Prove nel processo amministrativo

Le prove nel processo amministrativo

La disciplina delle prove nel processo amministrativo: gli articoli 63 e 64 del c.p.a. ed il principio dispositivo

 

Onere della prova e potere del giudice amministrativo: gli articoli 63 e 64 del c.p.a.

Ai sensi dell’articolo 63, comma 1, c.p.a., il giudice può chiedere alle parti, anche d’ufficio, chiarimenti o documenti[1]. D’altro canto, ai sensi dell’articolo 64, comma 1, c.p.a. spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domane e delle eccezioni[2].

Il codice del processo amministrativo in materia di onere della prova richiama l’articolo 2697 c.c., secondo cui chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

Il principio che domina il regime di acquisizione delle prove nel processo amministrativo è quindi scolpito dal brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit, letteralmente, l’obbligo di portare le prove spetta a colui che afferma.

Ai sensi degli articoli 63 e 64 c.p.a., il c.d. principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova postula che l’interessato debba avanzare almeno un principio di prova affinché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori ufficiosi. Si è rilevato che tale principio, che pure connota il processo amministrativo, non può ridursi ad una inversione dell’onere della prova, dovendosi considerare che l’esercizio di poteri istruttori è rimesso al prudente apprezzamento del giudice, che in tale valutazione deve rispettare la regola della parità delle parti. Ancora gli articoli 63 e 64 c.p.a. onerano inequivocabilmente le parti del processo di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità (o siano agevolmente acquisibili) e che riguardino i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni[3].

Nel giudizio risarcitorio davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli articoli 2697 c.c.[4] e 63 comma 1 e 64 comma 1 c.p.a.[5], non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio. Perciò il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda[6].

 

La richiesta di chiarimenti e documenti da parte del giudice

I chiarimenti come prova nel processo amministrativo non costituiscono atto che fa fede ai sensi degli articoli 2699 e 2700 cod. civ.[7]: di conseguenza, per confutarne i contenuti non è necessaria la proposizione di querela di falso, e quindi gli interessati possono farlo con qualsiasi mezzo[8].

La dottrina distingue i mezzi di prova in senso proprio e gli altri mezzi istruttori: i primi sono volti a dimostrare un fatto; i secondi permettono al giudice di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dalla pubblica amministrazione ai fini dell’adozione di un provvedimento. Il primo mezzo istruttorio indicato, nel comma 1 della disposizione in commento, è la richiesta di chiarimenti e di documenti che il giudice può chiedere alle parti.

Indirettamente tale comma ricorda che il giudice amministrativo, nonostante le novità portate dal codice, è un processo ancora affidato principalmente alla prova documentale, tipica prova precostituita, dal momento che l’attività amministrativa si concreta sempre in atti scritti[9].

 

L’ispezione

Tra le prove nel processo amministrativo l’ispezione è inammissibile perché costituisce violazione della disciplina legislativa in tema di acquisizione probatoria, atteso che non può essere assimilato a un deposito documentale e configura invece una domanda implicita d’ispezione di cose, disciplinata dell’articolo 63, c. proc. amm. e dagli articoli 118 e 258 e sgg., c.p.c.[10].

 

La prova testimoniale

Nel processo amministrativo dal punto di vista delle prove non è utilizzabile la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Questo perché, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale (che ora può essere ammessa, su istanza di parte, ai sensi dell’articolo 63, comma 3, c.p.a., in forma scritta, ai sensi del Codice di procedura civile), non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione[11].

La prova testimoniale, ammessa dall’articolo 63, comma 3, c.p.a., nel processo amministrativo — essenzialmente documentale, perché incentrato sulla domanda di tutela dell’interesse legittimo a fronte di un procedimento amministrativo — costituisce un’ultima possibilità per consentire al giudice di formarsi un convincimento sui fatti storici rilevanti al fine della decisione. Vige il principio dispositivo con metodo acquisitivo che impone ai ricorrenti di fornire la prova dell’esistenza dei vizi denunciati, in base ai quali il giudice, ritenutane l’attendibilità, eserciterà i poteri istruttori previsti dal Codice del processo amministrativo.

 

La consulenza tecnica d’ufficio (CTU) e la verificazione: inquadramento generale

La consulenza tecnica quale prova nel processo amministrativo è prevista dall’articolo 19 comma 1 e dall’articolo 63, comma 4 c.p.a.. Tale prova è utilizzata solo se ritenuta dal giudice indispensabile. Essa consente al giudice non solo di avere l’ausilio di cognizioni tecniche non possedute, ma anche di affidare al consulente il compito di constatare taluni particolare fatti della causa, fornendo i chiarimenti tecnici ritenuti più opportuni.

