Forma di governo britannica

La forma di governo britannica: le istituzioni chiave

La forma di governo britannica è una monarchia costituzionale parlamentare: Corona, Parlamento ed Esecutivo della potenza insulare europea

 

Parlamentarismo e modello Westminster

Per definizione, la forma di governo britannica è di tipo parlamentare[1].

Il Parlamento si struttura con un modello bicamerale non simmetrico: un’assise più simbolica quale la Camera dei Lords – la House of Lords, oggi di 800 membri – e un’assemblea legislativa vera e propria, con ampi poteri, che è la Camera dei Comuni – la House of Commons, 650 membri eletti ogni quinquennio.

La “House of Lords[2] non dispone della possibilità di revocare la fiducia al governo, né di discutere provvedimenti di natura finanziaria, mentre  interviene nel procedimento legislativo discutendo e riesaminando le proposte di legge presentate all’altra Camera e gode comunque della possibilità di dare avvio lei stessa all’iter legislativo. Materialmente, la Camera Alta si limita però ad approvare emendamenti o esercitare il veto sospensivo che fa ritardare l’entrata in vigore di un provvedimento. Rispetto al governo, i Lords esercitano collettivamente un’’attività di controllo promuovendo discussioni e interrogazioni, ma fattivamente non hanno un potere né di indirizzo né intrusivo nella vita istituzionale del governo medesimo. I suoi componenti si organizzano in maggioranza per partiti, come nella Camera Bassa, ma con la sostanziale differenza di non rappresentare collegi e di poter anche esercitare le proprie funzioni da indipendenti, ”Crossbencher”, non facente capo a schieramenti politici precisi, pur con ciò rappresentando l’interesse generale del popolo britannico. La composizione non è fissa, data la presenza di rappresentanti vescovi e arcivescovi, “Lords spirituali”, in numero oggi pari a 26, 92 “pari ereditari o Lord temporali” e 630 “pari a vita”: non c’è alcuna elezione, le differenze riguardano più la trasmissibilità del titolo che non la nomina in senso stretto.

Concentrazione di poteri maggiore è riconosciuto invece per la “House of Commons”. I suoi membri sono eletti con sistema elettorale maggioritario a turno unico sulla base della divisione in collegi: nonostante questa organizzazione sia continuo oggetto di discussione, data la accusata sproporzione nella divisione dei seggi e l’attribuzione” privilegiata” degli stessi sempre ai due partiti maggiori, “Labourist”/Laburisti e “Tory”/Conservatori, si può dire che si creano precise condizioni garanti di una stabilità politica perdurante.

 

Il Primo ministro inglese

Consuetudine vuole che il leader del partito vincente sia nominato Primo ministro, figura centrale nella forma di governo britannica.

Senza passare per un preventivo voto di fiducia alla Camera, ma solo per la nomina reale, il Prime Minister[3] sceglie autonomamente i ministri del suo gabinetto e i vertici delle amministrazioni statali.

L’iniziativa legislativa è quasi sempre esercitata da membri del suo governo, ed essendo lui il leader della maggioranza parlamentare risultata dalle elezioni, nella sola sua figura si concentrano le prerogative di capo di partito, capo del governo e della maggioranza parlamentare appunto.

Le sue sono funzioni che formalmente spettano alla corona, la quale le esercita per mezzo del Capo del governo appunto: “on the advice”, su consiglio del sovrano.

Il governo cade solo con l’approvazione di una mozione di sfiducia alla Camera dei Comuni, cosa assai rara se dalle elezioni risulta un vincitore preciso[4].

Il Primo ministro è evidente sia una figura assolutamente centrale, tant’è che molti storici e studiosi ricostruiscono la storia del Regno Unito proprio elencando e analizzando la successione dei Primi ministri in carica, da Lloyd George a Churchill, dalla Thatcher a Blair, fino a Theresa May, ultimo predecessore dell’attualmente in carica Boris Johnson.

Le funzioni e i poteri che si vanno a cumulare attorno a questa figura sono sempre più crescenti, al punto che gli studiosi parlino di un mutamento lento ma notabile della forma di governo britannica, non più cioè puramente parlamentare.

 

La monarchia

God save the Queen”: in una espressione si racchiude tutto il profondo spirito di amore e devozione che gli inglesi nutrono nei confronti del loro sovrano. Quella britannica è una forma di governo parlamentare, ma non senza essere anche una monarchia costituzionale.

