Prove digitali

Le prove legali

Il giudice non può valutare il contenuto delle prove legali, ma la loro efficacia è predeterminata dalla legge

 

L’articolo 116 c.p.c. e il principio del prudente apprezzamento del giudice

Le prove legali sono quelle prove la cui efficacia è predeterminata dalla legge e di fronte alle quali al giudice è impedita ogni valutazione sul contenuto della stessa, dovendosi semplicemente attenere alle risultanze della prova offerta, così come legalmente stabilito.

L’articolo 116 del Codice di procedura civile[1] contiene il principio del libero convincimento del giudice, rimettendo la valutazione delle prove, al suo “prudente apprezzamento”.

Questo principio non si applica alle prove legali in quanto il Codice civile prevede esplicitamente che esse non possano e non debbano essere oggetto della valutazione del giudice, il quale ne può esclusivamente prendere atto senza rilievo di ogni dubbio.

 

L’acquisizione delle prove nel procedimento civile

In base all’art. 2697 c.c. spetta all’attore provare i fatti costitutivi del proprio diritto, mentre il convenuto deve dimostrare gli eventuali fatti modificativi, impeditivi o estintivi dello stesso.

L’art. 2697 del Codice civile recita:

Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”

 

In base al principio di acquisizione della prova, il giudice è libero di porre a fondamento della propria decisione qualsiasi prova, a prescindere dalla parte che ne ha proposto l’acquisizione.

I mezzi di prova devono essere acquisiti su richiesta di parte, fatta eccezione per i casi in cui la legge prevede la possibilità di acquisizione d’ufficio, cioè per iniziativa del giudice l’art. 115 del Codice di procedura civile in merito evidenzia che:

Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.

Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.”.

 

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 443 del 2002 ha sottolineato come “la norma dettata dall’art. 116, comma 2, c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre «argomenti di prova», e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze“.

 

Alcune pronunce delle Corti d’Appello e di Tribunali ordinari in materia di acquisizione della prova

Il Tribunale Perugia sez. I, nella sentenza del 21/09/2021, n.1258 sottolinea che “Nel processo civile vige il principio di non tassatività dei mezzi di prova e, al di fuori dei casi di prova legale, non esiste, una gerarchia delle prove per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo la valutazione delle prove rimessa al prudente apprezzamento del giudice”.

La Corte di appello Ancona sez. II, nella sentenza del 10/02/2022, n.167 evidenzia come “Con il primo motivo l’appellante lamenta la violazione degli art. 2697cc, 115 e 116 cpc o comunque l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie. Deduce che il giudice di primo grado ha errato nell’accertare chi ha eseguito il montaggio del camino, sia perché nella disamina delle prove ha attribuito maggior peso alle deposizioni testimoniali rispetto ai documenti in atti, sia perché ha malamente valutato gli esiti della prova orale. […] Nel quadro del principio ex art. 116 cpc, la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta tra le varie risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (cfr ex multis. Cass. civ. n. 5560/2021)”.

La Corte di appello Palermo sez. III, nella sentenza 31/07/2021, n.1294 riporta come “Nel procedimento civile, il giudice del merito, avvalendosi del potere di valutazione delle prove attribuitogli dall’art. 116 c.p.c., è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti per la decisione; egli, dunque, non è tenuto per ottemperare all’obbligo della motivazione a prendere in esame tutte le risultanze processuali e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, potendo limitarsi a indicare gli elementi sui quali fonda il proprio convincimento, e dovendosi quindi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non specificatamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata, salvo che l’omesso esame degli uni e delle altre riguardi elementi decisivi della controversia”.

 

L’acquisizione delle prove digitali e la veridicità processuale delle stesse

La tecnologia sta ampliando sempre più le prove ammissibili all’interno dei procedimenti non solo civili, oltre alle prove testimoniali, scritture private e prove orali, si trovano all’interno dei fascicoli dei procedimenti sempre più spesso video, foto o screenshots. È importante in questi casi che i contenuti multimediali abbiano un valore legale e probatorio[2], per questo motivo è stata creata l’applicazione per smartphone TrueScreen.

TrueScreen è l’applicazione per smartphone e tablet che consente di certificare con estremo valore

probatorio tutti i contenuti multimediali acquisiti con un dispositivo mobile (screenshot, foto, video, audio, GPS e registrazione dello schermo).

Utilizzando le più avanzate tecnologie, Intelligenza Artificiale ed i propri algoritmi protetti da brevetti

internazionali, Truescreen analizza i contenuti acquisiti verificandone la non alterazione rispetto al contenuto originale e molte altre caratteristiche relative all’acquisizione. Al termine dei controlli effettuati, se l’esito risulta positivo, viene prodotto e fornito all’utente un report di valore forense che potrà essere immediatamente condiviso al fine di comprovare la veridicità delle informazioni ottenute; il documento viene firmato digitalmente, marcato temporalmente (dalla società Intesa del Gruppo IBM, un ente certificatore accreditato) ed è completo di tutti i parametri tecnici utili a definire precisamente il contesto in cui si è verificata l’acquisizione, in accordo alle principali direttive internazionali in ambito di conservazione della prova digitale.

