La forma di governo del Marocco: tra tradizione islamica e democrazia occidentale
Tra i Paesi del Maghreb, la forma di governo del Marocco mantiene la struttura tradizionale monarchia. Ma come si combina la presenza del re, con un’autorità religiosa e con una Costituzione che si richiama alle Carte Costituzionali dei Paesi occidentali?
Introduzione alla forma di governo del Marocco
Il Regno del Marocco è una monarchia semi-costituzionale, con un’assemblea legislativa eletta a suffragio universale. Secondo l’indice di democrazia dell’Economist[1], è una forma di governo che può essere definita come un “sistema ibrido”, dato che combina elementi fondamentali per il funzionamento dei sistemi democratici a tratti di impronta autoritaria, legati a strutture di potere tradizionali. Nel 2011, dopo un lungo dibattito politico, il Regno del Marocco ha adottato una nuova Costituzione, basata sul principio della separazione dei poteri e dello stato di diritto.
Le origini della monarchia
Il ceppo della famiglia reale marocchina, gli Alaouiti, trae origine dal principe Ismail Ibn Sharif, che per primo tentò l’unificazione nazionale nel 1631. La famiglia dichiara di discendere dal califfo Ali, cugino del profeta Maometto e figura centrale nell’Islam. La parentela con il Profeta è un elemento comune con altre monarchie di Paesi a maggioranza musulmana, come la dinastia hashemita del Regno di Giordania e il sovrano Idris al-Senussi, che governava la Libia prima del colpo di stato del 1969 e la salita al potere di Gheddafi. La discendenza dal fondatore dell’Islam acquista in questi contesti una funzione “legittimante” nei confronti del sovrano, che può così fregiarsi del titolo onorifico di Sayyid (“discendente del Profeta”), a cui vengono attribuiti tradizionalmente particolari meriti e un ruolo di leadership naturale della comunità islamica.
L’attuale sovrano del Marocco è Sua Maestà Mohammed VI, incoronato nel 1999. Il titolo monarchico si trasmette su base ereditaria, per linea maschile. In assenza di discendenti diretti maschi, primo sulla linea di successione è il parente di sesso maschile di grado più vicino.
Il ruolo del re
Il re rappresenta l’unità nazionale ed è garante della nazione. È a capo delle forze armate e arbitro in caso di crisi o contrasti istituzionali.
L’articolo 47 della Costituzione prevede che, sulla base del risultato elettorale, il monarca proceda a nominare il capo del governo e, su sua indicazione, i ministri. In caso di dimissioni del governo, ha il potere-dovere di sciogliere le camere e indire nuove elezioni parlamentari. Laddove la richiesta di dimissioni riguardi solo alcuni ministri e non il governo nel suo complesso, è sempre il re a vagliare la ratifica delle dimissioni. La Costituzione del 2011, inoltre, conferma la titolarità esclusiva del re del potere di dichiarare lo stato di guerra o assedio, del potere di grazia, nonché delineare gli orientamenti generali della legge finanziaria e della politica di governo. Oltre a ciò, il sovrano ha potere di rinvio dei progetti di legge approvati dal Parlamento; ma, in caso di nuova approvazione del medesimo testo di legge, ha l’obbligo di firmare e promulgare il disegno di legge.
La Costituzione attribuisce il potere legislativo al Parlamento, ma ci sono alcune categorie di leggi che devono essere discusse dal Consiglio dei Ministri, presieduto dal re: progetti di revisione costituzionale, leggi di amnistia o indulto, normative in ambito militare, leggi quadro su materie dove è prevista la riserva di legge. Si tratta, dunque, di una categoria piuttosto ampia di atti che vengono di fatto sottratti alla sfera di competenza dell’assemblea legislativa.
Nella forma di governo del Marocco, tuttavia, il re non ha un ruolo meramente di rappresentante della nazione. In quanto sayyid, il monarca ha anche il titolo di Amir Al Mouminin, “Comandante dei fedeli”, uno dei termini con cui la tradizione identifica la figura del Califfo. In quanto Amir Al Mouminin, il re vigila sul rispetto dell’Islam e della libertà di culto. Presiede il Consiglio degli Ulama (giuristi islamici), responsabile di decidere attraverso fatwa questioni inerenti all’interpretazione della sharia. La composizione e il funzionamento del Consiglio degli Ulama, inoltre, sono decisi con dahir (decreto reale). I politologi riconoscono nel coinvolgimento del sovrano nelle questioni religiose una dimensione particolare della monarchia marocchina, che la distingue sia dalla figura del sovrano saudita che dalla dinastia hascemita di Giordania, che generalmente si astengono dall’intervenire in maniera diretta in questioni di stretto interesse religioso[2].
Verso una ‘democrazia islamica’?
Nel corso degli ultimi decenni, è nato un ampio dibattito sulla compatibilità tra Islam e le democrazie di stampo occidentale. Al contrario della Tunisia e gli altri Stati del Maghreb, il Marocco ha scelto di mantenere la struttura monarchica, a cui continua ad essere riconosciuto un ruolo in ambito religioso.
L’articolo 3 della Costituzione precisa che l’Islam è religione di Stato, anche se è riconosciuta piena libertà di culto alle altre religioni. La formazione di partiti politici e la prolungazione di leggi contrari all’Islam sono vietate dalla Costituzione (Articolo 7); “offesa alla religione islamica” o “alla Monarchia” sono gli unici casi in cui viene meno l’immunità parlamentare (Articolo 64). L’apostasia, o abbandono dell’Islam, non è reato ma secondo una fatwa del Consiglio degli Ulama dovrebbe essere punita con la morte. I poteri del re, inoltre, rimangono molto ampli e non riconducibili ad un ruolo di mero garante dell’ordine costituzionale. La questione del Sahara Occidentale, contesto tra Marocco e Fronte Polisario, è ancora irrisolta e getta ombra sui rapporti del Marocco con le Nazioni Unite e la comunità internazionale[3]. Appare arduo, se non impossibile, associare la forma di governo del Marocco alle monarchie costituzionali di stampo europeo.
La scuola giuridica islamica prevalente nel Regno è la scuola malikita, presente anche in Tunisia, che attribuisce la qualifica di fonte del diritto islamico all’ ijmāʿ (consenso dei dotti), e in forma residuale, all’istiḥsān (discrezionalità del giudice). Il rilievo che viene dato a queste fonti, escluse da altre scuole giuridiche musulmane, ha permesso una maggiore duttilità ed adeguamento dei principi islamici al consenso prevalente tra i dotti nel periodo storico attuale. Il femminismo islamico, una corrente di pensiero che si propone di promuovere la parità di genere nella religione musulmana, ha avuto in Marocco un certo margine di influenza. Il Mudawwana del 2003, nuovo codice del diritto di famiglia, ha rimosso gli elementi di maggiore disparità tra i coniugi, alzando l’età legale per sposarsi a 18 anni, restringendo i casi in cui è permessa la poligamia, trasformando il ripudio unilaterale (talaq) in un procedimento giudiziale e, infine, sostituendo il diritto del marito alla fedeltà della moglie con un impegno reciproco alla fedeltà.
Nel 2011, echi delle Primavere arabe sono arrivati anche nel Regno del Marocco. I dimostranti chiedevano incisive modifiche costituzionali in senso democratico e un ridimensionamento del potere della Monarchia. A seguito delle proteste, è stata approvata la Costituzione del 2011, che ha in effetti in parte modificato lo status precedente. Il berbero e l’hassani, lingue parlate rispettivamente dalla minoranza berbera e Saharawi, sono state riconosciute come lingue ufficiali del Paese. Tra i principi fondamentali dell’ordinamento, è stata inserita la parità tra uomo e donna e il corrispondente impegno dello Stato ad eliminare qualsiasi forma di discriminazione (Articolo 19).