Si è così inteso riconoscere al giudice amministrativo la disponibilità di uno strumento processuale con cui acclarare la correttezza intrinseca dei giudizi tecnici espressi dall’amministrazione. Si tratta quindi di novità che, pur riguardando un profilo processuale, assume un rilievo tutt’altro che secondario nella disamina della questione relativa alla natura della discrezionalità tecnica e al tasso di incisività del suo sindacato giurisdizionale.

Per un orientamento interpretativo ripetutamente seguito in giurisprudenza la verificazione può essere disposta solo per l’esame di fatti specifici da cui evincere lo scorretto esercizio del potere da parte dell’amministrazione. Tale criterio discretivo è apparso peraltro coerente con la tesi, sostenuta in giurisprudenza fino al 1999, volta a riconoscere quel sindacato solo estrinseco della discrezionalità tecnica, di cui la verificazione consente per l’appunto, sul piano processuale, l’esercizio[12].

In dottrina è stata prospettata una differente impostazione quanto ai rapporti tra verificazione e consulenza, ritenuti differenti solo per quel che attiene ai soggetti cui affidare l’incarico tecnico, appartenenti all’amministrazione in caso di verificazione, estranei alla stessa in caso di consulenza[13].

La verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio costituiscono strumenti di ausilio del giudice nella valutazione della prova e non possono in alcun modo valere a colmare le lacune di allegazione e probatorie poste a carico delle parti.

 

Gli altri mezzi di prova previsti al comma 5 con richiamo al c.p.c.: l’accertamento tecnico preventivo, l’interrogatorio libero e le prove raccolte in altro processo

Tra le prove nel processo amministrativo vi è l’accertamento tecnico preventivo. Presupposto necessario per la domanda di accertamento tecnico preventivo di cui all’articolo 63 c.p.a. e 696 c.p.c. è il rischio di dispersione della prova nell’intervallo di tempo occorrente per proporre l’azione di merito davanti al giudice competente. Pertanto, ove il ricorrente non fornisca alcun serio elemento di urgenza, tale da far ragionevolmente ritenere la sussistenza del suddetto rischio, il ricorso per accertamento tecnico preventivo va respinto[14].

Il motivo di fondo dell’accertamento tecnico preventivo regolato dall’articolo 696 c.p.c. è quello di ovviare al pericolo della dispersione della prova prima che la parte interessata attivi un giudizio di merito, ovvero definisca con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato. Presupposto essenziale è la sussistenza di un’urgenza concreta di far verificare prima del giudizio lo stato dei luoghi, ovvero la qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente dall’incipit della norma. Quest’ultima infatti prevede la locuzione “Chi ha urgenza di far verificare…“. Si è in presenza, dunque, di un mezzo processuale tipico del regime probatorio che è preordinato, attesa la sua valenza conservativa, all’anticipazione del momento di acquisizione della prova e, quindi, è intimamente connesso a quel giudizio di merito nel quale, invece, in via ordinaria avrebbe dovuto trovare espletamento la prova stessa.

Alla luce della disciplina introdotta dal c.p.a., anche nel giudizio amministrativo deve ritenersi ammissibile l’interrogatorio libero delle parti[15].

La sua ammissibilità, infatti, si impone sia in considerazione della pari dignità delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte (che impone di evitare disparità di tutela sul terreno probatorio tra la sede giurisdizionale ordinaria e quella amministrativa); sia in ossequio al principio di parità delle parti (articolo 2 c.p.a.), concretizzando la facoltà della parte privata di formulare chiarimenti (non a caso l’articolo 63, comma 1, c.p.a., riferisce il potere del giudice di chiedere chiarimenti “alle parti”).

Per quanto riguarda l’utilizzabilità nel processo amministrativo delle prove raccolte in altro processo il Consiglio di Stato ritiene di dare ingresso nel giudizio amministrativo anche agli elementi di prova acquisiti nel processo penale, a condizione che tale materiale probatorio resti assoggettato ad una valutazione critica a sé stante rispetto a quella compiuta del giudice penale e che venga considerato in quadro globale ed unitario, senza procedersi a valorizzazione di specifici e singoli elementi di prova .

Le conclusioni cui perviene il giudice amministrativo sembrano dar rilievo proprio alla libertà di apprezzamento degli elementi di prova esaltata dall’art. 64 c.p.a., là dove pongono in risalto la necessità che le prove assunte in un diverso giudizio devono essere sottoposte a un autonomo vaglio critico svincolato dall’interpretazione e dalla valutazione che ne abbia già dato il giudice penale.