La corona riveste oggi un ruolo puramente formale e rappresentativo[5], dopo un lungo processo di costituzionalizzazione e democratizzazione del governo britannico che rintraccia le sue origini , sotto questo profilo, a partire dalla “Gloriosa rivoluzione” del 1628 e la successiva approvazione del “Bill of Rights” nel 1689.

Il sovrano ha diritto ad essere consultato, ha diritto a consigliare e mettere in guardia: in altre parole, le prerogative del monarca si esercitano secondo schemi di equilibrio e ponderatezza.

Nomina tra i cittadini inglesi il Primo ministro, anche se la consuetudine costituzionale di cui si è discusso prima vuole che questo sia il leader del partito vincitore delle elezioni alla Camera dei Comuni; esercita il ruolo di Capo di Stato, sanziona le leggi approvate dall’assemblea parlamentare ove minacciassero la libertà e la sicurezza degli inglesi[6], è comandante in Capo delle forze Armate e capo della Chiesa Anglicana, nomina i giudici delle Corti penali su indicazione di commissioni permanenti competenti alle selezioni di giudici.

Nel complesso le sue funzioni formalmente maggiori si esercitano per lo più “in suo nome”, da quella esecutiva a quella giudiziaria.

È un modello insomma che si articola in un sistema di piani formali e sostanziali: è capo della Chiesa Anglicana, nomina vescovi e arcivescovi, sebbene le reali funzione di controllo e direzione della Chiesa stessa siano esercitate dall’arcivescovo di Canterbury; essendo capo delle Forze Armate, dichiara l’apertura dei conflitti bellici come la loro conclusione, ma materialmente sono questioni su cui decidono Primo Ministro e Camera dei Comuni, e così per quasi tutti i suoi riconoscimenti.

Il suo ruolo istituzionale quindi, si svolge in modo totalmente autonomo e concreto laddove si tratti di rappresentanza del Regno Unito, conducendo le cerimonie ufficiali, presenziando ad eventi di importanza nazionale e internazionale.

 

La Regina d’ Inghilterra: “Her Majesty Elizabeth the second

Come è noto, oggi la corona del Regno unito e dei reami del Commonwealth[7] poggia sul capo di Elisabetta II di Windsor dal 1939, anno dell’abdicazione di Re Edoardo VIII, fratello del padre di Elisabetta II, Re Giorgio VI.

Diventata regina all’età di 25 anni, sposa il principe Filippo Mountbatten nel 1947, e detiene il primato del regno più longevo nella storia della monarchia britannica, avendo da qualche anno superato la sua antenata, la regina Vittoria (63 anni di regno).

La dinastia Windsor si lega ad una storia densa di tradizioni, forse più di ogni altro casato europeo, già a partire dal suo stesso nome. “Windsor” è il nome del casato reale su decisione di Re Giorgio V, che lo fece sostituire a quello originario tedesco della famiglia, Sassonia-Coburgo-Gotha. In piena Prima Guerra mondiale, Re Giorgio V volle che ufficialmente il nome del suo casato cambiasse, per non attirare su di sé i correnti sentimenti antitedeschi che molti inglesi provavano, essendo loro nemici sul campo di battaglia. E così nasce ufficialmente il casato dei Windsor, che gli eredi di Giorgio V, a partire dal figlio Giorgio VI continuano a portare ancora oggi.

Al matrimonio di Elisabetta II, il casato reale prende il nome di Mountbatten-Windsor e, per espressa decisione della Corona, chiunque ascenda al trono potrà rinunziarvi e sceglierne un altro.

Alla morte di Elisabetta II, saliranno al trono suo figlio Carlo, principe di Galles, accompagnato dalla futura regina consorte, sua moglie Camilla, duchessa della Cornovaglia.

 

La costituzione non scritta: “Constitutional Documents

Il Regno Unito non ha una Costituzione, se per tale deve intendersi una Carta fondamentale scritta.

Infatti, la Costituzione inglese esiste ma non è una di tipo scritto, bensì un complesso di atti normativi di “rango” costituzionali, il cui primo in ordine cronologico può addirittura essere considerato la Magna Charta libertatum del 1215, convenzioni costituzionali e prerogative reali.

