Il diritto alla salute alla prova del bilanciamento
L’articolo mette in luce il perimetro costituzionale del diritto alla salute e si interroga su come esso possa essere bilanciato anche in questo periodo caratterizzato dalla pandemia Covid-19
Premessa generale sul diritto alla salute
Prima di poter comprendere come il nostro ordinamento tutela la salute[1] e come la stessa sia oggetto di bilanciamento nei confronti degli altri diritti fondamentali, è necessario inquadrare a livello dogmatico il relativo diritto, il quale è rubricato all’articolo 32 della Costituzione e, come si può ravvisare dalla lettura del testo, è l’unico rispetto al quale il nostro Costituente ha affiancato l’aggettivo “fondamentale”.
Questa scelta non è casuale e pone in un piano peculiare e centrale la salute come bene giuridico che deve essere protetto sia nella forma individuale – si pensi, in tal senso, all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel 1978 – sia nella collettiva, basti considerare le vaccinazioni obbligatorie per legge. Inoltre, considerato che si tratta di un diritto sociale, è necessario evidenziare che la Carta costituzionale pone una norma programmatica che deve essere resa effettiva da tutte le altre fonti. In quest’ottica si consideri le potestà normative delle Regioni in ambito sanitario attraverso il sistema delle Aziende Ospedaliere Locali (Asl) che assolve a livello periferico i compiti dell’SSN.
Proseguendo con l’analisi del secondo comma dell’articolo 32, è disposto che qualsiasi trattamento per essere obbligatorio deve necessariamente essere previsto dalla legge e in nessun caso può concernere in violazioni dei diritti essenziali della persona. Questo, in altri termini, significa che una determinata cura può essere resa obbligatoria solamente se c’è una legge che la prescrive; in caso contrario la scelta sarà sempre rimessa alla libertà di coscienza dell’individuo.
Il diritto alla salute alla prova del bilanciamento
Considerato questo inquadramento generale della disciplina, vediamo ora come il diritto alla salute si atteggi relativamente al bilanciamento con gli altri diritti. Difatti per poter comprendere appieno la sua l’effettività, nonché quella della sua tutela, bisogna ricercare come il Legislatore li applichi nella realtà concreta. In questa direzione è sicuramente un momento complesso quello che stiamo vivendo con la pandemia Covid-19, la quale ha imposto di contemperare una molteplicità di interessi a fronte della protezione della salute della collettività. Per questa ragione è di particolare rilevanza rapportarsi con un caso giurisprudenziale con il quale si può intuire, oltre che l’indirizzo del Legislatore, l’orientamento delle corti.
Il caso della regione Lombardia
Il caso che si è scelto è quello della Regione Lombardia che, a fronte di una maggiore protezione potenziale della salute, ha deciso di restringere il diritto allo studio degli alunni. Procedendo, però, per gradi è utile volgere l’attenzione all’ordinanza del Presidente della Regione Lombardia n°676 dell’8 gennaio 2021[2] che ha disposto il ricorso alla didattica a distanza per tutti gli studenti per un lasso di tempo che va dal dall’11 gennaio 2021 fino al 24 gennaio 2021. L’ordinanza è stata impugnata dinnanzi al Tar e per comprendere appieno la problematica è bene ripercorrere il ragionamento logico del Presidente del Tar Lombardia, che individua prima di tutto la cornice normativa legata alla competenza della materia[3] e successivamente analizza il merito del provvedimento amministrativo. A livello formale la competenza relativa al diritto allo studio ed in particolare alle modalità di erogazione dei servizi didattici rimane in capo al Governo come stabilito dall’art. 1 co. 13 del d.l. 33/2020, convertito nella l.74/2020. Il Presidente della Regione può intervenire, come sancito dall’art.3 del d.l. 33/2020, solamente nelle “more” dell’adozione dei DPCM in modo tale che non vi sia un “vuoto normativo”.
Per avere una visione più chiara della disciplina relativa alla fruizione dei servizi scolastici nel periodo preso in esame, si può considerare il seguente schema:
- Dal 7 gennaio al 10 gennaio 2021 la didattica è disciplinata dal DPCM del 3 dicembre 2020
- Dall’11 gennaio al 16 gennaio 2021 la didattica è disciplinata dal d.l. 1/2021
Questa considerazione mette in luce la prima illegittimità dell’ordinanza, la quale si sovrappone, nel periodo fra l’11 ed il 15 gennaio, alla fonte primaria del decreto-legge. Conseguentemente, seguendo l’iter argomentativo del provvedimento presidenziale, è fondata la censura di una parte dell’ordinanza che confligge indebitamente con la fonte primaria.
Addentriamoci ora nella seconda questione affrontata, ossia quella relativa al merito dell’ordinanza. Difatti la normativa statale è efficace fino al 16 di gennaio e, non essendoci una fonte che regola il periodo successivo, il potere del Presidente della Regione Lombardia è esercitato in ossequio al suddetto principio di competenza. Nel caso di specie l’ordinanza prevede che nel periodo fino al 24 gennaio 2021 gli alunni possano usufruire della didattica unicamente a distanza, perché le lezioni in presenza posso causare “probabili assembramenti nei pressi dei plessi scolastici, non correlato rischio di diffusione del contagio presso le famiglie”[4].
Con la fonte secondaria si è voluto tutelare la salute degli studenti che sarebbe messa a repentaglio dalla possibilità di formazione di assembramenti conseguenti alla fruizione didattica in presenza. Inoltre viene anche considerato che la riapertura delle scuole avrebbe come diretta ripercussione il sovraccarico dei mezzi di trasposto e, quindi, un concreto rischio della possibilità dell’aumento della diffusione del virus. Per questa ragione si è disposto che gli studenti non potessero, nemmeno parzialmente, rientrare negli edifici scolastici o continuare la didattica mista.