Informazioni

D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo).

Giani, La fase istruttoria in Giustizia amministrativa, 2012.

Sorrentino, Il sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica: dal sindacato estrinseco a quello intrinseco in Manuale di diritto amministrativo, 2013.

[1] Dottrina (Benvenuti, Perfetti, Villata) e giurisprudenza (Cons. Stato sez.IV, 18 giugno 2009; Tar Friuli-Venezia Giulia 26 maggio 2011, n. 260)

[2] Per un approfondimento sul processo amministrativo: Uno schema sul processo amministrativo – DirittoConsenso.

[3] T.A.R. Toscana, Firenze sez. I, 28 gennaio 2016, n.135.

[4] Chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda.

[5] L’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità.

[6] Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 23 giugno 2015, n.460.

[7] Non casualmente, l’articolo 63, comma 1, c.p.a. distingue, quale possibile oggetto delle richieste istruttorie che il giudice può rivolgere alle parti, i chiarimenti dai documenti, potendo solo per questi ultimi porsi un problema di fede privilegiata.

[8] Consiglio di Stato sez. IV, 07 luglio 2015, n.3362).

[9] Giani, La fase istruttoria in Giustizia amministrativa, 2012.

[10] (Consiglio di Stato sez. IV, 20 febbraio 2013, n.1059).

[11] Consiglio di Stato sez. IV, 22 agosto 2018, n.5030; T.A.R. Molise, Campobasso sez. I, 04 maggio 2015, n.174; Consiglio di Stato Ad. Plen., 20 novembre 2014, n.32; T.A.R. Toscana, Firenze sez. II, 28 marzo 2012, n.613.

[12] Sorrentino, Il sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica: dal sindacato estrinseco a quello intrinseco in Manuale di diritto amministrativo, 2013.

[13] Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, 1953.

[14] T.A.R. Sardegna, Cagliari sez. II, 28 aprile 2014, n.298.

[15] Consiglio di Stato sez. III, 23 febbraio 2012, n.1069; T.A.R. Lombardia, Milano sez. III, 06 aprile 2011, n.904.


Accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario

L'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario

Cos’è l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario? Come funziona la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede

 

Cos’è l’accettazione della eredità con beneficio d’inventario

All’apertura della successione ereditaria – al momento cioè della morte di una persona[1] – si determina quel fenomeno di delazione dell’eredità (art. 457 c.c.) che, se accettata, comporta la confusione del patrimonio dell’erede con quello del defunto. La condizione del defunto prosegue nell’erede che, così come può trovarsi arricchito dal patrimonio e dai crediti del defunto, ne eredita però anche le passività e i debiti. L’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario dà luogo alla separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede. Vediamo come.

Fino all’accettazione dell’eredità (espressa o tacita) – e ferma sempre la possibilità di rinuncia all’eredità[2] – la confusione tra il patrimonio del soggetto defunto e il patrimonio dell’erede non si determina. La confusione consegue all’accettazione dell’eredità la cui efficacia retroagisce al momento nel quale la successione si è aperta[3].

Salvo quanto si dirà in caso di eredità devolute a minori o altri incapaci[4] ovvero a persone giuridiche o enti non aventi natura societaria[5], in cui non c’è possibilità di scelta, il Codice civile prevede la facoltà per il chiamato di accettare l’eredità con una modalità che gli consente di non correre il rischio di dover rispondere dei debiti del defunto. Questa modalità per certi versi cautelativa di accettazione è, appunto, l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario[6].

L’effetto principale dell’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario consiste nel neutralizzare la confusione dei patrimoni e cioè “nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede” (art. 490 c.c.). La conseguenza principale – sempre indicata nella medesima norma – è che l’erede non sarà obbligato al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti. La giurisprudenza[7] ha chiarito anzi che l’erede in caso di eredità beneficiata risponde dei debiti ereditari esclusivamente con i beni ereditari ed anche per gli oneri modali e più in generale, per tutti i pesi ereditari posti a carico dell’erede.