Mentre la riforma ha effettivamente rafforzato i poteri del Parlamento e l’autonomia della magistratura, la sfera di influenza del re è rimasta in larga parte non scalfita. Se a seguito della riforma il sovrano è formalmente tenuto a tener conto del risultato elettorale per procedere alla nomina del governo, la monarchia rimane ancora oggi l’autorità religiosa più alta del Paese e mantiene il potere di indirizzo politico generale[4].
Alcuni principi fondamentali della forma di stato democratica sono stati quindi gradualmente introdotti in Marocco, dove si sono combinati assieme ad elementi pre-esistenti dell’ordine nazionale.
Come alcuni studiosi hanno osservato, perché si crei una democrazia non sono sufficienti l’affermazione dell’uguaglianza formale dei cittadini, l’indipendenza della magistratura o la presenza o meno di regolari elezioni: è necessario creare una cultura democratica per evitare di dar vita ad una «democrazia senza democratici» destinata ab origine al fallimento[5]. In questo senso, la forma di governo del Marocco è un interessante esperimento ibrido, in graduale transizione verso una struttura politica non sovrapponibile ad una democrazia europea, ma con aspetti di apertura e che avvicinano il Paese al percorso politico della Tunisia.
Informazioni
Costituzione del Marocco (2011) in traduzione integrale in inglese: https://www.constituteproject.org/constitution/Morocco_2011.pdf (ultimo accesso in data 02.04.2021)
[1] https://www.eiu.com/public/topical_report.aspx?campaignid=democracyindex2019
[2] https://www.bakerinstitute.org/media/files/files/02d67a3e/cme-pub-luce-sheline-030719_hvUZDee.pdf
[3] Su DirittoConsenso ne abbiamo parlato qui http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/29/sahara-occidentale-dispute-territoriali-e-popolo/
[4] https://carnegieendowment.org/2011/06/20/new-moroccan-constitution-real-change-or-more-of-same-pub-44731
[5] R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Edizioni Laterza, 2004, p. 133ss.
Decreto Lamorgese e protezione internazionale: verso una nuova fase dell'accoglienza in Italia?
Il decreto Lamorgese ha modificato le previsioni più controverse del decreto sicurezza. Un’analisi dei profili di innovazione e di criticità della nuova disciplina
Approvato il decreto Lamorgese
Il 21 ottobre il governo ha approvato il decreto legge 130/2020, noto come “decreto Lamorgese”, contenente “disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare” per modificare la disciplina in tema di immigrazione introdotta dal decreto sicurezza[1].
Anche se il testo deve ancora essere convertito in legge dal Parlamento, merita un’analisi per i profili di innovazione previsti e, trattandosi di decreto legge, già in vigore.
Il sistema di accoglienza in Italia e l’impatto del Decreto sicurezza
La rete dei centri di accoglienza italiani è un sistema complesso e multilivello.
I centri di prima accoglienza, chiamati anche “hotspot”, sono strutture concepite come aree di breve permanenza per rispondere alle esigenze di prima necessità, quali l’identificazione e pronto soccorso dei richiedenti protezione internazionale. La rete di accoglienza di secondo livello, invece, è il sistema coordinato dal Ministero dell’Interno per fornire alloggio e servizi di assistenza sanitaria, psicologica e sociale ai richiedenti asilo e beneficiari di protezione internazionale che non godano di altri mezzi di sussistenza.
All’interno delle strutture di seconda accoglienza si deve ulteriormente distinguere tra i CAS (Centri per l’Accoglienza Straordinaria) e la rete SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), gestita dagli enti locali sotto la direzione del Ministero dell’Interno e che prevede l’accesso a servizi di integrazione e inclusione sociale (programmi per l’autonomia abitativa, formazione professionale e orientamento al lavoro).
Il d.l. 113/2018, meglio noto come Decreto sicurezza, aveva fortemente ridimensionato la possibilità per i cittadini stranieri di accedere al sistema di accoglienza.
Tale obiettivo veniva raggiunto, in primo luogo, eliminando la possibilità per i richiedenti asilo di essere inseriti nella rete SIPROIMI e, di conseguenza, accedere ai servizi di integrazione e inclusione sociale previsti esclusivamente in tali strutture.
In seconda analisi, la normativa prevedeva l’eliminazione della cd protezione umanitaria, una figura “residuale” di protezione che poteva essere attribuita dalla Commissione territoriale competente solo nel caso in cui non si ravvisassero i presupposti per asilo politico o protezione sussidiaria ma si ritenesse comunque necessaria l’emissione di un permesso di soggiorno per “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (legge 40/1988, art. 5). Si tratta, in altri termini, di tutti i casi in cui veniva riconosciuto il principio del non-refoulement, il divieto di respingimento dello straniero verso uno Stato dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti – a prescindere dal conferimento o meno dello status di rifugiato.
Eliminando la protezione umanitaria, il “decreto Salvini” ha ridotto la possibilità di concessione della protezione internazionale ai soli casi di asilo politico e protezione sussidiaria.
La decisione della Corte Costituzionale
La Corte costituzionale, invero, aveva già lasciato intravedere la necessità di rivedere alcune delle previsioni del decreto sicurezza. Con la sentenza 186 del 9 luglio 2020, infatti, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una delle limitazioni più irragionevoli del decreto Salvini, il divieto d’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo.
Tale divieto, giustificato dalla transitorietà della richiesta d’asilo, è stato ritenuto dalla Corte in contrasto con le stesse finalità di controllo e ‘sicurezza’ previste dal dettato normativo, costituendo una disparità di trattamento che impedisce ai richiedenti asilo l’accesso ai benefici a livello amministrativo che l’iscrizione anagrafica comporta (quali la possibilità dell’emissione di carta d’identità), senza che tuttavia tale pregiudizio appaia ragionevole:
“Escludendo dalla registrazione anagrafica persone che invece risiedono sul territorio comunale, la norma censurata accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo.”[2].
Il decreto Lamorgese prende atto di tale censura d’illegittimità costituzionale, prevedendo in via esplicita la possibilità di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e la possibilità per i Comuni di rilasciare a tali individui carta d’identità della durata di 3 anni e non valida per l’espatrio.
La protezione speciale
Il nodo centrale del decreto Lamorgese è il ritorno di una terza misura di protezione, denominata protezione speciale. La normativa prevede l’estensione del principio di non-refoulement al caso in cui non solo il soggetto rischi di subire tortura o trattamenti inumani nel luogo di espulsione, ma anche al caso in cui possa subire violazioni del diritto alla vita privata e familiare in tale Paese non giustificate da ragioni di sicurezza pubblica (ai sensi dell’art 8 CEDU).
Nei casi in cui la Commissione territoriale per il riconoscimento del diritto d’asilo ritenga sussistere l’obbligo di non-refoulement ma non siano presenti i requisiti per l’attribuzione di asilo politico o protezione sussidiaria, trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale. Per tale pronuncia la Commissione dovrà tenere conto del caso specifico e di fattori quali i legami familiari del soggetto, il suo effettivo inserimento sociale e la durata della permanenza in Italia.