Le considerazioni finora svolte ci consentono, a questo punto, di entrare nel vivo della problematica delineata, andando ad approfondire la “ratio” di come è stato usato lo strumento dell’ordinanza e focalizzando l’attenzione sul bilanciamento fra il diritto alla salute e quello allo studio. Per quanto concerne il presupposto dello strumento dell’ordinanza oggetto dell’analisi, è necessario premettere che, dopo la riforma del 2012 dell’art.1 co.1 della l. 241/1990, è previsto che l’attività amministrativa si debba uniformare all’ordinamento eurocomunitario e, di conseguenza, viene importato il cosiddetto principio di precauzione[5]. Si tratta di un corollario che consente alla pubblica amministrazione, nei casi emergenziali, di derogare alle rigidità previste dalla legge in modo tale da potersi conformare alle esigenze concrete. Questo si rispecchia nella circoscrizione del sindacato del giudice che è ristretto specificatamente alla adeguatezza ed alla proporzionalità della misura[6] adottata. Il Presidente del Tar, addentrandosi nell’analisi del merito, non ravvisa un corretto bilanciamento[7] da parte dell’ordinanza poiché si tiene in considerazione “un rischio solo ipotetico di formazione degli assembramenti”[8] e, quindi, non si prospetta un reale rischio per la salute degli alunni.
Per questa ragione viene ritenuta fondata anche la parte del ricorso con la quale si lamenta la limitazione irragionevole del diritto allo studio perché, come ben si evidenzia, non si può intervenire per prevenire il mero rischio di formazione degli assembramenti con una limitazione tanto stringente dei diritti fondamentali.
Conclusione
Si è ora in grado di tirare le fila di questo discorso, grazie all’analisi dell’ordinanza del presidente del Tar che si è analizzata, la quale è una applicazione pratica di come anche il diritto alla salute possa essere oggetto del bilanciamento dei diritti. A mio avviso questo periodo di pandemia ha riportato al centro della dinamica legislativa la tutela della salute dell’individuo che, come si può ben ravvisare dalla fitta normativa statale e infra-statale, è divenuta preminente rispetto a tutti gli altri diritti costituzionali.
Pertanto sarebbe auspicabile che il Legislatore, considerato anche l’attuale andamento epidemiologico, cerchi di ampliare nuovamente anche gli altri diritti fondamentali; certamente sempre in un’ottica di adeguatezza e proporzionalità correlativamente alle concrete necessità fattuali.
Informazioni
R. Bin, G. Pitruzzella, DIRITTO COSTITUZIONALE, Torino, G.Giappichelli Editore, 2016
P. Caretti, U. De Siervo, ISTITUZIONI DI DIRITTO PUBBLICO, Torino, G.Giappichelli Editore, 1999
V. Di Capua, Il nemico invisibile. La battaglia contro il Covid-19 divisa fra Stato e Regioni, federalismi.it, 20 maggio 2020
TAR Lombardia, Milano, sez. I, decreto monocratico, 13 gennaio 2021, n. 32
[1] Per avere un quadro ampio e completo sul diritto alla salute si veda A.Federico, La Convezione di Oviedo e il consenso informato, DirittoConsenso, 22 gennaio 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/22/convenzione-di-oviedo-e-consenso-informato/
[2] Per comprendere come in questo periodo pandemico siano state usate le ordinanze regionali si veda M.Fanari, Fra uso e abuso delle ordinanze regionali, DirittoConsenso, 9 marzo 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/09/uso-e-abuso-ordinanze-regionali/
[3] Sulla competenza dei DPCM e sui loro rapporti con le ordinanze regionali si legga G.De Lucia, DPCM e ordinanze regionali: al limite della legge, DirittoConsenso, 4 maggio 2020. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/04/dpcm-e-ordinanze-regionali-al-limite-della-legge/
[4] Ordinanza del Presidente della Regione Lombardia n°676 dell’8 gennaio 2021
[5] V.Di Capua, Il nemico invisibile. La battaglia contro il Covid-19 divisa fra Stato e Regioni, federalismi.it, 20 maggio 2020
[6] V.Di Capua, op.cit.
[7] Con il termine “bilanciamento” si sta intendendo l’analisi del giudice in merito alla correttezza della proporzionalità della scelta fatta dal Legislatore regionale.
[8] TAR Lombardia, Milano, sez. I, decreto monocratico, 13 gennaio 2021, n. 32
Fra uso e abuso delle ordinanze regionali
Un articolo per mettere in luce il perimetro costituzionale delle ordinanze regionali in questo periodo dominato dalla pandemia Covid-19
Le ordinanze come strumento normativo
Prima di analizzare le ordinanze regionali, è bene introdurre l’argomento partendo da cosa sia l’ordinanza in senso generico. L’ordinanza è uno strumento normativo “extra ordinem” che il Legislatore predispone per affrontare delle situazioni emergenziali in cui è necessario emanare un provvedimento in breve tempo e per un lasso di tempo circoscritto. Già da questa prima definizione comprendiamo che la legislazione norma unicamente le condizioni che permettono l’esercizio del potere di ordinanza ed i limiti della stessa. Difatti sarebbe irragionevole definire già in sede legislativa il contenuto della fonte amministrativa, che ha come peculiarità la capacità di adattarsi alla situazione concreta grazie all’esercizio della discrezionalità dell’Amministrazione.
Nel tempo la giurisprudenza costituzionale ha individuato i limiti dell’ordinanza:
- Rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle riserve di legge
- Efficacia limitata nel tempo
- Obbligo di motivazione (necessario per far sì che il potere non sia esercitato arbitrariamente)
- Proporzionalità fra misure adottate ed evento
Le ordinanze del Presidente della Regione
All’interno della grande categoria che abbiamo brevemente esposto, si trova la “species” delle ordinanze emanate dal Presidente della Giunta Regionale. Anche in questo caso il Legislatore ha voluto tipizzare gli ambiti di applicazione delle ordinanze, che possiamo riassumere nel seguente schema
- Ordinanza regionale in materia sanitaria
Art. 32 co.3 della legge n°833/1978: “Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale.”
