legislativo di cui sopra presentava una sfera di operatività limitata, a causa della scelta di ancorare la responsabilità “da reato” dell’ente alla commissione di un numerus clausus di reati, esclusivamente di matrice dolosa.

Tale scelta ha provocato alcune criticità che ancor oggi sono al centro del dibattito scientifico tra dottrina e giurisprudenza, in particolare quella relativa ai criteri d’imputazione di siffatta responsabilità, orientati esclusivamente al target dei soli illeciti dolosi, e i reati colposi d’evento, nella fattispecie quelli di omicidio e di lesioni colpose gravi o gravissime conseguenti alla violazione della normativa sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 25-septies d.lgs. 231/2001 ad opera della Legge 3 agosto 2007 n. 123.

 

Un’evoluzione giurisprudenziale incentrata sul solo criterio oggettivo

Al fine di evitare di giungere a sostenere “la tesi della ontologica inapplicabilità[3] dei criteri d’imputazione, è stata la giurisprudenza a proporre varie opzioni ermeneutiche correttive, volte ad assicurare a questi un effettivo spazio di operatività[4]. In particolare, sono state le nozioni di interesse e vantaggio a creare le maggiori problematiche in quanto difficilmente conciliabili con i nuovi reati colposi d’evento.

Ad oggi il criterio consolidato nella giurisprudenza è quello per cui il dato di riferimento dell’interesse e del vantaggio debba essere la condotta inosservante costitutiva del reato e non l’evento naturalistico poiché “una diversa interpretazione priverebbe di ogni intrinseca logicità la novità normativa, essendo ovviamente impensabile che l’omicidio o le lesioni, cagionati per violazioni colpose in materia di sicurezza sul lavoro, possano intrinsecamente costituire un interesse oppure generare un vantaggio concreto per l’ente”[5].

Tale soluzione è stata accolta dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite n. 38343 del 2014, nella nota vicenda Thyssenkrupp S.p.A., la quale è da considerare uno snodo cruciale per le successive e recenti elaborazioni giurisprudenziali, in quanto rappresenta la prima decisione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla responsabilità collettiva da illecito colposo d’evento. Oltre alla conferma del rapporto di alternatività dei criteri dell’interesse e vantaggio e della loro riferibilità alla sola condotta nel caso dei reati di cui all’art. 25-septies, in particolar modo rileva il fatto che la Corte afferma, nel caso di specie, il contenuto prettamente economico delle gravissime violazioni della normativa antinfortunistica ed antincendio e le colpevoli omissioni “rispetto al quale l’azienda non solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento nello stabilimento di Torino, oltre che dell’utile contemporaneamente ritratto dalla continuità della produzione”[6].

Ne deriva dunque il ricorso al criterio d’imputazione oggettivo in una chiave economica consacrando l’interpretazione secondo cui il binomio interesse e/o vantaggio debbano essere letti in una prospettiva meramente patrimoniale dell’ente.

Difatti anche la giurisprudenza di legittimità più recente si è concentrata sul concetto di risparmio dei costi e tra queste rileva la Cass. Pen., sez. IV, 23 maggio 2018, n. 38363, nel caso che vide coinvolto il Consorzio Melinda S.C.A. Nella sentenza con cui viene respinto il ricorso dell’ente, la Corte, richiama il concetto di risparmio di spesa affermando come i due termini debbano “essere intesi nel senso che il primo sussiste in ogni caso in cui la persona fisica penalmente responsabile abbia violato la normativa antinfortunistica con il consapevole intento di ottenere un risparmio di spesa per l’ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento; mentre il secondo sussiste in ogni caso in cui la persona fisica abbia sistematicamente violato la normativa antinfortunistica, ricavandone, oggettivamente, un qualche vantaggio per l’ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio”[7].

 

L’irrilevanza giudiziale del modello 231

Da quanto sopra esposto ne consegue come il nucleo centrale delle varie motivazioni poggi essenzialmente sul solo art. 5 d.lgs. 231/2001, finendo, così di fatto, per assorbire l’altro criterio d’imputazione, ossia quello soggettivo di cui agli artt. 6 e 7 del d.lgs. 231/2001. La giurisprudenza tende ad escludere la c.d. colpevolezza d’organizzazione, ossia l’inadeguatezza della struttura organizzativa circa la prevenzione di illeciti offensivi di interessi ritenuti meritevoli di tutela, rappresentata dalla mancata adozione ed efficace attuazione di un idoneo modello 231, il quale rappresenta la formalizzazione delle regole interne adottate, al fine di contenere i rischi-reato generalmente connessi all’attività produttiva[8].