 

Come funziona

Ai sensi dell’articolo 484 del codice civile possiamo suddividere l’istituto in 4 fasi[8]:

  • In primo luogo si procede ad una dichiarazione scritta, nella forma di atto pubblico, che esprime la volontà di accettare l’eredità. Questa può essere effettuata presso un notaio o depositata a un cancelliere del tribunale del territorio dove si è aperta la successione (comma primo). In caso di difetto di forma della dichiarazione questa sarà nulla e non si convertirà in accettazione pura e semplice;
  • Presso lo stesso tribunale dove viene depositata la dichiarazione, questa dev’essere inserita nel registro delle successioni ivi conservato (comma primo). In particolare, l’iscrizione nel registro avviene d’ufficio se la dichiarazione è stata ricevuta dal cancelliere, o a seguito di richiesta del dichiarante o del notaio, se da questi redatta, con consegna di una copia autentica dell’atto[9];
  • La fase successiva prevede la trascrizionedella dichiarazione, a cura del cancelliere, presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo dove si è aperta la successione (comma secondo) entro un mese dall’inserzione nel registro delle successioni. Tale pubblicità deve avvenire a prescindere dal fatto che nel patrimonio ereditario vi siano beni immobili e ha lo scopo di rendere noto ai creditori il beneficio d’inventario. In sua mancanza, tuttavia, non si avrà l’inefficacia dell’accettazione beneficiata. L’unico effetto che si produce in questo caso è l’impedimento dell’erede al pagamento dei creditori ai sensi dell’articolo 2648 del codice civile;
  • L’ultima fase contempla la redazione dell’inventario. Ai sensi del quarto comma dell’articolo in esame questo può essere fatto prima o dopo la dichiarazione. In entrambi i casi deve essere annotata nel registro, a cura del pubblico ufficiale, la data in cui l’inventario è stato fatto. Entro il termine di un mese se effettuato dopo la dichiarazione.

 

La mancata o ritardata esecuzione degli adempimenti previsti riconduce il soggetto alla qualifica di erede puro e semplice con tutto ciò che ne consegue in termini di commistione tra i due patrimoni.

A tale proposito “l’articolo 484 c.c., nel prevedere che l’accettazione con beneficio d’inventario si fa con dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinea una fattispecie a formazione progressiva di cui sono elementi costitutivi entrambi gli adempimenti ivi previsti, cosicché, se, da un lato, la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato che subentra perciò in “universum ius defuncti” (…) d’altra canto essa non incide sulla limitazione della responsabilità (…) che è condizionata anche alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e semplice..[10].

 

Accettazione beneficiata obbligatoria

La legge prevede che l’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario sia obbligatoria in alcuni casi particolari per tutelare soggetti giuridicamente più deboli previsti negli articoli 471, 472, 473 del Codice civile. Tali soggetti sono i minori e i minori emancipati, gli interdetti, gli inabilitati, le persone giuridiche, le fondazioni, le associazioni e anche gli enti non riconosciuti. Non sono invece obbligate al beneficio d’inventario le società commerciali.

Il fatto che questo tipo di accettazione sia obbligatoria non significa però che essa sia automatica: occorre che un responsabile compia l’atto necessario affinché l’accettazione sia valida. Quindi per i minori e gli interdetti devono essere i genitori o i tutori a compiere l’atto, dopo aver ottenuto il consenso del giudice tutelare; gli inabilitati e i minori emancipati, che giuridicamente hanno una limitata capacità di agire, possono usufruire del beneficio d’inventario con il consenso dei curatori e del giudice tutelare. Per tutti gli altri soggetti tale tipo di accettazione è facoltativa.

Nel caso in cui un minore sia chiamato ad accettare un’eredità ed il suo legale rappresentante abbia effettuato l’accettazione beneficiata, ciò determina l’immediato acquisto della qualità di erede da parte del minore anche in difetto di redazione dell’inventario. Ne consegue che il minore potrà provvedere a redigere l’inventario entro l’anno dal compimento della maggiore età (in modo da limitare la propria responsabilità rispetto ai debiti ereditari)[11].

 

Inventario e qualità di eredi

Prima o dopo aver reso la dichiarazione di accettazione beneficiata l’erede è tenuto alla compilazione dell’inventario. Si tratta di un’operazione contabile che permette di conoscere le attività e le passività che fanno parte del patrimonio ereditato. L’inventario deve essere redatto dal notaio o dal Cancelliere del Tribunale entro tre mesi dalla data in cui ha appreso di essere divenuto erede o da quando è stata aperta la successione[12].

Una volta redatto il documento vi sono quaranta giorni di tempo per l’erede per decidere se accettare o meno. Accettando egli diventa amministratore del patrimonio del defunto e si impegna ad amministrarlo nell’interesse suo e di quello dei creditori e dei legatari.

Una volta pagati i debiti e aver assolto ai legati l’erede è libero di disporre di quanto rimasto come meglio crede e non viene considerato responsabile per eventuali cifre che non siano state versate.