- Ordinanza regionale in materia ambientale
Art. 191 co.1 del d.lgs n°152/2006: “Ferme restando le disposizioni vigenti in materia di tutela ambientale, sanitaria e di pubblica sicurezza, con particolare riferimento alle disposizioni sul potere di ordinanza di cui all’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, istitutiva del servizio nazionale della protezione civile, qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell’ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, nel rispetto, comunque, delle disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione europea, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente […]”
- Ordinanze regionali normate dal Codice di Protezione civile
Art. 25 co.11 del d.lgs. 1/2018: “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nell’esercizio della propria potestà legislativa, definiscono provvedimenti con finalità analoghe a quanto previsto dal presente articolo in relazione alle emergenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettera b), da adottarsi in deroga alle disposizioni legislative regionali vigenti, nei limiti e con le modalità indicati nei provvedimenti di cui all’articolo 24, comma 7.”
Da questa breve disamina delle fonti legislative riscontriamo un dato comune: l’ordinanza è sempre prefigurata come strumento eccezionale che deve essere utilizzato solo nei casi di stretta necessità. Basti solamente ribadire gli aggettivi “contingibile” ed “urgenti” che il Legislatore usa per caratterizzare le ordinanze regionali in materia di tutela della salute pubblica e di tutela dell’ambiente.
Le ordinanze regionali in epoca pandemica ed il caso del passaporto sanitario
In questo periodo dominato dalla pandemia Covid-19 abbiamo assistito ad una fitta normativa caratterizzata da Dpcm, decreti legge, ordinanze regionali e comunali. Tutte queste fonti si sono poste in un rapporto dialettico e, spesso, hanno ingenerato nel cittadino un senso di confusione sia perché i testi non erano scritti in modo chiaro sia perché si è venuto a creare un vero e proprio scontro fra le competenze centrali e quelle periferiche. Un esempio concreto è il caso del passaporto sanitario che è stato istituito con l’ordinanza del Presidente della Regione Sardegna n°43 dell’11 settembre 2020 e che il Tar Sardegna ha annullato poiché non era conforme alla normativa statale. Procediamo per gradi e facciamo un piccolo passo indietro, dicendo che l’ordinanza regionale sarda prevedeva “per tutti coloro che, anche in assenza di sintomi della malattia, intendono fare ingresso nel territorio regionale (con esclusione dei soggetti indicati all’articolo 12), la presentazione, all’atto dell’imbarco, dell’esito di un test (sierologico o molecolare o antigenico rapido), effettuato nelle 48 ore precedenti, costringono coloro che non
avessero effettuato preventivamente il test ad effettuarlo, a mezzo di tampone, entro 48 ore dall’ingresso nel territorio regionale, in strutture pubbliche o private accreditate presenti nella regione, prevedendo per gli stessi “l’isolamento domiciliare”, fino all’esito negativo degli stessi esami e salvo ulteriori diverse disposizioni dell’Azienda sanitaria competente”[1].
Il Presidente del Tar Sardegna nella propria ordinanza sospensiva ravvisa che l’ordinanza regionale rappresenta una restrizione della libertà di circolazione e “non appare pertanto adottata nel rispetto delle indicate disposizioni normative e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio epidemiologico effettivamente presente nella regione”[2]. Notiamo fin da subito che viene messo in luce la necessità che l’ordinanza sia relazionata al caso concreto ed in nessun caso può essere derogatoria delle libertà fondamentali. Il provvedimento di sospensione che abbiamo analizzato è stato confermato dalla sentenza collegiale dell’8 ottobre 2020.
E la Costituzione?
Le ordinanze regionali sono servite, come abbiamo potuto vedere, anche alla limitazione di libertà costituzionalmente protette, contrastando con il principio della gerarchia delle fonti. L’ottica dell’emergenza ha fatto sì che venissero adottati dei provvedimenti che dessero una risposta immediata, ma non sempre adeguatamente giustificata. Infatti, come è stato evidenziato in variati contributi[3], è stata messa in dubbio la costituzionalità dell’art.2 del d.l. n°6/2020 che concede una “delega in bianco” alle Regioni per l’emanazione delle ordinanze. Il Legislatore ha posto dei limiti alla delega, fra i quali ricordiamo: la competenza della materia; la possibilità di intervenire nelle more del procedimento dei Decreti del Presidente del Consiglio. In ogni caso è ragionevole chiedersi se l’emergenza sanitaria sia o meno una giustificazione a questo vero e proprio “strappo” costituzionale.
Un bivio per il regionalismo
L’insieme delle ordinanze regionali che si sono succedute durante questa crisi sanitaria rappresenta la “cartina tornasole” del regionalismo italiano, che ha mostrato i propri problemi di interconnessione fra Stato, Regioni e Autonomie locali. La nostra forma di governo, successivamente alla riforma del Titolo V[4], ha subito una prepotente svolta regionalistica che, però, non è riuscita ad appacificare i conflitti fra il “centro” e la “periferia”. Da un certo punto di vista questo è accaduto anche perché lo Stato ha cambiato spesso il proprio indirizzo, promuovendo delle scelte accentartici che si contrappongono allo spirito della riforma del 2001. Sarebbe, quindi, auspicabile che il livello politico individui un indirizzo che conduca ad una svolta in senso autonomistico oppure centralistico in modo tale da garantire maggiore certezza nel rapporto fra lo Stato e le Regioni.