L’obiettivo di TrueScreen è di fornire a chiunque ne abbia necessità uno strumento accessibile e

tecnologicamente avanzato, divenendo di fatto un fondamentale supporto nel processo di raccolta di

materiale probatorio in diversi ambiti (civile, penale, amministrativo e stragiudiziale) a difesa dei diritti personali (cyber-bullismo, revenge porn, stalking, diffamazione online, etc..) o qualora sia necessario certificare un avvenimento che possa avere conseguenze legali o di altro genere (stato di conservazione di mobili e immobili, stato di avanzamento di lavori o progetti, contratti, incidenti automobilistici etc..).

Informazioni

Banca dati DeJure

Codice di procedura civile

Codice civile

Codice di procedura penale

Codice penale

[1] Art. 116 c.p.c. “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.

Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.”.

[2] In merito alle prove digitali si rinvia all’articolo di DirittoConsenso: Il valore legale delle prove digitali – DirittoConsenso


Trattamento sanitario obbligatorio

Il trattamento sanitario obbligatorio (TSO)

Il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) è disciplinato oggi dagli articoli 33 e 35 della l. n. 833/1978. Come funziona?

 

Le norme che disciplinano il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO)

Come ben si evince dalla lettura degli articoli 33, 34 e 35 della l. n. 833/1978[1] il trattamento sanitario obbligatorio (noto anche semplicemente con la sigla TSO) si mette in atto quando la persona che lo subisce rifiuta un trattamento sanitario volontario e sussistono le tre condizioni previste dalla legge:

  1. vi sono condizioni di necessità ed urgenza,
  2. l’intervento dei medici viene rifiutato dal soggetto e
  3. non è possibile intervenire al di fuori di un ospedale.

 

Solo in presenza delle tre condizioni può essere emessa dal sindaco l’ordinanza che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.

 

L’accertamento sanitario obbligatorio

Prima del trattamento sanitario obbligatorio solitamente si deve porre in essere l’accertamento sanitario obbligatorio, ovvero un medico deve accertare la necessità ed urgenza dell’ospedalizzazione della persona e darne notizia agli organi competenti che daranno inizio alle pratiche.

Tranne alcune eccezioni, il trattamento sanitario obbligatorio e l’accertamento sanitario obbligatorio che lo precede si pongono in essere per pazienti psichiatrici attraverso il ricovero forzato presso ospedali pubblici[2].

Nelle prime fasi dell’accertamento sanitario obbligatorio e del trattamento sanitario obbligatorio i medici devono sempre essere affiancati dalla polizia municipale e, se necessario da altre forze dell’ordine, per minimizzare la pericolosità del soggetto.

 

La disciplina del trattamento sanitario obbligatorio

L’art. 33 l. 833/1978 recita che:

Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari.

Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici […]

Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico.

[…]

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio. Sulle richieste di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati

con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato.”.

 

L’art. 34[3] l. 833/1978[4] sottolinea che il trattamento sanitario obbligatorio per malattie mentali può essere disposto quando sussistano alterazioni psichiche tali da rendere urgente e necessario l’intervento del personale sanitario e il ricovero della persona all’interno di una struttura ospedaliera.

 

La procedura

In caso di trattamento sanitario obbligatorio vi è un medico che visita il paziente, accompagnato dalla polizia municipale, e, qualora sussistano le tre condizioni di legge previste, propone il TSO, che deve essere convalidato tramite una seconda visita da parte di un altro medico.

Se anche il medico convalidante riscontra le tre condizioni previste dalla legge redige il documento di convalida della proposta di trattamento sanitario obbligatorio che sarà portato dalla polizia municipale al sindaco che emetterà l’ordinanza di TSO.

La polizia municipale resta al fianco dei medici fino all’avvenuto ricovero del paziente, i vigili devono sincerarsi che non ci siano pericoli per il ricoverato né per terzi prima di lasciare l’ospedale.

Dalla prima visita all’avvenuto ricovero la Polizia Municipale ha il compito di controllare il paziente, uno o più vigili, in base alle esigenze, accompagnano i medici durante le visite, restano con il paziente durante il tragitto in ambulanza e lo controllano fino a quando il paziente non è stato ricoverato.

L’art. 35 della l. 833/1978[5] riguarda il procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale.

L’articolo sottolinea che il sindaco deve emanare l’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio entro 48 ore dalla convalida, l’ordinanza deve riportare, inoltre, la proposta motivata e la convalida.