Il nuovo permesso di soggiorno, della durata di 2 anni, è convertibile nel permesso di soggiorno per motivi di lavoro e permette l’ingresso alle strutture per l’accoglienza che assumono il nuovo termine di SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), distinto anche qui in due livelli differenti a seconda dei servizi previsti. Ai richiedenti asilo viene estesa la possibilità di accedere alle strutture SAI, nei limiti dei posti disponibili, ma solo alle strutture SAI in cui non sono previsti i servizi di integrazione e inclusione sociale già menzionati, e quindi i servizi che permettono ai beneficiari del programma di accedere a sussidi per l’autonomia abitativa oppure percorsi di formazione professionale. In questo caso, la disparità di trattamento tra il richiedente asilo e il titolare di protezione internazionale rimane inalterata.
Un’apertura verso i migranti ambientali?
Uno dei profili di maggior interesse della nuova normativa riguarda una possibile apertura alla categoria dei cd migranti ambientali, individui spinti alla migrazione forzata a seguito di gravi e intollerabili modifiche alle condizioni ambientali del proprio luogo d’origine quali gli effetti del cambiamento climatico. A tale categoria di individui non è tendenzialmente riconosciuto il diritto a misure di protezione.
Il presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno per calamità naturale, infatti, è lo stato di calamità “eccezionale e contingente” nel Paese d’origine e dunque un fenomeno grave ma transitorio quale, ad esempio, un grave terremoto.
Sostituendo il requisito della eccezionalità e della contingenza con la semplice “gravità” della situazione nel proprio Paese d’origine, il decreto Lamorgese allarga lo spettro delle situazioni riconducibili allo stato di calamità naturale, potenzialmente estendendo l’ambito di applicazione di tale protezione anche al caso dei migranti climatici qualora le modifiche all’ecosistema del Paese d’origine possano essere ritenute “gravi”[3].
Conclusioni sul decreto Lamorgese
Il decreto Lamorgese, modificando le disposizioni più rigide, comporta di fatto un (parziale) ritorno alla disciplina previgente, legato al mutato panorama politico ma non privo di contraddizioni. Se certamente segna l’inizio di una fase di allargamento del diritto all’accoglienza in Italia, non senza profili di grande interesse come la questione dei migranti climatici, rimangono alcuni nodi critici da affrontare.
Tra le disparità di trattamento confermate dal testo si segnala l’impossibilità di accesso del richiedente asilo alle misure di integrazione e inclusione sociale, disparità di trattamento tanto più acuta se si considera la lunghezza della tempistica per la valutazione della domanda di protezione internazionale. La domanda, infatti, deve essere valutata dalla Commissione territoriale competente e, in caso di rigetto, è prevista la possibilità di fare ricorso al Tribunale ordinario.
Ad ogni modo, la visione del “richiedente asilo” è specchio di una più generale concezione del fenomeno migratorio come situazione emergenziale e contingente. In realtà, come suggerito dalle stime dell’ONU sul numero dei rifugiati nel mondo, le trasformazioni politiche e climatiche che stanno investendo la comunità mondiale suggeriscono una visione delle migrazioni come fenomeno non contingente, ma sistematico e destinato ad aumentare sempre più negli anni a venire[4].
Informazioni
Decreto Lamorgese su Gazzetta Ufficiale: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/10/21/20G00154/sg
[1] Per un’analisi del decreto sicurezza, vedi l’articolo pubblicato su DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2018/10/31/il-decreto-salvini-su-sicurezza-e-immigrazione/
[2] https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2020:186
[3] https://www.altalex.com/documents/leggi/2020/10/23/immigrazione-e-sicurezza-il-decreto-legge-pubblicato-in-gazzetta
[4] https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/18/news/l_allarme_dell_onu_80_milioni_di_rifugiati_nel_mondo_-259500666/
Verso una legge contro l'omotransfobia?
La strada in salita del ddl Zan: una legge contro l’omotransfobia a breve?
I diritti LGBT in Italia
Una delle proposte di legge più discusse degli ultimi mesi è senza dubbio il ddl Zan, meglio nota come “legge contro l’omotransfobia”. Al momento in cui si scrive, la discussione della proposta di legge in sede di Camera dei deputati è stata ufficialmente posticipata ad ottobre[1]. Se approvato, il testo dovrà affrontare un ulteriore passaggio in Senato; difficilmente riuscirà ad entrare in vigore entro la fine dell’anno.
A partire dal 1982 la normativa italiana prevede la possibilità di ottenere la rettifica dei documenti anagrafici perché possano corrispondere alle caratteristiche sessuali ottenute a seguito di interventi chirurgici. Nel caso delle coppie omosessuali, fino all’approvazione della legge sulle unioni civili era la giurisprudenza – sulla scia dell’orientamento tracciato dalla Corte costituzionale – ad attribuire, in casi specifici, taluni trattamenti analoghi a quelli previsti per le coppie sposate (sent. 138/2010).
Con l’adozione della legge 76/2016, le coppie dello stesso sesso possono avere un riconoscimento legale della propria unione, qualificata come “formazione sociale” e a cui corrisponde un nucleo inderogabile di diritti e doveri reciproci, analogo sotto molti profili a quanto previsto dalla disciplina codicistica sul matrimonio[2]. Dal punto di vista del diritto antidiscriminatorio, in Italia è presente il decreto legislativo n. 216/2003, che recepisce una diretta europea contro la discriminazione sul posto di lavoro verso alcuni soggetti “a rischio” tra cui la comunità LGBT.
Tuttavia, manca una disciplina che abbia la finalità specifica di contrastare l’omotransfobia, l’avversione nei confronti delle persone LGBT.
Perché una legge contro l’omotransfobia?
La proposta di legge esamina condotte già previste come reato dal codice penale italiano. La legge 205/1993, meglio nota come legge Mancino ha introdotto sanzioni penali per la violenza o istigazione alla violenza nel caso in cui tali atti siano motivati da odio razziale, etnico o religioso. Viene altresì punita la costituzione e partecipazione ad associazioni aventi lo scopo di propagandare idee basate sulla supremazia razziale, etnica o religiosa.
Durante il dibattito sul disegno di legge Mancino, fu discussa a lungo la possibilità – esclusa nel testo finale – di inserire l’orientamento sessuale tra i “motivi d’odio” assieme all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, razziale o religioso.
Nota anche come “legge anti-naziskin”, la legge Mancino è nata con la finalità di contrastare atti penalmente rilevanti motivati da ideologie di stampo neofascista o neonazista e compiuti nei confronti di soggetti ritenuti “inferiori” a causa della propria appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Ad essere colpita, dunque, non è solo l’integrità fisica della vittima ma anche la sua dignità umana e sociale. In altri termini, le previsioni della legge 205/1993 possono essere ritenute una specificazione dell’aggravante dei “futili motivi” che qui trova un fondamento criminologico nella necessità di contrastare qualsiasi nuova manifestazione dell’ideologia fascista, imposta dalla XII disposizione transitoria della Costituzione italiana.
La proposta di legge ad iniziativa Zan-Scalfarotto mira a colmare questo vuoto per estendere la legge Mancino e le previsioni degli artt. 604bis e ter del codice penale al caso in cui l’aggressione sia motivata dall’orientamento sessuale o identità di genere della vittima. Se il termine di “orientamento sessuale” si riferisce all’attrazione sessuale e/o romantica, la seconda definizione invece riguarda la percezione di sé che ha il soggetto. Quando il genere assegnato alla nascita non corrisponde alla propria identità di genere si parla di transgenderismo.