Sebbene, attraverso la lettura degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 231/2001, è possibile rilevare come il Legislatore abbia radicato la responsabilità della persona giuridica su elementi di oggettiva inadeguatezza organizzativa e gestionale, prevedendo la possibilità di discolparsi mediante la dimostrazione dell’adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo, adottato prima della commissione del fatto, contenente regole cautelari volte a prevenire la commissione di reati, la colpevolezza d’organizzazione non viene approfondita o comunque non è determinante ai fini della valutazione giudiziale, tanto che la giurisprudenza giunge di fatto a sostenere che qualora vi sia la realizzazione di un reato, sussista in automatico un deficit organizzativo e di conseguenza l’inidoneità del modello 231 adottato e attuato dall’ente.

L’idea di fondo che anima la normativa in esame è che il crimine di impresa affondi le proprie radici nella struttura organizzativa dell’ente. Da qui, per soddisfare le esigenze di prevenzione generale e speciale, la necessità di intervenire su tale struttura, al fine di indurre le aziende ad adottare regole di comportamento virtuose, che incidano positivamente sull’organizzazione, in modo da prevenire il rischio di commissione del reato[9]. Tuttavia, l’ampia discrezionalità rilasciata all’accertamento giudiziale circa il contenuto del modello 231 hanno determinato una profonda disapprovazione da parte del mondo imprenditoriale, il quale deve oltretutto sostenere ingenti “sforzi” economici per la redazione del modello in questione[10].

Ciò non ha fatto altro che alimentare numerose incertezze sull’effettiva capacità esimente del modello. La valutazione risiede quasi esclusivamente nelle mani del giudice, finendo per eliminare qualsiasi incentivo ad adottare un modello organizzativo, poiché l’imprenditore non avrebbe mai la certezza, nonostante il modello 231, di aver assolto ai propri doveri.

In conclusione, gli artt. 6 e 7 del decreto risultano privi di effettività applicativa, tanto che se l’ente nutre fondate speranze di assoluzione, deve fondare la sua difesa sull’art. 5, poiché una volta individuato nel reato presupposto un interesse o vantaggio per l’ente, diviene pressoché impossibile l’assoluzione della persona giuridica.

Informazioni

C. E. Paliero, “Dieci anni di ‘‘corporate liability’’ nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi”, in Le Società, Milano, 2011.

A. Gargani, “Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?”, in AA.VV., “Studi in onore di Mario Romano”, (a cura di) M. Bertolino, L. Eusebi, G. Forti, III, Napoli, 2011.

M. Colacurci, “L’idoneità del modello nel sistema 231, tra difficoltà operative e possibili correttivi”, 2016, in Riv. Tri. Pen. con.

C. Piergallini, Il modello organizzativo alla verifica della prassi, in Le Società, 2011, p. 46ss.

G. Fidelbo, La valutazione del giudice penale sull’idoneità del modello organizzativo, in Le Società, 2011, cit., p. 56.

[1] Ex multis Cass. Pen, Sez. V, 28 novembre 2013, Banca Italease s.p.a.; Cass. Pen., Sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24559

[2] Cass. Pen., Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615.

[3] C. E. Paliero, “Dieci anni di ‘‘corporate liability’’ nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi”, in Le Società, Milano, 2011.

[4] Per una puntuale ricostruzione delle varie soluzioni adottate si rimanda a: A. Gargani, “Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?”, in AA.VV., “Studi in onore di Mario Romano”, (a cura di) M. Bertolino, L. Eusebi, G. Forti, III, Napoli, 2011.

[5] Trib. Trani, sez. distaccata di Molfetta, 11 gennaio 2010.

[6] C. Ass. Torino, sez. II, 15 aprile 2011.

[7] Cass. Pen., sez. IV, 23 maggio 2018, n. 38363.

[8] M. Colacurci, “L’idoneità del modello nel sistema 231, tra difficoltà operative e possibili correttivi”, 2016, in Riv. Tri. Pen. con.

[9] Cfr. C. Piergallini, Il modello organizzativo alla verifica della prassi, in Le Società, 2011, p. 46ss.

[10] G. Fidelbo, La valutazione del giudice penale sull’idoneità del modello organizzativo, in Le Società, 2011, cit., p. 56.

Abbiamo parlato di modello 231 anche in questo articolo.

Per le sentenze della Corte di Cassazione, si rimanda al sito ufficiale.