 

Due casi della Cassazione

La Corte di Cassazione si è più volte espressa in merito al trattamento sanitario obbligatorio, ad esempio nella sent. n. 22177 del 05/09/2919 ha dichiarato che è “Inapplicabile la disciplina della ingiusta detenzione in caso di trattamento sanitario obbligatorio illegittimo”.

Nonostante sia indubitabile che il TSO illegittimo colpisca la persona in modo simile all’ingiusta detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed effetti negativi sull’immagine, le relazioni ed il campo lavorativo, non è applicabile in via analogica in simile ipotesi la speciale disciplina dettata dagli artt. 314 e 315 c.p.p. per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in un ambito penale.

O ancora, sempre la Sez. 3 della Corte di Cassazione civile nella sent. n. 22818 del 10/11/2010[6] ha sottolineato l’importanza della sorveglianza da parte del personale sanitario, infatti, i medici hanno la responsabilità[7] di sorvegliare i pazienti sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio per ridurre al minimo la loro pericolosità nei confronti degli stessi e dei terzi che vi entrano in contatto. (articolo diritto consenso sulla responsabilità medica)

 

Considerazioni conclusive

Per concludere, quando si richiede un accertamento sanitario obbligatorio e quando questo diventa un trattamento sanitario obbligatorio, vi devono essere:

  • le valutazioni di due medici (il primo propone il trattamento a carico del paziente, il secondo medico convalida la richiesta),
  • la polizia municipale porta i documenti al sindaco,
  • questi emana l’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio entro 48 ore dalla ricezione della documentazione medica.

 

Successivamente alla emanazione dell’ordinanza da parte del sindaco il paziente viene ricoverato in un ospedale e vi rimane per 7 giorni. Nel caso in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba durare più di 7 giorni devono essere avvisate le autorità competenti e il sindaco provvederà con un nuovo atto a prorogare il ricovero.

Nel caso in cui, invece, chiunque ne abbia interesse volesse fare ricorso avverso l’ordinanza di TSO questo può essere presentato presso il tribunale territorialmente competente.

Fin dalle prime visite la polizia municipale deve affiancare i medici per neutralizzare la pericolosità del paziente, successivamente al ricovero in ospedale è responsabilità dei medici controllare il paziente e controllare la sua pericolosità verso sé stesso e verso terzi.

Informazioni

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978-12-23;833!vig=

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1978/12/28/078U0833/sg

Corte di Cassazione sent. n. 22177 del 05/09/2919

Sez. 3 della Corte di Cassazione civile nella sent. n. 22818 del 10/11/2010

Banca dati DeJure, Giuffrè editore

http://www.dirittoconsenso.it/2019/03/19/la-responsabilita-medica/

[1] https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1978-12-23;833!vig=

[2] https://www.ccdu.org/tso/trattamento-sanitario-obbligatorio

[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1978/12/28/078U0833/sg

[4] Art. 34 L. 833/1978: Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori per malattia mentale

La legge regionale, nell’ambito della unità sanitaria locale e nel complesso dei servizi generali per la tutela della salute, disciplina l’istituzione di servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale.

Le misure di cui al secondo comma dell’articolo precedente possono essere disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale.

Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extraospedalieri di cui al primo comma.

Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell’articolo 33 da parte di un medico della unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel presente comma.

Nei casi di cui al precedente comma il ricovero deve essere attuato presso gli ospedali generali, in specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno delle strutture dipartimentali per la salute mentale comprendenti anche i presidi e i servizi extra ospedalieri, al fine di garantire la continuità terapeutica. I servizi ospedalieri di cui al presente comma sono dotati di posti letto nel numero fissato dal piano sanitario regionale.

[5] Art. 35 l.833/1978: Il provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro 48 ore dalla convalida di cui all’articolo 34, quarto comma, corredato dalla proposta medica motivata di cui all’articolo 33, terzo comma, e dalla suddetta convalida deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.

Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne da’ comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

[…]

Chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare.

Entro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo comma del presente articolo, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.

[6] Banca dati DeJure, Giuffrè editore

[7] Sulla responsabilità medica si rimanda all’articolo http://www.dirittoconsenso.it/2019/03/19/la-responsabilita-medica/


Educazione per prevenire i reati

L'importanza dell'educazione per prevenire i reati

Già nei ‘Dei delitti e delle pene’ di Cesare Beccaria viene sottolineata l’importanza dell’educazione per prevenire i reati

 

Perché è fondamentale l’educazione per prevenire i reati

Cesare Beccaria sottolinea come il modo più sicuro, ma più difficile, di prevenire la commissione di reati è perfezionare l’educazione[1] distogliendo i consociati dal commettere azioni scorrette, educandoli all’ordine sociale e al rispetto delle regole e delle leggi. L’autore crede che vi sono due tipi di educazione necessaria: quella della famiglia e quella della scuola.