Le numerose indagini svolte sulla popolazione LGBT hanno rilevato come la componente più vulnerabile e a maggior rischio di violenza e autolesionismo sia proprio l’identità trans[3]; è quindi auspicabile l’inserimento di questa seconda definizione nell’ottica general-preventiva a cui il diritto penale deve ispirarsi.
L’articolo 3 della Costituzione afferma che tutti i cittadini della Repubblica godano di pari dignità sociale di fronte alla legge, senza distinzione per le proprie condizioni personali e sociali. Tuttavia, la Costituzione non si limita ad affermare l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dal momento che vincola lo Stato ad adottare azioni finalizzate a “rimuovere gli ostacoli” per una piena uguaglianza e dignità sociale dei propri cittadini (uguaglianza in senso sostanziale). Al riconoscimento formale dell’affettività LGBT dato dalla legge 76/2016 (legge Cirinnà) non corrisponde una speculare svalutazione, da parte dello Stato, dell’atteggiamento di odio o avversione nei confronti di queste soggettività. Diversi Paesi europei, come Belgio e Svezia, prevedono misure specifiche per contrastare i crimini d’odio verso le persone LGBT: solo con una normativa specifica l’omotransfobia può diventare uno degli ostacoli all’uguaglianza sostanziale di cui è lo Stato è vincolato ad occuparsi.
È in questa prospettiva che la seconda parte del testo di legge Zan introduce una giornata nazionale contro l’omotransfobia per sensibilizzare la collettività su questo tema e impone all’ISTAT di effettuare indagini statistiche ufficiali sui fenomeni di aggressione omotransfobica. Viene incrementato inoltre il fondo per le pari opportunità a sostegno di progetti statali contro l’omotransfobia, quali la creazione di un sistema di case rifugio.
Al momento, tuttavia, il disegno di legge deve ancora essere discusso in assemblea alla Camera e, se approvato, passerà in esame al Senato. Tra gli emendamenti proposti, si segnala l’approvazione della clausola “salva-idee” che afferma sia in ogni caso «consentita la libera espressione di convincimenti ed opinioni, nonché le condotte legittime, riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte». La formulazione, considerata eccessivamente generica dalla Commissione Affari Costituzionali, pone delle incertezze soprattutto in relazione alla sua interpretazione in sede giurisdizionale e sulla sua (a dire il vero poco convincente) potenziale qualifica di scriminante nel caso di condotte penalmente rilevanti.
Conclusione
Qualche mese fa la Germania ha introdotto una legge per criminalizzare la conversion therapy, la terapia psicologica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale del minore per “farlo diventare eterosessuale”, bandita da diversi Paesi europei[4]. Priva di alcun fondamento scientifico, la conversion therapy si è rivelata dannosa nei confronti della salute mentale del minore, tanto da essere stata definita come una forma di tortura dall’International Rehabilitation Council for Torture Victims. Terapie psicologiche finalizzate alla “conversione dell’orientamento sessuale”, in ogni modo, restano al di fuori del testo attuale del disegno di legge Zan.
L’ambito medico e sanitario in generale non viene toccato dal testo. In altri termini, la proposta di legge contro l’omotransfobia si caratterizza nella sua essenza come una proposta di estensione della legge Mancino confinata all’ambito penalistico.
Tuttavia, nonostante tali limiti e l’incognita dell’emendamento Costa (la cd “clausola salva-idee”), si tratterrebbe del primo strumento che imporrebbe allo Stato di occuparsi di un problema a lungo passato sotto silenzio, almeno sul piano giuridico: l’avversione verso le persone LGBT. Ed è il suo impatto culturale, forse, quello realmente temuto.
Informazioni
Il testo della proposta di legge è consultabile sul sito della Camera: https://www.camera.it/leg18/126?tab=&leg=18&idDocumento=0569
[1] https://www.blmagazine.it/rinviato-a-ottobre-il-dibattito-sul-ddl-zan-contro-omotransfobia-e-misoginia-alla-camera/
[2] Per un approfondimento, vedere http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/15/legge-cirinna-e-successive-conseguenze/
[3] https://www.eunews.it/2014/12/09/ue-i-trans-i-piu-discriminati-del-gruppo-lgbt/26747
Le Women of the Wall e il diritto di pregare
La lotta per la libertà religiosa in Israele passa da un piccolo gruppo di donne noto come Women of the Wall
Le Women of the Wall
Un movimento affascinante in Israele, ancora poco noto all’estero, sono le Women of the Wall. Si tratta di un gruppo di donne, attivo dagli anni Ottanta, che riunisce ebree di varie denominazioni e provenienza accomunate dal desiderio di poter pregare in modo egualitario al Muro Occidentale, meglio noto in Italia con il termine “Muro del Pianto”.
L’interpretazione prevalente dell’Ebraismo ortodosso prevede che solo gli uomini possano officiare pubblicamente la tefillah (preghiera pubblica), leggere dal sefer (rotolo della Bibbia) ed indossare ornamenti sacri chiamati tefillin. Le correnti dell’Ebraismo riformato e conservative, ma anche alcune comunità che si identificano come Modern Orthodox, al contrario consentono, ed anzi incoraggiano, le fedeli ad adottare tali pratiche religiose. L’ebraismo progressista è prevalente negli Stati Uniti ma resta una minoranza sia in Europa che in Israele.
Non deve quindi destare sorpresa la scelta delle autorità israeliane, dopo la conquista di Gerusalemme nel 1967, di affidare l’amministrazione del Kotel (Muro Occidentale) ad un rabbino ortodosso e trasformare quindi lo spazio antistante al Muro in un luogo di preghiera secondo i canoni dell’ebraismo ortodosso. Donne e uomini, di conseguenza, sono stati separati da una mekhizà. Si tratta di una barriera divisoria che garantisce il rispetto delle regole di modestia. Secondo tali standard, le letture pubbliche della Torah possono avvenire solo nell’area maschile ed è considerato offensivo che una donna indossi in pubblico gli ornamenti sacri riservati agli uomini o preghi a voce alta.
Nel 1988 un gruppo di partecipanti alla Jewish Feminist Conference a Gerusalemme si è incontrato per la prima volta per pregare al Muro e da questo evento ha preso vita il primo nucleo delle Women of the Wall, che a partire dal 1988 si riunisce regolarmente, ancora oggi, per pregare assieme.
Gli eventi hanno incontrato da subito l’aperta ostilità di altri presenti, sia uomini che donne. Non di rado tali scontri hanno portato a pestaggi veri e propri che hanno reso necessario l’intervento della polizia.
A seguito di alcuni episodi particolarmente seri, le Women of the Wall hanno deciso di avviare una lunga battaglia, sia politica che legale, per poter pregare secondo le proprie usanze nel luogo-simbolo dell’ebraismo contemporaneo.
La battaglia legale
Nel 1989 le Women of the Wall hanno presentato un’ufficiale petizione al governo perché venisse loro consentito di poter pregare[1] indisturbate al Kotel. A tale richiesta il governo ha opposto un secco rifiuto, affermando che le azioni del gruppo fossero in contrasto con i “costumi locali” e rischiassero di offendere la sensibilità degli altri fedeli.
Il gruppo ha quindi deciso di appellarsi alla Corte Suprema, avviando un lungo contenzioso.