Se l’erede non è in possesso dei beni del defunto diventa per lui difficoltoso poter redigere un inventario. Perciò la legge prevede che abbia dieci anni di tempo per rendere la dichiarazione di accettazione dell’eredità con il beneficio di inventario. Una volta che ha però reso la dichiarazione ha tre mesi di tempo per inventariare il patrimonio, ma può anche richiedere delle proroghe. In ogni caso una volta presentato l’inventario ci sono quaranta giorni di tempo per accettare l’eredità, se omette di farlo perde ogni diritto sull’eredità stessa.

 

Chiamato in possesso dei beni ereditari: l’articolo 485 del Codice civile

Il chiamato in possesso dei beni ereditari deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno di apertura della successione o dalla notizia della delazione. Se comincia l’inventario entro tale termine ma non riesce a portarlo a compimento può ottenere una proroga che non può superare la durata di tre mesi salvo gravi circostanze. La proroga deve essere richiesta prima che inizi a decorrere il termine, e può essere concessa una sola volta. Qualora trascorrano i tre mesi senza aver compiuto l’inventario, il chiamato perde il beneficio e diventa erede puro e semplice.

Nel caso in cui l’inventario sia stato redatto prima di aver dichiarato di voler accettare l’eredità la norma impone al chiamato di deliberare circa l’accettazione o la rinuncia nel termine di quaranta giorni dall’inventario. In caso contrario perde il beneficio.

Il termine dei tre mesi entro cui redigere l’inventario decorre dalla data in cui viene acquistato il possesso dei beni, se successiva all’apertura della successione; dalla data in cui viene a conoscenza della delazione; oppure dal momento in cui il chiamato comprende che i beni in suo possesso sono ereditari, qualora li avesse già in suo possesso.

Infine, il chiamato che voglia rinunciare all’eredità può farlo prima che sia decorso il termine per la redazione dell’inventario. Non rileva in proposito né che egli l’abbia iniziato e non concluso, né che non l’abbia neppure iniziato.

Il chiamato in possesso dei beni ereditari può assumere il ruolo di rappresentante dell’eredità qualora venga aperto un giudizio. Tale facoltà gli è concessa solo durante i termini stabiliti dalla legge per fare l’inventario e durante quelli che gli consentono di accettare o rinunciare all’eredità. Alla sua mancata comparizione in giudizio segue la nomina di un curatore all’eredità ai sensi dell’articolo 486 del Codice civile.

 

Chiamato non in possesso dei beni ereditari e l’actio interrogatoria

La norma che disciplina il beneficio d’inventario con riguardo al chiamato che non è in possesso dei beni ereditari è l’articolo 487 del codice civile. Da questa si ricava la regola per cui il chiamato può accettare l’eredità, sia con beneficio d’inventario sia in modo puro e semplice, fino a che l’accettazione non cade in prescrizione (10 anni).

Il termine per redigere l’inventario del chiamato non in possesso dei beni è lo stesso previsto per il chiamato in possesso dei beni per quanto attiene alla durata. In questo caso, tuttavia il termine decorre dal momento in cui il chiamato ha deliberato sull’accettazione o rinuncia, salvo abbia richiesto la proroga di cui all’articolo 485. Se non procede a redigere l’inventario entro il termine il chiamato diventa erede puro e semplice[13].

L’ultimo comma della norma in esame prevede il decadimento dal diritto di accettare l’eredità qualora il chiamato abbia fatto l’inventario prima della dichiarazione di accettazione e nei quaranta giorni successivi non abbia deliberato in tal senso.

Nei confronti del chiamato non possessore è esperibile la cosiddetta actio interrogatoria. Questa è disciplinata in via generale dall’articolo 481 del codice civile ma ha una disciplina specifica per il chiamato possessore contenuta nell’articolo 488 del codice civile. Il chiamato possessore, infatti, deve accettare l’eredità entro il termine fissato dal giudice altrimenti perde il diritto di accettare e nello stesso termine redigere l’inventario. La sola esecuzione dell’inventario senza dichiarazione di accettazione comporta la perdita del diritto di accettare. Se invece effettua la dichiarazione ma non redige l’inventario decade dal beneficio. Il giudice può concedere una dilazione dei termini stabiliti su richiesta dell’interessato.

 

Effetto principale dell’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario

Il beneficio d’inventario ha come effetto primario la separazione del patrimonio del defunto da quello dell’erede (articolo 490 c.c.)[14].