L’educazione primaria e sicuramente più importante è quella che si impara e si interiorizza in famiglia: il bambino impara prima di tutto tra le mura di casa e poi a scuola. È fondamentale per i bambini avere regole ben precise e sapere che la violazione di quelle regole porterà a conseguenze o punizioni: solo così sapranno come si devono comportare.

 

Educazione e punizione

Bisogna tenere bene a mente che sia l’educazione che la punizione sono utili quando generano nel minore un cambiamento e un miglioramento.

Ma allora perché qualche minore delinque o agisce in maniera scorretta e qualche altro no?
Ci possono essere diversi motivi sottesi ad un’azione sbagliata perpetrata da un minore, prima tra tutti la mancanza di considerazione, quando si sente abbandonato a se stesso. La maniera più semplice per richiamare l’attenzione è commettere un’azione eclatante. Come ben sottolinea il libro “Punire perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici” se il bambino può scegliere tra un abbraccio e uno schiaffo, sicuramente sceglierà l’abbraccio e quindi agirà nel modo corretto per sentirsi bene, per sentirsi elogiato dalla famiglia. Se invece il bambino può scegliere solo tra uno schiaffo e l’indifferenza dei genitori, sicuramente sceglierà lo schiaffo per sentirsi parte di qualcosa e per non sentirsi ignorato.

In altre parole, ci sono dei minori che fanno di tutto per essere puniti pur di essere presi in considerazione poiché l’indifferenza non educa.

Non è detto che se un minore delinque allora sarà delinquente a vita, ci possono essere malesseri interiori provenienti dal nucleo familiare che lo spingono a commettere dei reati. Non sempre, infatti, i minori sono recidivi, anzi, nella maggior parte dei casi[2] le azioni che infrangono la legge sono commesse solo per sentirsi parte di un qualcosa, da cui si sentono emarginati.

Parlando di minori, quindi di soggetti che cambiano giornalmente e apprendono tutto quello che possono dall’ambiente circostante, qual è la differenza tra educare e punire? O meglio, dove sta il confine se c’è? Sia la punizione che l’educazione devono mirare al cambiamento in meglio del minore, ma quando questo cambiamento non è possibile l’educazione lascia spazio alla punizione, che assume una valenza educativa quando consente l’apprendimento di regole comportamentali. È proprio in questa differenza che si percepisce l’importanza dell’educazione per prevenire i reati. Spesso gli adolescenti che delinquono rispettano regole che sono state date loro, dalla sottocultura, dall’ambiente in cui sono cresciuti sia in famiglia sia tra amici. Se i genitori invitano il figlio a spacciare, questi rispetterà le regole date solo spacciando, ma il rispetto delle regole che gli sono state date non farà di lui un soggetto che rispetta la legge e, per questo, potrà essere punito in sede di procedimento penale.

 

L’educazione in famiglia e a scuola

Un bambino «apprende le regole essenzialmente dai modelli e dall’insegnamento dei genitori e delle altre figure educanti con cui viene a contatto; e, per lo più, interiorizza le regole tramite la testimonianza ricevuta»[3].

È difficile capire quale sia il modo più corretto di educare, ma soprattutto capire il perché e il quando punire un bambino.

Ci sono famiglie che non stabiliscono regole, che lasciano i figli liberi di fare le loro esperienze e di sbagliare e solo dopo che il figlio ha commesso un errore spiegano perché è sbagliato e come avrebbe dovuto agire. Dall’altra parte, ci sono anche famiglie molto (a volte troppo) rigide che creano l’effetto opposto: crescono i figli punendoli per ogni singolo errore, danno troppe regole e non raggiungono comunque l’effetto desiderato.

Ma la famiglia non è l’unico soggetto che ha il dovere di educare il bambino. Chiunque esercita una posizione di autorità, che siano i genitori, la scuola o lo Stato, deve assumere le proprie responsabilità educative attraverso le modalità e i meccanismi tipici del ruolo, anche punendo quando è necessario.

Come può la scuola educare se i genitori non riescono a dare regole serie e a farle rispettare? Uno dei provvedimenti disciplinari che la scuola può adottare per allontanare gli adolescenti che non rispettano le regole comportamentali è la sospensione dalle lezioni. Ma chi può sapere che sia questo il provvedimento più adatto per gli adolescenti che non rispettano le regole? Spesso chi viene punito con la sospensione dalle lezioni è proprio chi ha più bisogno di stare tra le mura scolastiche per non essere lasciato libero di frequentare brutte compagnie fuori dalla scuola. Anche i voti bassi alcune volte sono utilizzati come metodo per punire chi si comporta male, ma non sempre prendere un voto basso insegna al minore l’utilità della scuola e dello studiare.