Informazioni
R. Bin, G. Pitruzzella, DIRITTO COSTITUZIONALE, Torino, G.Giappichelli Editore, 2016
E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré Francis Lefebvre, 2019
V. Di Capua, Il nemico invisibile. La battaglia contro il Covid-19 divisa fra Stato e Regioni, federalismi.it, 20 maggio 2020
F. Furlan, Il potere di ordinanza dei Presidenti di Regione ai tempi di Covid19, federalismi.it, 23 settembre 2020
Tar Sardegna n. 00344/2020 REG.PROV.CAU
Tar Sardegna n. 00368/2020 REG.PROV.CAU
[1] Tar Sardegna N. 00344/2020 REG.PROV.CAU.
[2] Tar Sardegna N. 00344/2020 REG.PROV.CAU.
[3] Fra tutti si veda F.Furlan, Il potere ordinanza dei Presidenti di Regione ai tempi del Covid19, federalismi.it, 23 settembre 2020
[4] Per comprendere la svolta regionalistica della nostra forma di governo si veda il sistema delle nuove competenze regionali in A.Federico, L’articolo 117 della Costituzione tra sussidiarietà e adattamento, DirittoConsenso, 4 novembre 2020
Il Consiglio Superiore della Magistratura: tra autonomia e dipendenza
L’articolo spiega la struttura e le funzioni del Consiglio superiore della Magistratura, tentando di mettere in luce le criticità e le prospettive di riforma
Premessa generale sulla magistratura
È necessaria un’introduzione prima di parlare specificamente del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). “La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”. Così recita il primo comma dell’articolo 104 della Costituzione con il quale il Legislatore sancisce due principi fondamentali in riferimento alla magistratura:
- l’autonomia e
- l’indipendenza.
Il primo principio, l’autonomia, rappresenta una vera rivoluzione rispetto alla concezione passata, infatti il potere giudiziario era a tutti gli effetti una “longa manus” del potere esecutivo. Oggi, invece, è autonomo in modo tale da non poter essere oggetto da indebiti condizionamenti da parte degli altri poteri dello Stato. Il secondo principio, l’indipendenza, ha la funzione di garantire che l’organo giurisdizionale sia sempre “super partes”, perciò mai fazioso rispetto alla fattispecie che ha il compito di giudicare. Si aggiunge, inoltre, il principio di inamovibilità dei magistrati per il quale non possono essere trasferiti in altre sedi se non con il loro consenso.
Per garantire quanto abbiamo finora spiegato, il Costituente ha istituito il Consiglio Superiore della Magistratura che è l’organo di autogoverno della magistratura.
Brevi cenni sull’associazionismo all’interno della magistratura
Prima di proseguire il nostro approfondimento sulla struttura e sul funzionamento del CSM è necessario soffermarci sul fenomeno dell’associazionismo nella magistratura italiana.
Nel 1909 nasce l’Associazione Generale tra i Magistrati d’Italia (AGMI) che aveva lo scopo di tutelare la condizione economica e lavorativa dei magistrati dell’epoca. In particolare rivendicavamo l’estensione dell’inamovibilità anche ai Pubblici Ministeri, nonché l’aumento della retribuzione. Il fenomeno non era stato visto di buon occhio dagli organi governativi, in questo senso basta rammentare che il Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando considerava l’associazionismo come l’inizio della politicizzazione della magistratura e, di conseguenza, il preludio della fine della sua natura apartitica. Questa visione nel complesso è corretta perché con il tempo, a seguito di fratture ideologiche, i gruppi rappresentativi all’interno della magistratura si moltiplicano così come i contrasti fra i loro componenti.
Attualmente è presente l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) a cui aderisce circa il 90 percento[1] dei magistrati italiani e al suo interno possiamo rintracciare svariate correnti che si confacciano con le principali dottrine politiche presenti nel nostro Paese.
Il Consiglio Superiore della Magistratura
Il CSM è un organo costituzionale che è normato dall’articolo 104 della Costituzione. Da una sua lettura capiamo che la Magistratura, pur essendo indipendente, è raccordata con il potere politico perché il suo organo di autogoverno è presieduto dal nostro Capo dello Stato. Certamente, come noteranno i più acuti osservatori, il ruolo del Presidente della Repubblica[2] è sostanzialmente formale e le funzioni sono esercitate dal Vicepresidente[3].
Per comprendere la struttura del CSM possiamo riassumerla nei seguenti tre punti:
- Ci sono due componenti di diritto: il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione
- Due terzi dei componenti sono eletti dai magistrati ordinari
- Un terzo dei componenti è eletto dal Parlamento in seduta comune. L’assemblea legislativa elegge la parte “non togata” del CSM e, come normato dalla Costituzione, deve scegliere fra i professori ordinari di materie giuridiche e fra gli avvocati con almeno 15 anni di professione.
Come previsto dalla l. 44/2002 i membri elettivi sono ventiquattro e si dividono in sedici togati e otto laici. La durata della carica è di quattro anni e “non sono immediatamente rieleggibili”[4].
L’elezione dei componenti togati
La fase elettorale è il punto di raccordo fra il CSM e l’associazionismo dei magistrati, infatti le correnti che si sono create all’interno dell’ANM rappresentano un canale privilegiato per la “raccolta” dei voti e, quindi, la successiva elezione del candidato. In termini normativi il sistema elettorale è normato dalla già citata l. 44/2002 e si basa sulla costituzione di tre collegi nazionali:
- Collegio unico nazionale per l’elezione di due magistrati della Corte di Cassazione
- Collegio unico nazionale per quattro magistrati che svolgano la funzione di Pubblico Ministero presso gli uffici di merito, la Direzione Nazionale Antimafia o la Procura Generale presso la Corte di Cassazione
- Collegio unico nazionale per dieci magistrati che svolgano funzioni giudicanti presso gli uffici di merito o presso la Corte di Cassazione.
Le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura
Il CSM è un organo collegiale che svolge i propri compiti attraverso le dieci commissioni che sono istituite al suo interno. Generalmente la singola commissione promuove una proposta che è presentata dinnanzi all’Assemblea plenaria (comunemente denominata “Plenum”), nella quale sono riuniti i membri eletti e quelli di diritto.