L’erede quindi beneficia, come abbiamo già detto, della limitazione della propria responsabilità patrimoniale. Questo, infatti si trova titolare di due patrimoni distinti, quello personale e quello ereditario. Il patrimonio personale potrà essere aggredito dai soli creditori personali, mentre quello ereditario potrà essere aggredito sia dai creditori personali che da quelli ereditari, con preferenza per quest’ultimi in un eventuale concorso fra i due.

Informazioni

DI MARZIO MAURO, L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, edito da Giuffrè, 2012.

CASSANO G.-ZAGAMI R., Manuale della successione testamentaria (a cura di), Maggioli Ed. 2010.

Cassazione civile sez. II, 22/12/2020, n. 29252.

[1] Articolo 456 c.c.

[2] Articoli 519 e ss. c.c.; per un approfondimento invito a leggere: L’accettazione e la rinuncia dell’eredità: profili e modalità – DirittoConsenso.

[3] Articolo 459 c.c.

[4] Articoli 471 e 472 c.c.

[5] Articolo 473 c.c.

[6] Articolo 470 c.c.

[7] Cass. civ. Sez. II, 29 dicembre 2016, n. 27364 e Cass. civ. Sez. II, 29 aprile 1993, n. 5067.

[8] Codice Vedi Codice civile, Libro Secondo, Titolo I, Capo V, Sezione II

[9] Articolo 52 delle disposizioni attuative al Codice civile.

[10] Corte di Cassazione, sezione tributaria, con sentenza 26 novembre 2014, n. 25116.

[11] Corte di Cassazione  Ordinanza n. 15267, depositata il 5 giugno 2019

[12] https://www.directio.it/News/Details/2283

[13] Cassano G.-Zagami R., Manuale della successione testamentaria (a cura di), 2010, Maggioli Ed.

[14] Di Marzio Mauro edito da Giuffrè, 2012.


Contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato: che cos’è? Quali sono le tipologie del contratto? La sua durata, retribuzione, diritto di recesso, agevolazioni legge bilancio 2022

 

Che cos’è l’apprendistato?

Il contratto di apprendistato è stato nel tempo disciplinato da una cospicua normativa e nel corso degli anni ha subito una profonda evoluzione.

Oggi la sua disciplina è individuabile negli articoli 41-47 del decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015. A norma dell’art. 41 del suddetto decreto, il contratto di apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni diverso dal contratto a tempo determinato[1].

La finalità del contratto di apprendistato evidenzia la causa mista del rapporto[2]; infatti, attraverso questo contratto il datore di lavoro si obbliga non solo a retribuire l’apprendista ma si preoccupa anche della sua formazione e far conseguire il titolo di studio.

A differenza di altri contratti di lavoro, il lavoratore ha come obiettivo il raggiungimento di una determinata qualificazione professionale esterna o interna all’azienda secondo quanto definito nel piano formativo allegato al contratto. In quest’ultimo si definiscono i contenuti formativi che l’apprendista acquisirà alla fine del percorso. Il percorso formativo può essere svolto all’esterno o all’interno dell’impresa. Nell’intento di potenziare l’offerta formativa aziendale e di alleggerire gli oneri economici che ricadono sul datore di lavoro, il decreto ammette che tale attività possa godere del sostegno dei fondi paritetici interprofessionali, anche mediante accordi con le Regioni.

 

Quali sono le tipologie del contratto?

Il contratto di apprendistato si articola in tre tipologie:

  • L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore: è un contratto di lavoro che permette di conseguire una qualifica professionale o un diploma professionale alternando lavoro e studio. La durata è determinata in base alla qualifica o al diploma da conseguire, non può essere superiore a tre anni o quattro nel caso di diploma quadriennale regionale. Con questa forma di apprendistati possono essere assunti giovani dai 15 fino ai 25 anni senza una qualifica o un diploma professionale.
  • L’apprendistato professionalizzante: è finalizzato ad assicurare una qualificazione professionale a fini contrattuali attraverso una formazione trasversale e professionalizzante. Normalmente la durata del contratto non può essere superiore a tre anni o cinque per l’artigianato. Possono essere assunti con questo tipo di contratto i giovani tra i 18 e i 29 anni compiuti, in tutti i settori di attività, privati o pubblici[3].
  • L’apprendistato di alta formazione e ricerca: finalizzato al conseguimento di un titolo di studio universitario o istituti tecnici superiori o a una ricerca. Può essere utilizzato anche per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche. I percorsi formativi per l’apprendistato di alta formazione sono attualmente in fase di progettazione. Possono essere assunti con questa tipologia di apprendistati i giovani tra i 18 e i 29 anni compiuti in tutti i settori di attività, privati o pubblici.