Si potrebbe pensare, in sostituzione al voto basso, a dare una seconda possibilità all’alunno.

Concedendo una seconda possibilità, all’alunno, l’insegnante fa comprendere che l’impegno viene ripagato. La nota negativa del non essersi fatto trovare pronto la prima volta viene superata con la concessione di una seconda possibilità, che può essere accomunata ad una specie di messa alla prova[4] svolta all’interno del procedimento minorile[5]. Allo stesso modo una seconda possibilità per studiare e farsi trovare pronti e preparati per l’interrogazione potrebbe far cancellare il voto negativo con cui l’insegnante pensava di punire nel modo corretto il proprio alunno impreparato. In questo caso la seconda possibilità potrebbe essere ben vista dall’alunno, il quale si potrà rendere conto della fiducia che l’insegnante ripone nelle sue capacità. Così facendo l’insegnante raggiunge lo scopo educativo proprio della scuola.

 

L’importanza della giusta punizione per far comprendere l’errore commesso.  La punizione in famiglia e a scuola

Il minore a casa, a scuola, così come nel procedimento penale, deve essere messo nella condizione di imparare dai propri errori e capire che ciò che ha fatto è sbagliato e che può agire in maniera diversa per non incorrere in una punizione futura.

Il minore deve essere posto di fronte ad un’alternativa chiara: azione sbagliata e punizione o azione corretta senza essere punito.

I minori che non hanno delle regole severe a casa apprendono attraverso il contesto scolastico, a riconoscere se un comportamento è adeguato o meno al contesto in cui si trovano e in cui agiscono.

Se la famiglia è il primo ambiente in cui si stabiliscono le regole è anche il primo ambiente in cui un bambino viene punito. La punizione in famiglia spesso è utilizzata per confermare le regole che sono state violate tramite un determinato comportamento. Quando i figli eccedono i limiti, violando le regole imposte dai genitori, questi le ristabiliscono subito sanzionando il comportamento errato e punendo il bambino che ha sbagliato.

Il minore impara fin da subito che la punizione è la diretta conseguenza dell’aver infranto una regola.
La scuola, quando decide di punire un alunno, deve fare attenzione al suo ambiente familiare, alle sue condizioni di vita, per far sì che la punizione abbia un fine educativo, per poter raggiungere un cambiamento che arrivi ad essere un miglioramento della personalità del minore.

«L’intervento disciplinare a scuola deve essere un atto autenticamente educativo e va programmato ed attuato con estrema responsabilità e commisurato sempre alla personalità dell’alunno e ai suoi bisogni formativi»[6].

Il compito educativo della scuola è fondamentale in quanto il minore impara come ci si comporta e come ci si rapporta con più soggetti. La scuola è il primo approccio dei bambini con un gruppo di persone diversi dai familiari. Qui si vive in un contesto che può essere considerato come una piccola rappresentazione della società. I minori dietro i banchi di scuola dovrebbero imparare a rispettare gli altri senza voler prevalere e senza commettere azioni che siano vantaggiose solo per chi le commette, provocando un danno a tutti gli altri. Così i minori possono capire che se commettono un’azione che viola la legge provocheranno un danno non solo al soggetto contro cui era rivolta l’azione, ma all’intera “società” che li punirà per ciò che hanno commesso.

 

La teoria dell’adattamento sociale di Albert Bandura

Sottolinea l’importanza dell’educazione fin dai primi anni di vita, Albert Bandura, uno psicologo canadese, che ha raggiunto la notorietà grazie alla teoria dell’adattamento sociale[7] basata su un esperimento chiamato “Bambola Bobo”.

Nell’esperimento erano coinvolti bambini di un’età compresa tra i 3 e i 6 anni, sia maschi che femmine, e l’esperimento si svolgeva in più fasi.

I bambini erano in una stanza con un adulto e dei giocattoli, tra cui la bambola Bobo e una mazza. In alcuni casi l’adulto gioca ignorando la bambola, in altri inizia a prendere a bastonate la bambola quasi subito. Nei casi di violenza contro la bambola l’adulto a volte viene ripreso, altre volte premiato oppure lasciato senza conseguenze. Facendo restare soli i bambini nella stanza con la bambola si notano le prime differenze.

Chi aveva assistito all’aggressione da parte dell’adulto manifesta un gioco di tipo aggressivo e sfoga la sua rabbia sulla bambola. Si nota che i bambini che hanno assistito all’aggressione dell’adulto reagiscono con un’aggressività molto maggiore nei confronti della bambola rispetto ai bambini che non avevano assistito ai comportamenti aggressivi dell’adulto.