Nel 2002 la Corte Suprema si è pronunciata a favore delle Women of the Wall, ma la decisione è stata ribaltata in appello. Nella decisione del 2003, la Corte ha ritenuto le preghiere del movimento in contrasto con la sicurezza e l’ordine pubblico. Le funzioni avrebbero dovuto spostarsi in una piattaforma vicina, il Robinson’s Arch, sul sito archeologico adiacente al Kotel. Trattandosi di una piattaforma secondaria non utilizzata a scopi liturgici, avrebbe dovuto essere adattata per diventare luogo di culto. In ogni caso, la soluzione non ha pienamente soddisfatto le Women of the Wall, che hanno iniziato a tenere funzioni presso il Robinson’s Arch a partire dal 2004 ma hanno in parte proseguito ad officiare e indossare gli ornamenti da preghiera al Muro[2].
Diverse esponenti del movimento sono state arrestate[3], dal momento che la decisione della Corte Suprema aveva dichiarato tali pratiche illegali al di fuori dell’area designata.
A partire dal 2012 il governo israeliano si è impegnato per cercare di trovare una soluzione per la questione.
Dopo aver stabilito che le pratiche religiose delle Women of the Wall non fossero in contrasto con i costumi locali e le stesse non usassero violenza fisica o verbale verso gli altri fedeli, un tribunale ha autorizzato il movimento a pregare liberamente al Kotel, in contrasto con la decisione della Corte suprema del 2003[4]. Nel gennaio 2016, il governo israeliano ha approvato un piano per costruire uno spazio idoneo da adibire per la preghiera egualitaria al Kotel, fuori dal controllo del Rabbinato ortodosso[5].
Tale decisione è stata tuttavia avversata dagli esponenti più conservatori del governo e dalle autorità religiose ortodosse. Contro tale intervento si è pronunciato anche il Waqf islamico, responsabile della gestione delle moschee della Spianata del Tempio[6], in quanto le modifiche che la creazione di una nuova area comporterebbe potrebbero mettere a rischio lo status quo dei luoghi sacri. Ad ogni modo, nel 2017 il piano è stato sospeso a causa di contrasti sorti all’interno dello stesso governo, della cui coalizione facevano parte partiti ultra-ortodossi. La lotta delle Women of the Wall, ad ogni modo, non è finita: in attesa della creazione di un’area “pluralistica”, continuano a ritrovarsi al Muro e cercare, tramite campagne ed altre azioni, di ottenere visibilità e consenso nella società civile israeliana[7].
Israele come sistema “neo-millet”
Lo Stato di Israele ha un sistema giuridico peculiare, che presenta caratteri sia di civil che di common law. Il tratto più caratterizzante, tuttavia, rimane la sua configurazione come sistema “neo-millet”.
Il termine “millet”, traducibile come nazioni, designava nell’Impero Ottomano i gruppi nazional-religiosi a cui era conferita una particolare autonomia in virtù del favor che il diritto islamico attribuiva loro in quanto dhimmi, confessioni religiose “tollerate”. Tale autonomia trovava espressione non solo in ambito religioso ma anche in ambito giuridico, in relazione alla disciplina giuridica sullo status personale. La normativa sul diritto di famiglia e successioni, dunque, trovava applicazione non su base territoriale bensì personale. Differenti appartenenze religiose, in altre parole, comportavano l’assoggettamento a distinte sfere di competenza giuridica.
L’attuale Israele è stato costola dell’Impero Ottomano fino al suo crollo, a seguito della Prima guerra mondiale. Nel 1920, con il Mandato Britannico sulla Palestina, il common law iniziò a penetrare nel sistema giuridico ma le autorità inglesi preferirono non intervenire in un’area sensibile come il diritto di famiglia, confinando l’applicazione del diritto inglese all’ambito commerciale e penale. Nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele, la discussione su quale assetto dare allo Stato ebraico fu posticipata sia per la necessità di affrontare un conflitto armato che su pressione della minoranza palestinese, che guardava con sospetto ad eventuali interventi statali in settori delicati come il diritto familiare.
Le contingenze storiche hanno finito, di fatto, per cristallizzare l’ossatura del sistema pre-esistente. Israele è quindi rimasto un sistema neo-millet, al pari del Libano e, sorprendentemente, la Grecia. Will Kymlicka, uno dei principali teorici del multiculturalismo liberale, riteneva il sistema dei millet incapace di tutelare gli individui dalle cd “restrizioni interne”[8], le discriminazioni attuale dal gruppo nei confronti di alcuni membri, dal momento che, contestualmente all’identificazione dei gruppi, richiede l’individuazione di un vertice. Durante l’epoca ottomana, il Patriarca e il Gran rabbino di Costantinopoli ricoprivano tale funzione.
Per i 6 milioni di cittadini israeliani di religione ebraica, la giurisdizione in ambito di matrimonio e divorzio è di esclusiva competenza delle corti religiose del Rabbinato ortodosso. Su questa ossatura si sono inserite delle normative che, in qualche modo, “limitano” il carattere neo-millet. La legge sulle convivenze attribuisce ai conviventi more uxorio diritti analoghi a quelli delle coppie sposate. Viene altresì riconosciuto il diritto del partner non ebreo a chiedere la cittadinanza congiuntamente al coniuge, anche se il matrimonio è tra persone dello stesso sesso. Sono riconosciuti i matrimoni contratti all’estero, prassi diventata assai comune per coppie miste o laici. Tuttavia, la celebrazione di matrimoni ebraici non ortodossi resta proibita e lo status personale dell’individuo, inclusa la propria appartenenza alla religione ebraica (o, potremmo dire, al ‘millet’), viene determinato dal Rabbinato ortodosso.
La lotta delle Women of the Wall si inserisce in una richiesta più ampia di riconoscimento e, in ultima analisi, cerca di portare l’attenzione sul delicato problema della libertà religiosa in Israele.
Finora contingenze storiche e politiche hanno spostato tale dibattito in secondo piano, ma la questione resta aperta e tocca il cuore dell’identità dell’odierno Stato di Israele, Stato che fin dalle origini cerca di identificarsi come “ebraico e democratico”, nonché “patria nazionale del popolo ebraico”: sì, ma quale ebraismo? Per Anat Hoffman, leader delle Women of the Wall, “esiste più di un modo di essere ebrei”[9].
Informazioni
Yefet K. C., Israeli family law as a civil religious hybrid: a cautionary tale of fatal attraction, in University of Illinois Law Review, 2016
[1] Bisogna quindi tenere a mente il più ampio concetto di libertà religiosa, di cui se ne è parlato qui: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/03/il-velo-islamico/
[2] https://www.jewishvirtuallibrary.org/quot-women-of-the-wall-quot
[3] https://www.nytimes.com/2013/02/12/world/middleeast/Women-Praying-at-Western-Wall-Detained.html
[4] https://www.nytimes.com/2013/04/12/world/middleeast/israeli-court-rules-for-women-at-western-wall.html
[5] https://www.nytimes.com/2016/02/01/world/middleeast/israel-western-wall-prayer.html
[6] https://www.timesofisrael.com/palestinians-cry-foul-over-planned-mixed-gender-western-wall-section/
[7] https://www.womenofthewall.org.il/legal-struggle/
[8] W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1995, pag. 75-76.