Le principali funzioni del CSM sono le seguenti:
- Assegnazione degli incarichi
- Valutazioni professionali dei magistrati
- Trasferimenti
- Assunzioni (gestione dei concorsi per l’accesso alla Magistratura)
- Procedimenti disciplinari
- Nomina dei magistrati presso la Corte di Cassazione
- Nomina dei magistrati onorari.
Avverso ai provvedimenti del CSM è ammesso il ricorso presso il T.A.R. Lazio e per l’eventuale secondo grado presso il Consiglio di Stato.
Assume peculiare rilevanza la sezione interna al CSM che si occupa dei procedimenti disciplinari, ossia tutte quelle procedure volte a verificare se il magistrato abbia compiuto atti contrari al corretto esercizio della funzione giurisdizionale. Inoltre, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n°497 del 16 novembre 2000, il magistrato incolpato può farsi assistere da un avvocato nel corso del giudizio disciplinare. Il provvedimento assunto dal CSM è impugnabile dinnanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Le critiche all’attuale sistema
Il sistema appena descritto non è esente da critiche perché, considerato che il CSM ha il compito di nominare i titolari degli uffici più importanti, si rischia di non premiare più la competenza bensì l’appartenenza ad una corrente. Per questa ragione alcuni studiosi[5] si stanno interrogando su come modificare il meccanismo elettorale vigente in modo tale da favorire la competenza e l’efficienza del CSM e, più in generale, della magistratura. La proposta principale è quella di eleggere i componenti attraverso il sistema del sorteggio, anche se non tutti i magistrati saranno immediatamente eleggibili, ma dovrà essere la legge a stabilire i titoli ed i parametri necessari per essere sorteggiati. Questa prospettiva cancellerebbe il rapporto fra eletto e corrente, garantendo l’indipendenza dei magistrati eletti.
Allo stesso tempo dobbiamo sottolineare, come evidenzia il Prof. Mauro Volpi[6], che il metodo del sorteggio non è esente da rischi di formazione di raggruppamenti di interesse. Infatti è sempre possibile che le correnti si formino fra i membri sorteggiati, quindi all’interno del CSM e non più al di fuori come oggi.
Lo scandalo Palamara e la risposta del CSM
Recentemente, come possiamo apprendere dai mezzi di informazione, alcuni membri del CSM sono stati indagati perché accusati di aver inciso illegittimamente sulle nomine degli uffici direttivi delle Procure. L’inchiesta delinea una rete di collusione fra i partiti politici e le formazioni correntizie interne al CSM, in cui l’assegnazione degli incarichi è legata prevalentemente alla vicinanza ad una o all’altra corrente e non al merito personale del singolo magistrato. Gli investigatori ritengono che al centro di questo sodalizio criminoso ci sia il dott. Luca Palamara che svolgeva sostanzialmente il ruolo di un “ufficio di collocamento”, infatti alcuni magistrati si recavano da lui per chiedere l’incarico a cui ambivano. Questo episodio è il risultato della degenerazione delle correnti che si sono trasformate in veri e propri centri di potere che minano il principio di autonomia ed indipendenza della magistratura. In quest’ottica sono importanti le parole pronunciate dal Vicepresidente del CSM David Ermini durante la cerimonia per l’apertura dell’anno giudiziario alla Corte di Cassazione con le quali afferma che: ”nell’anno appena trascorso il Consiglio superiore, dopo aver rischiato di essere travolto dalle dolorosissime vicende venute alla luce l’anno precedente, che avevano reso evidente una degenerazione correntizia non più sostenibile, era chiamato a dimostrare di saper continuare ad assolvere la funzione di governo autonomo della magistratura attribuitagli dalla Costituzione: ciò non solo attraverso la serietà e puntualità nell’accertamento delle responsabilità disciplinari (nonché attraverso l’impegno e la continuità del lavoro istituzionale), ma anche (e principalmente) attraverso le modalità di assunzione delle deliberazioni” e continua dicendo che crede che: ”di poter affermare che il Consiglio ha dato questa dimostrazione”. Seppure da un certo punto di vista quanto detto dal dott. Ermini è condivisibile agli occhi dei cittadini l’Istituzione è ancora delegittimata perché l’inchiesta è ancora aperta e troppo recente da poter essere già “dimenticata”.
Conclusioni
Il CSM è un organo essenziale ed imprescindibile per la struttura della magistratura perché, oltre al raccordo col potere politico, permette di gestire, valutare e sanzionare i magistrati. Si tratta, perciò, di una struttura che governa la magistratura ordinaria. Purtroppo, però, non bisogna celare le criticità del sistema elettorale che oggi è stato messo appunto dal Legislatore. In quest’ottica sarebbe necessario un suo rinnovamento nella direzione di garantire l’indipendenza dei componenti da qualsiasi interesse che sia diverso dal buon andamento della istituzione. Certamente l’idea del sorteggio è una proposta di soluzione, ma non bisogna nascondersi dal problema della formazione delle correnti successive al momento elettorale. Il problema, come possiamo notare, non è di facile risoluzione anche se è sicuramente lucida ed attuale la visione che Piero Calamandrei esprime durante il Convegno sul processo civile del 1952 con la quale asserisce che: “l’indipendenza ci sarà, se nei magistrati ci sarà la forza morale, il senso di responsabilità, l’autonomia spirituale necessaria per farla vivere; non ci sarà se queste premesse morali della coscienza mancheranno: non sarà il Consiglio Superiore della Magistratura a farla vivere”.