Da ultimo si è notato come nei maschi il comportamento aggressivo sia stato di molto maggiore rispetto a quello delle femmine.

Albert Bandura ha sottolineato come i bambini spesso imitano ciò che li circonda e questa è la dimostrazione della teoria dell’apprendimento sociale. Questa teoria sottolinea ancora di più l’importanza dell’educazione per prevenire i reati dei minori fin dalla tenera età. I bambini quasi sempre copiano i comportamenti che apprendono da chi gli sta intorno e le prime esperienze sono quelle che si vivono a casa e a scuola. Per questo motivo bisogna educare i bambini al rispetto delle regole fin da subito, per prevenire che gli stessi imparino comportamenti sbagliati ritenendoli corretti.

 

Considerazioni conclusive sull’educazione per prevenire i reati

In conclusione, Cesare Beccaria, ne ‘Dei Delitti e delle Pene’, per primo ha sottolineato come sia di fondamentale importanza l’educazione per prevenire i reati e come “ogni cittadino deve sapere quando sia reo e quando sia innocente[8] allo stesso modo i minori fin da piccoli devono imparare che ad ogni azione sbagliata segue una punizione.

Si è visto come l’educazione data a casa e a scuola sia la base del comportamento di tutti i cittadini. Se un soggetto sceglie di delinquere solitamente l’ambiente in cui è cresciuto è un ambiente con poche regole o con l’indifferenza a totale dei genitori; si potrebbe però trattare anche di una famiglia con troppe regole, da cui il bambino o l’adolescente vuole scappare perché si sente oppresso dalla situazione. O ancora, il minore potrebbe essere cresciuto in una situazione svantaggiata a casa, da cui vuole riscattarsi commettendo crimini per arricchirsi facilmente e velocemente. Essendo molteplici le cause che possono spingere un soggetto, e soprattutto un minore, a delinquere il compito del procedimento penale dovrebbe essere quello di indagare cosa abbia portato il soggetto a commettere un reato per capire quale sia la pena più giusta per far sì che l’imputato capisca dove ha sbagliato e che può cambiare e migliorare per il suo bene e per il bene di tutta la società.

Informazioni

M. CAVALLO, Punire perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici, FrancoAngeli, 1993;

http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/14/sospensione-processo-messa-alla-prova/ ;

C. BECCARIA, Dei Delitti e delle Pene, Feltrinelli, 2000;

A. BANDURA, Social Learning Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ. 1977.

[1] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, 2000

[2] M. CAVALLO, Punire perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici, FrancoAngeli

[3] M. CAVALLO, Punire perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici, FrancoAngeli, 1993, p.10.

[4] Per un approfondimento sull’istituto della messa alla prova si rimanda all’articolo di Giulia Pugliese: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/14/sospensione-processo-messa-alla-prova/

[5] In estrema sintesi, con la messa alla prova si interrompe il procedimento e, in caso di esito positivo, il reato si estingue

[6] M. CAVALLO, Punire è educare…?, Punire perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici, Franco Angeli, 1993 p.199.

[7] A. BANDURA, Social Learning Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1977

[8] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, 2000 p. 53


Ordinamento penitenziario minorile

L'ordinamento penitenziario minorile

Il legislatore con il decreto legislativo n. 121 del 2018 è intervenuto specificamente sull’ordinamento penitenziario minorile conformandone le disposizioni al dettato costituzionale

 

L’ordinamento penitenziario minorile, il d. lgs. 121 del 2018

L’art. 79 ordinamento penitenziario, Legge 26 luglio 1975 n.354, sottolineava che, in attesa di una normativa e di un ordinamento penitenziario ad hoc per gli imputati minorenni, agli stessi si dovevano applicare le norme previste per gli adulti. La Corte Costituzionale si è trovata più volte a dichiarare l’illegittimità di norme che equiparavano i minori agli adulti senza disciplinare per gli imputati più deboli un trattamento diverso. La mancanza di norme specifiche costituiva una grave lacuna legislativa e l’equiparazione dei minori agli adulti era assolutamente inadeguata. Il legislatore, con il decreto legislativo n. 121 del 2018, è intervenuto specificamente sull’ordinamento penitenziario minorile colmando così le lacune create dalle sentenze della Corte Costituzionale, cercando di conformare le disposizioni al dettato costituzionale.

«Tutte le misure limitative della libertà a carico dei minori (misure cautelari, misure alternative, sanzioni sostitutive, pene detentive e misure di sicurezza) si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo anno di età, ma non ancora il venticinquesimo, ovvero quando l’esecuzione abbia inizio dopo il compimento del diciottesimo anno di età, e sempre che, per quanti abbiano già compiuto il ventunesimo anno di età, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente»[1].