Contrariamente alle tendenze politiche assolutistiche europee, durante il XVII secolo l’Inghilterra si avvia a diventare una monarchia costituzionale con la Gloriosa Rivoluzione iniziata nel 1628 e conclusa nel 1688-89, passando per la decapitazione del Re Carlo I e una brevissima parentesi repubblicana.

All’adozione del Bill of Rights nel 1689 si fa risalire la nascita appunto della monarchia costituzionale inglese, con l’inizio del regno di Guglielmo III d’Orange, sotto il quale quel documento che fissa le fondamenta per una prima e innovativa separazione dei poteri dello Stato, insieme ad un primo decalogo di diritti civili e politici, viene ad essere concesso.

E’ una successione non rapida di atti del Sovrani e del Parlamento a permettere questa stratificazione documentale che nell’insieme si considera comunemente costituzione inglese: l’Act of Settlement del 1701, che consolida i risultati “costituzionali” della Gloriosa rivoluzione, l’Act of Union del 1707 con cui si sancisce la nascita del Regno Unito[8], il Great Reform Act del 1832, prima grande riforma elettorale, fino ai meno risalenti Human Rights Act, con il quale si formalizza l’ingresso nell’ordinamento inglese della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e House of Lords Act del 1999, che avvia l’eliminazione dell’ereditarietà del titolo di Lord.

Nessuno di essi è la Costituzione, ma ciascuno contiene disposizioni e norme capaci di rinnovare profondamente l’assetto giuridico e politico nelle sue fondamenta e regole principali nel Regno Unito, e perciò sostanzialmente costituzionali.

Informazioni

[1] Sul punto più approfonditamente: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/10/le-varie-forme-di-governo-parlamentare/

[2] Sul punto: https://www.parliament.uk/globalassets/documents/lords-information-office/hoflbgitalian.pdf

[3] Oggi Boris Johnson, leader del Partito Conservatori dei Tory.

[4] Sono pochi i casi in cui i numeri degli eletti dei diversi partiti sono ravvicinati al punto da doversi creare accordi di governo tra forza diverse. Infatti, è proprio questo il rischio che il sistema elettorale maggioritario vuole evitare che si concretizzi.

[5] Anche in Svezia, stato in cui è presente la monarchia, Il Sovrano ha un ruolo di natura sostanzialmente cerimoniale, pur essendogli attribuita la prerogativa dell’immunità penale e processuale, nonché la presidenza del Consiglio consultivo per gli affari esteri.

[6] L’ultima volta che ciò accadde fu con la Regina Anna nel 1708, che negò, mediante sanzione regia, l’invio dell’esercito in Scozia.

[7] Si assimila ad un’organizzazione intergovernativa di tutti quei paesi che in passato si riunivano sotto l’impero britannico e di cui il Commonwealth ne rappresenta uno sviluppo volontario. Oggi rappresenta un’importante rete di connessione economica e commerciale tra gli stati che ne fanno parte.

[8] Con il Regno di Giacomo I Stuart nasce il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.


Voto elettronico

Il voto elettronico: tra risorsa e pericolo per la democrazia

La democrazia nell’era digitale: il voto elettronico tra vantaggi di trasparenza e velocità e rischio della segretezza e della libertà. Quale futuro per le nostre elezioni?

 

Tornate elettorali e sistemi hi-tech: perchè ricorrere al voto elettronico

Le nuove tecnologie avanzate figlie dell’era globalizzata pervadono ormai ogni aspetto delle nostre vite, a cominciare dalle piccole abitudini quotidiane come la spesa o lo shopping, fino a fornire supporto indispensabile a grandi operazioni finanziarie ed economiche su scala globale. Se è vero come è vero che il giudizio positivo o negativo di uno strumento utilizzato si costruisce non solo sulle forme ma anche sui contenuti e sugli effetti che provoca, bisogna chiedersi cosa accade quando di queste nuove tecnologie voglia farsene uso nelle dinamiche di cittadinanza attiva, prima fra tutte quella dell’espressione del voto elettorale[1]. Quando si parla di voto elettronico ci si riferisce alla possibilità di esprimere il proprio suffragio, in senso lato in una competizione elettorale, ma non solo, attraverso l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche: schede interattive, smartphone, apposite postazioni collegate in rete.