Informazioni
R. Bin, G. Pitruzzella, DIRITTO COSTITUZIONALE, Torino, G.Giappichelli Editore, 2016
M. Volpi, LE CORRENTI DELLA MAGISTRATURA: ORIGINI, RAGIONI IDEALI, DEGENERAZIONI, Rivista AIC, N°2/2020
L. Violante, UN’IDEA DI SORTEGGIO PER IL CSM: E’ IN GIOCO LA LIBERTA’, Il Foglio, 1 giugno 2019
A.Massari, Ufficio di collocamento giudici, citofonare Luca Palamara, Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2020
[1] Il dato è preso dal sito ufficiale dell’ANM: https://www.associazionemagistrati.it/
[2] Sul ruolo del Presidente della Repubblica si veda: G. De Lucia, Il Presidente della Repubblica, DirittoConsenso, 16 ottobre 2020
[3] Il Vicepresidente è eletto dal Consiglio ed è un componente di nomina parlamentare (vd. Art.104 co.5 Cost.)
[4] Art.104 co.6 Cost.
[5] Ricordiamo fra gli studiosi il Prof. Luciano Violante
[6] M.Volpi, LE CORRENTI DELLA MAGISTRATURA: ORIGINI, RAGIONI IDEALI, DEGENERAZIONI, Rivista AIC, N°2/2020
Le funzioni della Corte dei conti fra giurisdizione e controllo
L’articolo mette in luce le principali funzioni della Corte dei conti muovendo i propri passi dalla Costituzione per arrivare alle norme di dettaglio
Premessa generale
La Corte dei conti è un organo a rilevanza costituzionale, regolato dagli articoli 100 e 103 della Costituzione. Da una loro prima lettura notiamo che le funzioni della Corte dei conti sono sia di controllo che giurisdizionali. Si tratta di competenze che, come cercheremo di spiegare nel corso dello scritto, sono solo all’apparenza antinomiche. Infatti il Legislatore ha voluto costituire un organo con capacità peculiari e specialistiche, che hanno necessità di essere assolte da una struttura “ad hoc”.
La funzione giurisdizionale
Fra le funzioni della Corte dei conti iniziamo l’analisi da quella giurisdizionale. L’art. 103 co. 2 della Costituzione statuisce che: ”la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”. Ciò significa che alla magistratura contabile sono riservati i giudizi di responsabilità amministrativa per danno erariale ed i cosiddetti giudizi di conto (relativi alla responsabilità contabile).
Entrambi i procedimenti per l’accertamento delle dette responsabilità sono regolati nel d.lgs. 174 del 26 agosto 2016, comunemente denominato come il “Codice di giustizia contabile”. Si tratta del codice più giovane del nostro ordinamento, che richiama al suo interno i principi di effettività[1], di ragionevole durata del processo[2] e di giusto processo[3]. Inoltre, il rinvio esplicito alla conformazione ai principi di diritto europeo rappresenta una rilevante evoluzione rispetto ai codici classici.
Iniziando dal giudizio di accertamento della responsabilità amministrativa, il procedimento è atto a riscontrare se sia imputabile una qualche responsabilità al funzionario o all’incaricato di pubblico servizio. Questo viene verificato attraverso un processo in cui riveste un ruolo assai rilevante il Procuratore. Quest’ultimo ha il compito di “iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’azione di danno erariale, a fronte di specifiche e concrete notizie di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge”[4]. Qualora vi sia necessità, il magistrato requirente può avvalersi di un nucleo della Guardia di Finanza, costituito appositamente per la procura contabile. Durante la fase delle indagini vige il segreto istruttorio e, di conseguenza, l’indagato non è a conoscenza della procedura a suo carico. Inoltre, in conformità con la nuova normativa a tutela del “whistleblowing”, colui che ha effettuato la segnalazione non viene menzionato durante l’indagine e l’eventuale successiva fase del processo.
Peculiarità del giudizio dinnanzi la Corte dei Conti è che il Procuratore, prima di notificare l’atto di citazione, ha l’obbligo di convocare l’imputato per dargli la possibilità di discolparsi. Qualora ciò non avvenga, l’atto di citazione è l’inizio della fase processuale. Il Procuratore che accusa l’imputato ha l’onere di provare tutti gli elementi della responsabilità: la condotta dannosa; il rapporto di servizio; l’elemento psicologico (almeno la colpa grave, come confermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n°371 del 20 novembre 1998); il nesso di causalità (giudizio di prevedibilità “ex ante” dell’evento).
Oltre al primo grado, il Legislatore ha previsto sia l’appello sia il ricorso per Cassazione che è ammesso solo per motivi di giurisdizione[5], come stabilito dalla Carta Costituzionale. Il giudice di legittimità può essere adito solo per verificare se la Corte dei conti ha “correttamente utilizzato il potere di giudicare”[6].
Il giudizio contabile: a cosa serve?
A questo punto passiamo all’analisi del giudizio contabile, che è volto ad accertare la regolarità del rendiconto redatto da colui che ha maneggiato danaro o valori pubblici. Si tratta di una responsabilità che oggi ha le medesime caratteristiche di quella amministrativa sia da un punto di vista soggettivo sia da quello oggettivo. In quest’ottica comprendiamo che la responsabilità contabile sorge all’”esistenza di un effettivo inadempimento, addebitabile a dolo o colpa grave dell’agente”[7]. In aggiunta consideriamo che l’imputato subisce delle conseguenze patrimoniali sfavorevoli solo se “il conto, così come reso, non consente di verificare la regolarità della gestione del denaro o dei beni da parte del contabile”[8].
La funzione di controllo
A questo punto, continuando l’analisi delle funzioni della Corte dei conti, passiamo alla disamina della competenza di controllo. L’art 100 co.2 della Costituzione recita che: ”la Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito”.