 

Il principio di specialità delle norme applicabili agli imputati minorenni

L’art. 1 comma 1[2] del d. lgs. n.121 del 2018[3] enuncia il principio di specialità del medesimo decreto e la sussidiarietà delle norme contenute nel codice di procedura penale, nella legge dell’ordinamento penitenziario e le norme del DPR 448/1988 per le materie non disciplinate dal decreto.

Nella sentenza n. 323 del 21 luglio 2000[4] la Corte Costituzionale si è espressa evidenziando l’importanza di applicare al minorenne la pena che sia per lui più favorevole anche quando nel caso concreto si debba utilizzare una norma sussidiaria e non una norma specifica «non si può omettere di considerare, in primo luogo, che il legislatore ha inteso stabilire, nei riguardi dei minori, una disciplina della custodia cautelare più limitativa rispetto a quella dettata per gli indagati maggiorenni: in conformità al criterio del favor minoris che domina anche la materia penale, nonché alle direttive internazionali relative al diritto penale minorile, ispirate al principio per cui il ricorso alla custodia in carcere per i minori non può che rappresentare una ultima ratio cui far ricorso solo quando ciò risulti strettamente indispensabile».

 

L’importanza dell’istruzione e della crescita personale del minore detenuto

Il dettato dell’art. 18 del decreto legislativo 121/2018 evidenzia quanto il legislatore abbia voluto sottolineare l’importanza dell’istruzione e della crescita professionale dei minori che debbano scontare la pena presso un istituto penale:

«I detenuti sono ammessi a frequentare i corsi di istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale all’esterno dell’istituto, previa intesa con istituzioni, imprese, cooperative o associazioni, quando si ritiene che la frequenza esterna faciliti il percorso educativo e contribuisca alla valorizzazione delle potenzialità individuali e all’acquisizione di competenze certificate e al recupero sociale».

 

I minori, infatti, devono studiare e possono uscire, pur seguendo regole ben precise, per andare a lavorare e svolgere attività socialmente utili, così che abbiano concrete possibilità di crescere professionalmente.

La formazione scolastica e professionale, per l’ordinamento penitenziario minorile, non è importante solo perché consente di ottenere uno sconto della pena, ma soprattutto perché si deve evitare in tutti i modi che il minore possa sentirsi abbandonato una volta uscito dall’istituto. «Gli interventi sul minore devono attuarsi in maniera multidisciplinare e a mezzo di operatori a tal fine formati. La detenzione va sempre intesa quale extrema ratio, limitando l’uso della carcerazione preventiva. Inoltre prescrive una adeguata razionalizzazione della presenza delle strutture minorili sul territorio (principio di territorialità legato alla necessità di reinserimento sociale) e interpello dei famigliari in ordine al luogo di detenzione del minore medesimo. In particolare si sofferma sul trattamento inframurario: al fine di individuare sempre un programma individualizzato volto al progressivo reinserimento nella società, stabilisce che bisogna offrire al minore attività volte alla formazione scolastica e professionale, da svolgersi possibilmente fuori dal carcere, tentando di assicurare il prosieguo delle stesse anche dopo l’uscita dal circuito penale. Si prevede anche di passare almeno otto ore fuori dalla cella, di cui due all’aria aperta, con previsione di attività significative per festività e weekend»[5].

 

L’art. 24 dell’ordinamento penitenziario minorile, d. lgs. 121/2018 

Tutte le attività che il minore compie mentre sconta la pena sono importanti anche per il suo futuro una volta che sarà “libero”, finalità ben evidenziata dall’art. 24 del d. lgs. n. 121 del 2018:

«Nei sei mesi precedenti, l’ufficio di servizio sociale per i minorenni, in collaborazione con l’area trattamentale, prepara e curala dimissione:

  1. elaborando, per i condannati cui non siano state applicate misure penali di comunità, programmi educativi, di formazione professionale, di lavoro e di sostegno all’esterno;
  2. curando i contatti con i familiari di riferimento e con i servizi socio-sanitari territoriali, ai fini di quanto previsto nell’articolo 12, comma 4;
  3. rafforzando, in assenza di riferimenti familiari, i rapporti con i servizi socio-sanitari territoriali e con le organizzazioni di volontariato, per la presa in carico del soggetto;
  4. attivando sul territorio le risorse educative, di formazione, di lavoro e di sostegno, in particolare per i condannati privi di legami familiari sul territorio nazionale, ovvero la cui famiglia sia irreperibile o inadeguata, e individuando le figure educative o la comunità di riferimento proposte dai servizi sociali per i minorenni o dai servizi socio-sanitari territoriali».

 

La pena detentiva come extrema ratio

Essendo la reclusione nell’istituto penale minorile l’extrema ratio, vi accedono i minori che hanno già beneficiato di misure alternative[6] e che non sono stati reputati in grado di comprenderle e di trarne i benefici auspicati, rendendo così necessario un maggiore controllo degli operatori, i quali principalmente dovranno indagare le motivazioni per cui non sono risultate adeguate le misure alternative.