 

La durata del contratto di apprendistato e la sua retribuzione

Il contratto di apprendistato ha una durata minima non inferiore a sei mesi. La durata effettiva del periodo di apprendistato è stabilita in relazione a quella del percorso formativo, necessario al conseguimento del titolo di studio e varia a seconda delle tre tipologie contrattuali.

È prevista anche una durata massima di regola compresa tra uno e quattro anni per le tipologie, mentre per l’apprendistato professionalizzante la durata massima non può essere superiore a tre anni, cinque anni per gli artigiani.

Per quanto riguarda la retribuzione bisogna fare una distinzione tra i tipi esistenti:

  • Per l’apprendistato per la qualifica o il diploma professionale il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo per le ore di formazione svolte all’interno dell’istituzione formativa; per le restanti è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta se qualificato. Sono fatte salve deroghe migliorative previste dai contratti collettivi.
  • Per quanto riguarda l’apprendistato di secondo tipo, cosiddetto professionalizzante le ore di formazione sono da considerarsi comprese nella normale retribuzione percepita.
  • Per l’apprendistato di terzo tipo, quello riguardante l’alta formazione e ricerca valgono le stesse regole dell’apprendistato del primo tipo.

 

Il nostro sistema vieta remunerare l’apprendista secondo tariffe di cottimo cioè in base alla quantità del lavoro prodotto perché l’apprendista non produce lavoro quanto un normale lavoratore. È vietato altresì utilizzare questa forma contrattuale con il solo scopo di sfruttare le agevolazioni contributive e normative previste.

In tema di apprendistato, la previsione della decadenza dalle agevolazioni contributive stabilita dall’art. 16 l. n. 196/1997, può ritenersi realizzata, e per tutto il periodo di durata del contratto, solo nel caso in cui, sulla base della concreta vicenda, l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto; ed in questa seconda ipotesi il giudice deve quindi valutare in base ai principi la gravità dell’inadempimento, giungendo a dichiarare la decadenza dalle agevolazioni in discorso in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza[4].

Il contratto di apprendistato non può essere utilizzato con il solo scopo di svolgere attività lavorativa ma deve prevedere allo stesso tempo specifiche attività di insegnamento da parte del datore di lavoro. Tale aspetto è non solo determinante l’apprendistato ma rappresenta un obbligo del datore di lavoro.

 

Il diritto di recesso

L’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015 pur riordinando la disciplina normativa ha sollevato non pochi dubbi interpretativi ed a impattare sulla gestione concreta del personale.

Diversi sono gli aspetti dell’istituto rivisti dal capo V del decreto legislativo n. 81/2015. Tra questi vi è anche la disciplina in materia di recesso contenuta ora al comma 4 dell’articolo 42 del d.lgs. n. 81/2015.

Per definizione l’apprendistato è nel d.lgs. n. 81/2015, come lo era nel d.lgs. 167/2011, un contratto di lavoro «a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani».

Ferma restando tale affermazione, a partire dal 2012, si è previsto che questo dovesse avere una durata minima non inferiore a sei mesi, con ciò intendendo che la durata della componente formativa dello stesso non potesse esaurirsi prima che fosse trascorso un periodo di sei mesi[5].

Con l’esaurirsi del periodo di formazione – secondo la dicitura del Testo Unico del 2011 – oppure del periodo di apprendistato – secondo la nuova versione – il rapporto tra le parti prosegue come un “ordinario” rapporto a tempo indeterminato salvo che le parti non intendano esercitare il diritto di recesso loro riconosciuto dalla legge.

È necessario ora domandarsi: la nuova disciplina ha apportato modifiche nel caso in cui le parti intendano avvalersi del diritto di recesso. La risposta è no perchè non ci sono particolari modifiche procedurali.

Le parti che infatti intendano recedere, oggi come ieri, dovranno farlo con un preavviso decorrente dal termine del periodo di apprendistato, ovvero dalla fase formativa dello stesso. Nel caso dell’apprendistato di I e III livello esso, generalmente, coincide con il conseguimento del titolo di studio a cui il contratto è finalizzato. Nel caso dell’apprendistato professionalizzante, invece, esso è determinato dal raggiungimento delle competenze proprie della qualificazione professionale contenuta nella declaratoria del CCNL applicato dall’azienda.