Possiamo schematizzare le funzioni della Corte dei conti nel campo del controllo nei confronti dello Stato in tre categorie:
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Il controllo preventivo sugli atti del Governo
La dottrina e la giurisprudenza hanno dibattuto a lungo sulla classificazione del termine “atti del Governo”. Difatti si riteneva che dovessero essere esclusi dal controllo tutti gli atti normativi, poiché vi era il rischio di far influenzare il potere esecutivo da quello giudiziario. Per questa ragione il Legislatore ha tipizzato quali fossero gli atti dell’esecutivo soggetti al controllo della Corte all’art.3 co. 1 della l.20/1994 e fra essi possiamo ricordare: le direttive generali per l’indirizzo e lo svolgimento dell’attività amministrativa; i provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare e gli atti che il Presidente del consiglio richieda di sottoporre temporaneamente a controllo preventivo o che la Corte dei conti deliberi di assoggettare, per un periodo determinato, a controllo preventivo, in relazione a situazioni di continua e diffusa irregolarità rilevate in sede di controllo successivo. Il visto dato per certificare la legittimità è un atto autonomo dal quale “dipende l’efficacia del provvedimento sotto controllo”[9].
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Il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato
Il compito è quello di verificare se gli organi deputati alla gestione dei fondi pubblici sono riusciti o meno a perseguire gli obiettivi che si erano prefissati, nonché a valutare l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa. Oggi è altrettanto importante che la Corte accerti il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio, come prescritto dall’art.81 della Costituzione[10].
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Il controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria
È il controllo che la Corte dei conti effettua nei confronti degli enti collettivi in cui lo Stato detiene una partecipazione di maggioranza o totalitaria. Anche in questo caso, la “ratio” è la medesima di quella sopra descritta per il controllo del bilancio.
I controlli dopo la riforma del Titolo V
Con la riforma del Titolo V[11] della Costituzione, il Legislatore ha ampliato le funzioni della Corte dei conti rispetto alle Regioni ed agli Enti locali. I compiti principali possono essere riassunti in due settori:
- l’accertamento del funzionamento dei controlli interni[12] e
- la verifica della regolarità della gestione finanziaria e degli atti di programmazione.
È singolare la forma di controllo collaborativo che prevede l’art. 7 co. 8 della l. 131/2003 che stabilisce che “Le Regioni possono richiedere ulteriori forme di collaborazione alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti ai fini di della regolare gestione finanziaria e dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrative, nonché pareri in materia di contabilità pubblica. Analoghe richieste possono essere formulate, di norma tramite il Consiglio delle autonomie locali, se istituito, anche da Comuni, Province e Città metropolitane”.
Si tratta, come si comprende dal tenore letterale della norma, di una forma di controllo colloquiale che viene chiesto dall’ente interessato. Proprio questa atipicità delinea la natura singolare della Corte dei conti che si raffigura come un controllore collaborativo che ha come precipuo scopo quello di aiutare il controllato e non quello di sanzionarlo.
Conclusioni sulle funzioni della Corte dei conti
La breve analisi mette in risalto che la Corte dei conti è la “la suprema magistratura di controllo”[13], che è caratterizzata dalla funzione giurisdizionale e da quella di controllo. Come si è visto il Legislatore ha costituito un organo indipendente dall’amministrazione, ma allo stesso tempo capace di collaborare. Quest’ultima particolarità è stata messa in rilievo con la riforma del Titolo V, che ha rafforzato l’incidenza delle sezioni regionali della Corte dei Conti.
Informazioni
AA.VV. Contabilità di Stato e degli enti pubblici, ottava edizione, G.Giappichelli Editore, 2018
A.Bennati, Manuale di contabilità di Stato, Jovene editore, Napoli, 1987
Centro studi della Camera dei Deputati, Controlli interni ed esterni sulle regioni e sugli enti locali, 2016
[1] Ex art. 2 del Codice di giustizia contabile
[2] Ex art. 3 del Codice di giustizia contabile
[3] Ex art. 4 del Codice di giustizia contabile
[4] Ex art.51 co. 1 del Codice di giustizia contabile
[5] Ex art.111 co.8 Cost.
[6] C.E.Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in AA.VV. Contabilità di Stato e degli enti pubblici, ottava edizione, G.Giappichelli Editore, 2018
[7] C.E.Gallo, op.cit.
[8] C.E.Gallo, op. cit.
[9] G.Ladu, Il sistema dei controlli, in AA.VV. Contabilità di Stato e degli enti pubblici, ottava edizione, G.Giappichelli Editore, 2018
[10] Per l’attuazione dell’equilibrio di bilancio si veda la legge del 24 dicembre del 2012, n°243
[11] Sulla riforma del Titolo V, si veda A.Federico, L’articolo 117 della costituzione tra sussidiarietà e adattamento,DirittoConsenso, 4 novembre 2020
[12] Ricordiamo che per controlli interni intendiamo: il controllo strategico; il controllo di gestione; il controllo di regolarità amministrativa e contabile; la valutazione della dirigenza
[13] A.Bennati, Manuale di contabilità di Stato, Jovene editore, Napoli, 1987
Il delitto di lesioni: una questione ancora aperta
Le lesioni gravi e gravissime, due reati o semplici aggravanti? Cerchiamo di esaminare le soluzioni proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza
Premessa generale
Il delitto di lesione personale è normato ex art. 582 c.p.. Si trova all’interno del titolo XII del secondo libro del codice penale, ove sono tipizzati i delitti contro la persona. In particolare, le lesioni sono una fattispecie che tutela i beni giuridici, costituzionalmente protetti, della salute e della integrità fisica.
I caratteri generali dell’art. 582 sono i seguenti:
- Si tratta di un reato comune poiché il Legislatore prevede che “chiunque” possa compierlo.
- L’elemento soggettivo è il dolo generico[1] perché per perfezionale il delitto è sufficiente che l’agente abbia l’intenzione di cagionare l’evento dannoso tipizzato.
- Come appena detto, si tratta di un reato di evento poiché per configurarsi il delitto è necessario che dalla condotta derivi “una malattia del corpo o nella mente”.