«L’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato. In via prioritaria, mediante l’esecuzione si tende a favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero»[7].

È di fondamentale importanza che anche i minori obbligati ad essere ospitati in un istituto penale entrino in contatto con persone che possano agevolare la loro crescita personale e facciano di tutto per impedire una ricaduta nel crimine. Per questo motivo i minorenni devono essere separati dai giovani adulti e chi non ha accesso a permessi premio o libere uscite non può stare a contatto con chi può uscire dall’istituto per qualche ora.

«L’art. 14 del d.lgs. n. 121 del 2018 dispone, al primo comma, che la permanenza negli istituti penali per minorenni si deve svolgere in conformità a un progetto educativo predisposto entro tre mesi basato sulla personalizzazione delle prescrizioni tenendo conto delle attitudini e delle caratteristiche della sua personalità e contrassegnato da una flessibilità esecutiva. Ma, oltre al progetto educativo, necessario perché il minore possa nel periodo di detenzione maturare da un punto di vista sociale adattandosi alle regole che verranno prescritte, è necessario che l’esperienza del minore in un istituto penale per minorenni non sia afflittiva più di quanto lo sia già in se stessa privando il minore, oltre che della sua libertà personale, degli affetti, delle sue radici»[8].

 

L’importanza della territorialità nell’ordinamento penitenziario minorile

L’art. 22 del medesimo decreto conferma, inoltre, l’importanza della territorialità dell’esecuzione penale:

«Salvo specifici motivi ostativi, anche dovuti a collegamenti con ambienti criminali, la pena deve essere eseguita in istituti prossimi alla residenza o alla abituale dimora del detenuto e delle famiglie, in modo da mantenere le relazioni personali e socio-familiari educativamente e socialmente significative». La pena, infatti, va eseguita presso istituti che siano prossimi all’indirizzo di residenza del minore e della sua famiglia per preservare le relazioni personali, sempre che queste ultime non siano negative.

La disciplina dei colloqui di cui il minore può beneficiare quando si trova all’interno di un istituto penale minorile è contenuta nell’art. 19 del d.lgs. n.121 del 2018, che ne stabilisce il numero, otto mensili, e la durata tra 60 e 90 minuti. Per i detenuti privi di validi rapporti familiari sono previsti colloqui con volontari e il supporto psicologico. Per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio è prevista la possibilità di prolungare la durata delle visite.

 

Conclusioni

Trattandosi di un imputato minorenne, secondo quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario minorile, anche la detenzione in un istituto penale deve essere volta alla rieducazione e al recupero del minore. Il ragazzo, infatti, grazie alle figure professionali che lo affiancano per tutta la durata della pena auspicabilmente comprende l’errore commesso e impara come non ripeterlo in futuro.

Informazioni

Stati Generali dell’Esecuzione penale, Esecuzione penale nel procedimento minorile, Tavolo 14

Il decreto legislativo n.121 del 2018 è integralmente consultabile al link: http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/10/d-lgs-121-2018.pdf

Sent. 323 del 21 luglio 2000, tratta da www.giurcost.org

L. KALB, prefazione a La nuova esecuzione penale minorile, Maggioli editore, 2019, p.11.

S. LARIZZA, l’esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni, Commento al d.lgs. 2 ott. 2018, n.121, Giappichelli, 2019 p. 87.

[1] Stati Generali dell’Esecuzione penale, Esecuzione penale nel procedimento minorile, Tavolo 14 p.3.

[2] Art.1 comma 1 d.lgs. 121/2018: Nel procedimento per l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità a carico di minorenni, nonché per l’applicazione di queste ultime, si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale, della legge 26 luglio 1975, n. 354, del relativo regolamento di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n.230, e del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, e relative norme di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272.

[3] Il decreto legislativo n.121 del 2018 è integralmente consultabile al link: http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/10/d-lgs-121-2018.pdf

[4] Sent. 323 del 21 luglio 2000, tratta da www.giurcost.org.

[5] Stati Generali dell’Esecuzione penale, Esecuzione penale nel procedimento minorile, Tavolo 14 p.7.

[6] Al riguardo si veda l’articolo di Giulia Pugliese dal titolo La sospensione del processo con messa alla prova, consultabile al link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/14/sospensione-processo-messa-alla-prova/

[7] L. KALB, prefazione a La nuova esecuzione penale minorile, Maggioli editore, 2019, p.11.

[8] S. LARIZZA, l’esecuzione delle pene nei confronti dei minorenni, Commento al d.lgs. 2 ott. 2018, n.121, Giappichelli, 2019 p. 87.