Pur rimanendo confermata anche la previsione secondo la quale durante il periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina generale del contratto di apprendistato, le parti sociali non dispongono dell’individuazione dei giorni di preavviso. Infatti, se nel sistema previgente si affidava la disciplina del contratto di apprendistato ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale  ora, stante la nuova formulazione dell’articolo 42, pare che la materia del recesso sia sottratta alla disponibilità delle parti sociali. Tale articolo, nel ribaltare la logica che aveva animato il sistema previgente, rimette alla sola legge il potere di intervenire su detta materia, prevedendo ora in un comma a sé stante che «al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto, ai sensi dell’articolo 2118 del c.c., con preavviso decorrente dal medesimo termine».

Le conseguenze pratiche non sono tuttavia di particolare rilievo posto che l’articolo 2118 c.c. prevede che le parti possano recedere dal contratto dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità. Seppure la contrattazione collettiva non venga chiamata direttamente in causa, pare potersi ritenere che i termini di preavviso da questa previsti per l’esercizio del diritto di recesso debbano comunque continuare a trovare applicazione. Le parti sarebbero libere di determinare, nell’esercizio della loro autonomia, termini anche diversi da quelli previsti dal contratto collettivo, che pertanto parrebbero trovare applicazione solo in assenza di diversa volontà delle parti[6].

 

Agevolazioni legge bilancio 2022

A decorrere dal 1° gennaio 2022, ai fini della qualificazione o riqualificazione professionale, è possibile assumere in apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, anche i lavoratori beneficiari del trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all’art. 22 ter del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 148, oltre ai lavoratori beneficiari di indennità di mobilità o di un trattamento di disoccupazione (art. 47, comma 4, D.Lgs. n. 81/2015, come modificato dalla Legge di Bilancio 2022, Legge 30 dicembre 2021, n. 234, art. 1, comma 248).

Inoltre, per i contratti di apprendistato di primo livello per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore, stipulati nell’anno 2022, è riconosciuto ai datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze fino a 9 addetti uno sgravio contributivo del 100% con riferimento alla contribuzione per i periodi maturati nei primi 3 anni di contratto (art. 1, comma 645, Legge di Bilancio 2022).

Infine, con la Circolare n. 12 del 6 giugno 2022), il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito chiarimenti interpretativi sulla normativa vigente al fine di favorire l’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale del contratto di apprendistato di primo livello, di cui all’art. 43 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e del Decreto Interministeriale 12 ottobre 2015, lasciando inalterata la facoltà per le Regioni e le Province Autonome di fissare ulteriori requisiti in materia per gli aspetti regolatori di propria competenza.

Informazioni

Artt. 2130-2134 c.c.; Art. 22, l. 12.11.2011, n. 183; Artt. 41-47 e art. 55 d.lgs. 15.6.2015, n. 81; Art. 32 d.lgs. 14.9.2015, n. 150; Art. 2 d.lgs. 14.9.2015, n. 148.

Circolare n. 12 del 6 giugno 2022

Legge di Bilancio 2022

Diritto del lavoro; G Santoro-Passerelli.

[1] Per un approfondimento sul contratto di lavoro a tempo determinato si rinvia all’approfondimento scritto da Lizia Rossi Querin: Il contratto a tempo determinato – DirittoConsenso.

[2] Il Consiglio di Stato sez. V, 24/11/2021, n.7865 precisa: il rapporto di apprendistato costituisce contratto a causa mista, in particolare si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione, si aggiunge l’elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, la seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., vede la trasformazione del rapporto in tipico rapporto di lavoro subordinato; ne consegue che, in caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa al licenziamento prima della scadenza nel rapporto di lavoro a tempo determinato.

[3] Con la sentenza n. 5375 del 7 marzo 2018, la Cassazione afferma che se il contratto di apprendistato professionalizzante è stipulato al solo scopo di far svolgere al lavoratore le mansioni tipiche del profilo professionale, non prevedendo al contempo l’elemento essenziale, costituito dall’attività di insegnamento da parte del datore, lo stesso deve considerarsi illegittimo e deve essere convertito in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con inquadramento nella qualifica ordinaria.

[4] Cassazione civile sez. lav., 15 ottobre 2021, n.28359.

[5] Si veda in tal senso la risposta n. 4 contenuta nella Nota del 13 luglio 2012 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

[6] Il Tribunale Roma sez. lav., 14/04/2021, n.3512 in tema di accertamento del diritto ad ottenere l’indennità sostitutiva del preavviso in conseguenza del recesso dal contratto di apprendistato professionalizzante, precisa che va condannato il resistente che non abbia rispettato i tempi normativamente previsti di preavviso (nel caso di specie l’interessato, alla richiesta di chiarimenti, si era limitato a rispondere di aver superato un concorso pubblico presso altro Ente e di non aver potuto rispettare il termine di preavviso previsto dal contratto).