[9] https://www.nytimes.com/2013/04/12/world/middleeast/israeli-court-rules-for-women-at-western-wall.html
La double jeopardy clause nel diritto americano
Il divieto di doppia incriminazione, double jeopardy clause, è un principio fondamentale della Costituzione americana. Tuttavia, la teoria della doppia sovranità ha messo in discussione la sua effettiva portata
Il principio sotteso nella double jeopardy clause
“Nessuno potrà essere sottoposto due volte per lo stesso delitto ad un procedimento che comprometta la sua vita o le sue membra”, afferma il comma 2 del V emendamento della Costituzione americana[1]. Assieme agli emendamenti IV, VI e VIII, il V emendamento costituisce una bill of rights per i soggetti posti in stato di accusa. Il divieto di double jeopardy, o doppia incriminazione, è una garanzia per l’accusato presente anche nei sistemi di civil law con la denominazione di ne bis in idem. Tale principio, nato nel diritto penale (“un procedimento che comprometta la vita o le membra”, quindi che preveda una sanzione che comporti limitazione della libertà personale o pena di morte), rappresenta un rifiuto del processo inquisitorio a favore del sistema accusatorio, introdotto nelle Corti inglesi nel Seicento. Nelle Corti ecclesiastiche dell’epoca, il processo veniva condotto in segreto e l’assoluzione veniva pronunciata unicamente “allo stato dei fatti”, senza che su tale pronuncia cadesse il giudicato.
Il divieto di doppia incriminazione (double jeopardy clause) trova applicazione nel caso in cui lo stesso soggetto venga accusato dello stesso delitto. La giurisprudenza americana, nel caso United States v. Felix, ha escluso che la cospirazione per commettere un delitto e il delitto compiuto configurino un’unica offesa ai sensi della double jeopardy clause[2], restringendo il campo di applicazione del divieto.
Nel caso in cui la stessa fattispecie si ponga in violazione di più previsioni normative, è necessario utilizzare un test elaborato dalla Corte Suprema per verificare se costituisca o meno doppia incriminazione: nel caso in cui il secondo reato non richieda requisiti probatori differenti, si tratta di uno stesso delitto ai sensi del V emendamento e, dunque, non può essere perseguito[3].
La teoria della doppia sovranità
La double jeopardy clause si lega necessariamente alle previsioni in materia di res judicata e sistema di impugnazioni. Una doppia incriminazione si può realizzare all’interno di uno stesso Stato nel caso in cui Corti distinte perseguano due volte la stessa condotta attuata dal medesimo soggetto. Tuttavia, nel caso di un crimine commesso e perseguito all’estero, il singolo Stato può in determinati casi dichiarare ugualmente la propria competenza per l’esercizio dell’azione penale.
In Italia tale possibilità è prevista agli artt. 6-9 del codice ed è stata esercitata in particolare per reprimere reati politici perseguiti all’estero. La presenza di distinti livelli di sovranità consente, in taluni casi, la possibilità di una doppia incriminazione per una stessa condotta criminosa.
Nel caso degli Stati Uniti, vi è una coesistenza originaria di due livelli di sovranità dal momento che l’ordinamento federale[4] delineato dalla Costituzione non sostituisce ma si aggiunge agli ordinamenti dei singoli Stati della federazione: ordinamento statale e federale, sebbene interconnessi, restano indipendenti e distinti. Questo dualismo è stato riscontrato per la prima volta nel caso Fox vs. State of Ohio (1847), avente ad oggetto la contraffazione di dollari. Dal momento che solo il Congresso detiene il potere di coniare moneta, solo lo Stato federe ha il potere di perseguire i crimini legati alla contraffazione di moneta in quanto reati federali. La teoria della doppia sovranità è stata affermata in modo più esaustivo nel noto United States vs. Cruiskshank (1976), in cui la Corte Suprema ha dichiarato:
“È la naturale conseguenza di una cittadinanza che comporta fedeltà nei confronti di due sovranità e chiede protezione da entrambe. Il cittadino non può lamentarsi dato che si è volontariamente sottomesso a tale forma di governo. Deve fedeltà a questi sistemi e nelle loro rispettive sfere deve essere soggetto alle sanzioni che ciascuno prevede per la disobbedienza alle proprie leggi. In compenso, può chiedere protezione a ciascuno all’interno della propria giurisdizione”[5].
Questa caratteristica ha forti implicazioni nel sistema giudiziario nel suo complesso e ai fini della double jeopardy clause in quanto, se il sistema statale e federale costituiscono due distinti livelli di sovranità, potrebbe venir meno il divieto di doppia incriminazione.
Il caso Hennis: tre processi per omicidio
Nel 1985 Katie Eastburn, moglie di un militare, viene trovata uccisa a coltellate nella propria abitazione assieme ai figli Kara e Erin. I sospetti si concentrano subito sul militare Tim Hennis, identificato da alcune testimonianze con lo sconosciuto che era stato visto uscire dal luogo del delitto la sera dell’omicidio. Sebbene condannato in primo grado, nel giudizio d’appello le testimonianze contro di lui crollano e viene assolto con sentenza definitiva. All’epoca dei fatti e del giudizio la genetica forense non era ancora sviluppata ma, nel 2006, vengono trovate tracce di DNA nel corpo di Katie, che era stata violentata prima dell’omicidio, compatibili con un campione del DNA di Hennis.
Dal momento che l’esercito è considerato un ramo dell’ordinamento federale, gode di alcune forme di autonomia tra cui la giurisdizione sui propri soldati per crimini commessi contro i civili. Introdotta dopo l’invasione americana del Messico nel 1846, la giurisdizione militare è stata prima ristretta nel 1969 ai soli crimini commessi “nell’esercizio del proprio ruolo militare”[6]. Nel 1987 la Corte Suprema aveva nuovamente esteso tale giurisdizione a qualsiasi reato contro i civili compiuto da membri dell’esercito, a cui Hennis era stato di nuovo iscritto dopo l’assoluzione. Il soldato viene quindi nuovamente sottoposto a processo penale dalla Corte militare e infine condannato nel 2010 sulla base della prova genetica. Sebbene vi fosse già un precedente nel caso Rodney King (1991), il terzo processo nei confronti di Hennis, concluso 25 anni dopo il delitto, ha destato grande preoccupazione nei giuristi americani per il rispetto del double jeopardy clause e di eguale trattamento.
Al momento in cui si scrive, il militare si trova ancora nel braccio della morte in un carcere militare del Kansas in attesa di un verdetto definitivo della Corte suprema militare[7], dopo aver perso l’appello[8].
L’eccezionalità dell’intervento federale
Il caso di Tim Hennis, sebbene paradossale, resta un’eccezione per il sistema americano. Se in teoria sarebbe possibile perseguire a livello federale un crimine già processato da Corti statali, in pratica ciò può essere ammesso solo in situazioni eccezionali pena la violazione del V emendamento e con l’autorizzazione del’Assistant General Attorney. Nella decisione Petite v. United States (1960), la Corte Suprema afferma che “diversi crimini derivanti da una singola condotta dovrebbero essere perseguiti nello stesso processo, sia come garanzia nei confronti degli accusati che per esigenze di economia processuale”[9].
Il governo federale quindi consente ad un limite del proprio intervento, sulla base del principio che la Corte statale sia in grado di pronunciarsi anche su questioni di interesse federale all’interno di tali procedimenti. I casi in cui tale presunzione viene meno sono quindi notevolmente circoscritti e devono essere accertati, come anticipato, dall’Assistant Attoney General degli Stati Uniti; tali casi includono incompetenza o corruzione della Corte, jury nullification manifestamente infondata e la scoperta di una prova che nel precedente giudizio era stata esclusa per manifesto errore di diritto, accostandosi al modello dell’impugnazione straordinaria della revisione previsto nel diritto processuale italiano.
Rimane tuttavia da sottolineare come le linee guida “Petite” rimangano una policy governativa, e dunque non possano essere utilizzate in giudizio dall’imputato sul presupposto che la propria incriminazione abbia violato tali linee di condotta[10].