La dottrina e la giurisprudenza dibattono sull’interpretazione del concetto di “malattia”. Possiamo rintracciare, infatti, due indirizzi ermeneutici:
- il primo considera perfezionato il delitto di lesione allorquando la vittima riporta una “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo”[2];
- mentre il secondo ritiene che il delitto di lesione si perfezioni quando la vittima riporti “un’apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo”[3]. Attualmente prevale quest’ultimo orientamento che si uniforma alla nozione “medico-legale” di malattia.
Lesioni gravi e gravissime
Il Legislatore affianco al delitto di lesione regola all’art. 583 c.p. le lesioni gravi e gravissime. Per comprendere le peculiarità delle due tipizzazioni procediamo all’analisi dell’articolo.
La lesione è grave:
- “se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni”. La prima ipotesi classifica la lesione grave quando la condotta è causa di una malattia o di una incapacità per un tempo superiore ai quaranta giorni. È necessario specificare che il Legislatore si riferisce non solo alla riduzione della capacità lavorativa, ma a qualsiasi diminuzione delle capacità di compiere attività lecite.
- “se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo”. Per capire questa seconda ipotesi è necessario interpretare il significato di “indebolimento”, che è inteso come una apprezzabile menomazione della funzionalità del senso o dell’organo danneggiato. Un esempio può essere la perdita del senso della vista ad un occhio.
Passiamo ora all’analisi del secondo comma dell’art. 583, ove sono regolate le conseguenze a seguito delle quali è configurabile l’ipotesi di lesione gravissima.
Se dal fatto deriva:
- “una malattia certamente o probabilmente insanabile”. Nel primo caso si tipizza la lesione gravissima quando l’evento dannoso è una malattia dalla quale vi è una alta probabilità di non guarire oppure è esclusa la guarigione.
- “la perdita di un senso”. In questa seconda ipotesi, a differenza di quella menzionata prima per le lesioni gravi, il Legislatore configura la lesione gravissima quando la vittima è privata completamente uno dei cinque sensi. Si pensi ad esempio alla perdita totale dell’udito.
- “la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella”. Nella terza ipotesi si fa riferimento alla perdita irreversibile della capacità di usare un arto, della funzionalità di un organo, della capacità riproduttiva e dell’uso della parola.
Rimane ancora discusso sia in dottrina sia in giurisprudenza se la perdita volontaria della capacità procreativa possa configurare il delitto di lesioni. Vi sono due indirizzi: il primo, legato maggiormente ad una cultura conservatrice, ritiene che il reato si perfezioni; invece il secondo, che si basa su una ampia concezione di libero arbitrio, non ammette la configurazione del reato. Quest’ultima linea interpretativa è la più recente e si conforma all’evoluzione culturale successiva alla emanazione del codice penale.
Due delitti o mere circostanze?
Questo è uno dei punti controversi dell’analisi del delitto di lesioni. Non si tratta di una semplice distinzione del nome, ma la scelta di una o dell’altra impostazione ha delle conseguenze sistematiche. Passiamo quindi ad analizzare le due linee interpretative per comprenderne appieno le ripercussioni.
Il primo indirizzo è quello menzionato nella “Relazione ministeriale sulla sul progetto del codice penale”, ove le lesioni gravi e gravissime sono considerate quali aggravanti del delitto di lesioni personali. In particolare tale tesi è sostenuta dal contesto letterale del codice poiché il Legislatore titola l’art.583 c.p. con il nome di “circostanze aggravanti”. Inoltre nel predetto articolo vi sono svariati riferimenti al delitto di lesioni personali.
Il secondo indirizzo, sostenuto dalla dottrina più recente[4], asserisce che le lesioni gravi e gravissime sono fattispecie autonome rispetto alla lesione personale. Il primo argomento a favore della tesi è che alcuni eventi dannosi menzionati nell’art.583 c.p., come ad esempio “l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni”, sono delle nuove tipizzazioni e non delle specificazioni, come ci si aspetterebbe per delle circostanze aggravanti. In aggiunta l’art.585 c.p. è titolato anch’esso come “circostanze aggravanti”, pertanto sarebbe problematica l’ammissione del concetto di “aggravante dell’aggravante”.
Nell’ipotesi in cui si accogliesse questa linea è necessario rimodulare l’elemento soggettivo del reato. Se le lesioni gravi o gravissime sono una fattispecie autonoma è necessario, infatti, che l’agente si prefiguri uno degli eventi dannosi normato all’art.583 c.p e non la generica “malattia nel corpo o nella mente” prevista “ex” art. 582 c.p.
Conclusioni
Il quadro sopra esposto tenta di far comprendere che sia la dottrina sia la giurisprudenza non hanno ancora trovato una soluzione unanime sul rapporto fra le lesioni personali, le lesioni gravi e quelle gravissime. Rimane assodato, in ogni caso, che entrambe le tesi hanno argomenti “forti” ed altri “critici”, pertanto è l’interprete che deve scegliere l’indirizzo da prendere e valutare le scelte sistematiche conseguenti.
Informazioni
F. Antolisei, Manuale di diritto penale-Parte speciale I, VIII edizione, Giuffré editore,1982
G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale parte speciale, Vol. II, tomo primo, i delitti contro la persona, Zanichelli Editore, 2013
F. Mantovani, DIRITTO PENALE. Parte generale, X edizione, CEDAM, 2017
[1] Sul concetto di dolo generico: L.Lotti, Il reato di rissa: un reato plurisoggettivo , Dirittoconsenso.it, 27 ottobre 2020
[2] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale parte speciale, Vol. II, tomo primo, i delitti contro la persona, Zanichelli Editore, 2013
[3] G. Fiandaca – E. Musco, op.cit.
[4] Fra gli studiosi sostenitori della tesi ricordiamo Francesco Antolisei