Il caso Heath v. Alabama
Nel 1981 Larry Gene Heath si reca dall’Alabama alla Georgia per commissionare l’omicidio della propria moglie. Dichiaratosi colpevole dell’uccisione, viene condannato all’ergastolo dal momento che la legislazione della Georgia non prevede la pena di morte. Tuttavia, una Great Jury dell’Alabama inziò un secondo processo per il medesimo omicidio sul presupposto che la moglie era stata rapita in Alabama e, dunque, parte del crimine era avvenuto in questo Stato. Heath viene quindi condannato a morte per omicidio premeditato; la Corte Suprema dell’Alabama, a seguito di un rinvio certiorari, ha confermato la decisione. Il caso, arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti, è stato deciso richiamando nuovamente la dottrina della doppia sovranità, questa volta applicata in riferimento agli ordinamenti di due diversi Stati entrambi parte della Federazione:
“La teoria della doppia sovranità comporta che successive incriminazioni da parte di due Stati per la stessa condotta non siano pregiudicate dal divieto di doppia incriminazione. La teoria della doppia sovranità si fonda sull’idea del common law che concepisce il crimine come un’offesa contro la sovranità del governo. Quando l’imputato in un singolo atto viola la ‘pace e dignità’ di due diverse autorità statali, commette due crimini distinti”. La Corte, inoltre, rileva come il X emendamento lasci all’autorità dei singoli Stati tutte le materie non direttamente attribuite al governo federale. Di conseguenza, Heath viene condannato a morte.
Sulla double jeopardy clause e il sistema federale: conclusione
Il rapporto dialettico Stati-Federazione che caratterizza gli Stati Uniti non è scevro di contraddizioni. Le limitazioni della portata del divieto di ne bis in idem come conseguenza della teoria della doppia sovranità e la presenza della pena di morte solo in alcuni Stati rappresentano solo alcune delle criticità del sistema penale americano. Gli ordinamenti sono concepiti come distinte fonti di autorità derivanti dall’esercizio di poteri costituendi diversi. La Costituzione degli Stati Uniti, in altri termini, rappresenta un contratto sociale distinto e sovrapposto a quello statale. Dunque, si possono creare conflitti tra questi distinti ordinamenti nel momento in cui chiedono di esercitare la propria autorità sui cittadini. Ma, quando tali conflitti entrano nel processo penale, possono giustificare la disparità di trattamento?
Per David Glazier, docente di Diritto militare, “I padri costituenti volevano chiaramente impedire che l’esercito potesse avere autorità sui crimini commessi contro civili; anche se violasse l’idea attuale del divieto di doppia incriminazione certamente violava la concezione dei Padri costituendi”. Il giudice Marshall, nella propria dissenting opinion in Heath vs. Alabama, il secondo processo non poteva essere imparziale dato che la giuria già era a conoscenza della decisione della Corte della Georgia. Difficile non essere d’accordo.
Informazioni
David Stewart Rudstein, Double Jeopardy (Reference Guides to the United States Constitution), Praeger Publishers, 2004
[1] “[N]or shall any person be subject for the same offence to be twice put in jeopardy of life or limb”
[2] https://www.law.cornell.edu/supct/html/90-1599.ZS.html
[3] Blockburger vs Us, https://law.justia.com/cases/federal/appellate-courts/F2/50/795/1549257/ .
[4] L’ordinamento americano è inoltre distinto dal sistema dei check and balances. Su DirittoConsenso ne ha parlato Angela Federico: http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/27/check-and-balances-ordinamento-usa/
[5] “…this does not, however, necessarily imply that the two governments possess powers in common, or bring them into conflict with each other. It is the natural consequence of a citizenship which owes allegiance to two sovereignties, and claims protection from both. The citizen cannot complain, because he has voluntarily submitted himself to such a form of government. He owes allegiance to the two departments, so to speak, and within their respective spheres must pay the penalties which each exacts for disobedience to its laws. In return, he can demand protection from each within its own jurisdiction.” in: https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/92/542
[6] https://www.newyorker.com/magazine/2011/11/14/three-trials-for-murder
[7] https://www.stripes.com/news/soldier-on-death-row-will-ask-the-military-s-highest-court-to-overturn-his-conviction-1.603983
[8] https://www.armfor.uscourts.gov/newcaaf/opinions/2017OctTerm/170263.pdf
[9] “several offenses arising out of a single transaction should be alleged and tried together and should not be made the basis of multiple prosecutions, a policy dictated by considerations both of fairness to defendants and of efficient and orderly law enforcement” in: https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/361/529
[10] D. S. Rudstein, Double Jeopardy (Reference Guides to the United States Constitution), Praeger Publishers, 2004
L'aborto in Polonia: una legge che scontenta tutti
Una riflessione storica sulla legge più restrittiva d’Europa in tema di interruzione di gravidanza: la legge sull’aborto in Polonia
L’aborto in Polonia: cenni storici e quadro legislativo attuale
Prima di parlare dell’aborto in Polonia dobbiamo fare un passo indietro. Il primo Stato al mondo a mondo a legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza è stata l’Unione Sovietica nel 1920. La legalizzazione avvenne nel contesto di una campagna politica su vasta scala che mirava a garantire a tutte le cittadine sovietiche l’accesso a procedure mediche sicure per l’interruzione della gravidanza, indipendentemente dal proprio reddito e dalla classe sociale di appartenenza. A tale scopo l’aborto era consentito su richiesta e a titolo gratuito. Nel 1936 Josif Stalin, a seguito di un calo demografico, abroga la legislazione previgente, ripristinata nel 1955 dopo la sua morte. Sebbene riformato anche nei decenni successivi, l’impianto originario della legge sovietica sull’interruzione volontaria di gravidanza è rimasto in tutti gli ex Stati membri dell’U.R.S.S., con un’unica eccezione.
In Polonia l’aborto è stato depenalizzato nel 1932 esclusivamente per motivi terapeutici e stupro. A tali cause di giustificazione una riforma del 1956 ha aggiunto il caso in cui la madre si trovasse “condizioni di vita difficoltose”, nozione che è stata interpretata a partire dagli anni Sessanta in un senso molto ampio. La legislazione vigente in Polonia negli anni Sessanta e Settanta ha consentito, de facto, l’aborto su richiesta[1], configurandosi come una delle più liberali dell’epoca. In questo periodo la Polonia è diventata una delle principali destinazioni europee del turismo abortivo, sia per la propria legislazione che per i costi molto bassi degli interventi chirurgici. Tale fenomeno ha coinvolto un numero di donne difficile da quantificare, provenienti da altri Paesi europei in cui erano previste normative più restrittive, in particolare dalla Svezia.
Il crollo del regime comunista ha segnato un netto cambiamento di direzione. Le prime elezioni parzialmente libere, tenute nel 1989, attribuirono tutti i seggi disponibili al partito guidato da Lech Wałęsa, il leader del sindacato di ispirazione cattolica Solidarność. Il processo di democratizzazione era stato sostenuto con vigore dalla Chiesa cattolica, duramente repressa negli anni del comunismo, e a partire dagli anni Novanta le istituzioni ecclesiastiche hanno iniziato ad esercitare una forte influenza sulla società polacca. Le spinte della Chiesa e la sua visione dell’aborto hanno portato il Parlamento polacco ad introdurre progressive restrizioni all’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza già nel 1990[2]. Nel 1993 Il Parlamento approvò una riforma che eliminava definitivamente la scriminante delle “difficili condizioni di vita”, portando al regime vigente ancora oggi.
La legislazione attuale stabilisce che l’aborto non costituisca reato in tre casi tassativi: seria minaccia alla vita o alla salute della madre, attestata da due medici; stupro o incesto accertato con sentenza del tribunale; grave e irrimediabile problema di salute al feto, certificato da due medici. Con la diffusione dei test prenatali, il terzo caso corrisponde alla netta maggioranza degli aborti legalmente praticati in Polonia. È inoltre previsto il diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale medico e sanitario.
Il rapporto della Polonia nei confronti dell’interruzione volontaria rappresenta un doppio unicum: si tratta sia dell’unico Stato ex sovietico ad aver adottato una legislazione così restrittiva nei confronti dell’aborto che dell’unico Stato membro dell’Unione europea ad essere passato da una normativa pro-choice ad una proibizionista.
Le decisioni della CEDU in tema di interruzione volontaria di gravidanza
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affrontato in diverse occasioni l’argomento dei diritti riproduttivi. Nella nota decisione A, B, C vs Ireland[3]la Corte di Strasburgo ha negato che l’articolo 8 (rispetto della libertà privata) sancisca un diritto all’aborto; al tempo stesso, nel caso Vo v. France[4], ha negato la qualifica di “persona” al feto nel caso di un errore medico che aveva comportato un aborto spontaneo. La scelta della Corte di Strasburgo è di lasciare al margine di apprezzamento degli Stati la valutazione se il feto sia o meno una persona e le conseguenti scelte in tema di interruzione volontaria; tuttavia, ha condannato diverse volte la Polonia per violazione dell’articolo 8 nel caso in cui tali scelte in tema di aborto hanno comportato la violazione di diritti fondamentali per le donne.
Nella sentenza R.R. v. Poland[5] del 2011 la Corte si è pronunciata su un caso di una donna che era diventata madre di una bambina affetta da una grave patologia genetica. Durante la gravidanza, a seguito di una scansione ad ultrasuoni, aveva motivo di ritenere che il proprio feto fosse portatore di un’anomalia genetica. Tuttavia, l’amniocentesi venne ripetutamente negata da medici obiettori di coscienza e fu effettuata dopo 6 settimane, comportando per la donna il superamento del limite legale previsto per poter praticare l’interruzione. In questo caso la Corte di Strasburgo ha riscontrato una violazione dell’art 3 (proibizione trattamenti inumani e degradanti) e dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) per aver ingiustificatamente negato un test genetico e aver reso l’appellante nella posizione di non poter effettuare una decisione informata in ambito medico.
La pronuncia P. and S. v. Poland[6] del 2012, invece, riguardava il caso di una 14enne polacca rimasta incinta a seguito di violenza sessuale. La minore si era rivolta presso l’ospedale pubblico di Lublino. I medici però l’avevano fatta incontrare senza avvertimento con un sacerdote al fine di persuaderla a non abortire. Dopo numerosi tentativi falliti di ottenere risposte dal personale sanitario, alla madre della minore era stata tolta dal Tribunale dei minori la custodia della 14enne con l’accusa di aver convinto lei la figlia ad abortire. A seguito di un’ufficiale protesta al Ministro della Salute, la minore è riuscita ad abortire presso una clinica situata oltre 500 km dalla propria abitazione ed è tornata presso la propria famiglia. La Corte EDU ha in questo caso riconosciuto una grave violazione del rispetto della vita privata e familiare.
Criticità e prospettive future
Sebbene la legge non abbia subito cambiamenti dal 1993, l’aborto resta uno degli argomenti più scottanti nel dibattito pubblico in Polonia.
I tentativi di restringere ulteriormente i casi ammessi per arrivare ad un’abolizione pressoché totale sono stati numerosi negli ultimi anni; in particolare, il caso più frequente di aborto – gravi anomalie genetiche del feto – è stato accusato di rappresentare un tentativo di eugenetica da esponenti di spicco del governo[7]. Nel 2016 una legge di iniziativa popolare, sostenuta da un gruppo pro-life, è stata discussa in Parlamento e, se approvata, avrebbe proibito l’aborto in tutti casi ad eccezione del pericolo di vita per la madre. A seguito delle Czarny Protests, che hanno coinvolto oltre 30mila donne polacche, il Parlamento ha deciso di ritirare la proposta di legge.
In queste settimane, una nuova proposta di iniziativa popolare in tale direzione sarà sottoposta a discussione alla Sejm (Parlamento). I movimenti femministi, a causa delle restrizioni per fronteggiare l’epidemia di covid-19, hanno deciso di protestare con iniziative online non potendo tenere manifestazioni pubbliche[8].
Tra le maggiori criticità denunciate vi è il problema degli aborti clandestini[9]. Gli aborti praticati ufficialmente ogni anno si aggirano tra i 1000 e i 2000, ma si stima che il totale arrivi ad 80mila aborti l’anno. La stragrande maggioranza degli aborti, infatti, avviene clandestinamente o all’estero[10]. Tra le destinazioni principali del turismo abortivo vi sono Slovacchia, Ucraina, Germania e Regno Unito[11]. Gruppi femministi pro-choice offrono aiuto logistico e anche economico alle donne polacche costrette ad abortire, rischiando sanzioni penali: il codice penale polacco, infatti, sanziona anche il concorso in interruzione volontaria di gravidanza[12].
Sebbene la maggioranza dei polacchi si affermi contraria all’aborto per motivi etico-religiosi, il tasso di laicizzazione presso le nuove generazioni è molto elevato e lascia prospettare un cambiamento radicale nei prossimi decenni[13]. Il dibattito sull’aborto in Polonia, ad ogni modo, non riguarda solo la dimensione etica: si lega a stabili eredità storiche e alle scelte fondative alla base dello Stato polacco post-sovietico. In quanto tali, non saranno facili da sradicare.
Informazioni
Jerome S. Legge, Abortion Policy: An Evaluation of the Consequences for Maternal and Infant Health, State University of New York Press
A. Kulczucki, The Abortion Debate in the World Arena, edizioni Palgrave Macmillian
Abbiamo anche parlato dei diritti di ogni uomo, in questo articolo di Perla Lo Giudice
[1] Jerome S. Legge, Abortion Policy: An Evaluation of the Consequences for Maternal and Infant Health, State University of New York Press, pag. 62.
[2] A. Kulczucki, The Abortion Debate in the World Arena, edizioni Palgrave Macmillian, pag. 111.
[3] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso 25579/05, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-102332
[4] Corte Europea Diritti dell’Uomo, Grande Camera, ricorso 5324/00, http://hudoc.echr.coe.int/eng-press?i=003-1047783-1084371
[5] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso 27617/04, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-104911
[6] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorso 57375/08, http://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-114098
[7] https://rmx.news/article/article/polish-president-calls-eugenic-abortion-murder
[8] https://notesfrompoland.com/2020/04/14/as-abortion-ban-returns-to-parliament-polish-women-find-ways-to-protest-amid-lockdown/
[9] A. Kulczucki, The Abortion Debate in the World Arena, edizioni Palgrave Macmillian, pag 113-114.
[10] https://edition.cnn.com/2018/03/23/europe/poland-abortion-bill-germany-intl/index.html
[11] https://time.com/poland-abortion-laws-protest/
[13] http://thenews.pl/1/11/Artykul/385757,Church-attendance-in-Poland-plummeting-report?fbclid=IwAR1aSCzeJpmDccdW6pNiUknePlRgC7Gq72-3V_5sBSS-1JjNr22zUvskDNM