Non solo è possibile recarsi al seggio ed esprimere le proprie preferenze senza barrare con il classico carboncino indelebile la scheda elettorale ma, utilizzando specifiche postazioni dotate di pc, si è arrivati a permettere l’espressione del voto per tramite di dispositivi elettronici informatici direttamente dalle proprie abitazioni o luoghi di lavoro o al seggio stesso, essendo sufficiente un’autenticazione digitale e un apparecchio computerizzato[2]. Si badi, il sistema delle elezioni elettroniche non coinvolge solo tornate elettorali di piccole realtà istituzionali, bensì anche quelle di grandi dimensioni ed importanza.

Siamo abituati ai voti elettronici delle assemblee legislative, come accade al Parlamento italiano, ma negli ultimi anni ad essi si pensa di affiancare dei veri e propri procedimenti elettronici di votazione per elezioni politiche ed amministrative.

 

Conoscere del “voting online”

Per iniziare a capire come funziona il voto elettronico si può far riferimento alle procedure di voto nelle istituzioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica italiana.

Infatti, quando ciascun parlamentare è chiamato ad esprimersi su una proposta di legge, un emendamento e persino sul voto di fiducia, è sufficiente che egli pigi sullo schermo una delle alternative previste (“si”, “no”, “astenuto”) dopo aver inserito una scheda per la propria autenticazione.

È dal 1971 che questo sistema integra le modalità di voto nella nostra assemblea legislativa, a seguito della manifestata esigenza non solo di velocizzare il conteggio dei voti ma anche di rendere le procedure il più possibile trasparenti e matematicamente esatte.

Al termine della votazione, un elenco contenente numero e nomi dei votanti (eccetto che si tratti di scrutinio segreto per il quale sono previste deroghe al normale funzionamento che si sta descrivendo), nonché preferenze espresse, si trasmette alla presidenza che dichiarerà i risultati ufficializzandoli.

È proprio a partire da questi tipi di utilizzazione del voto elettronico che nel corso degli anni si è pensato di estenderne la fruibilità anche nel caso di elezioni politiche e amministrative.

A tale progetto lavora da molto tempo il Ministero dell’Interno.

A partire da un progetto di sviluppo di origine europea, l’E-Poll, il Ministero si impegna nella realizzazione di attività volte ad aumentare la partecipazione dei cittadini agli appuntamenti elettorali, permettendo loro di votare anche senza recarsi direttamente ai classici seggi, ma tramite delle postazioni appositamente installate sul territorio.

A monte i vantaggi di questi sistemi sono molteplici e vanno oltre la questione del contrasto all’astensionismo, seppure essa sia di vitale importanza, a cominciare da ragioni di economicità dei costi, fino ad arrivare a quella dei tempi necessari per l’espletamento del conteggio dei voti espressi.

Le operazioni si qualificherebbero inoltre per un alto grado di trasparenza ed esattezza, venendo meno tutta la problematica dell’errore dei conteggi materiali delle preferenze, per quanto fisiologico fino a certi livelli alla votazione “cartacea” tradizionale esso possa essere, senza contare l’enorme contributo facilitativo nelle attività di revisione e controllo espletate dalle Corti d’Appello e dagli uffici elettorali, Ministero dell’Interno compreso.

Il sistema a cui si lavora non è ovviamente isolato ma va considerato sistematicamente assieme ad altri progetti per l’innovazione dei processi istituzionali: si pensi alla carta d’identità elettronica, con cui l’elettore potrà effettuare un rapido riconoscimento preventivo all’operazione di voto.

Si è ancora in fase di sperimentazione almeno per quanto riguarda l’Italia, dove si ambisce a realizzare un’informatizzazione completa e sicura del voto negli anni a venire.

 

Modelli di votazione elettronica

Parlando di votazione elettronica ci si riferisce ad un genere che comprende diversi tipi specifici di modalità di voto.

  1. Sistema di schede perforate

Sulla scheda l’elettore è chiamato ad applicare dei fori in corrispondenza della lista o candidato che preferisce. Al conteggio essa viene inserita in un lettore automatico che si preoccupa contemporaneamente del conteggio e della regolarità del voto.

  1. Voto via internet

L’elettore utilizza un dispositivo collegato ad internet dopo essersi autentificato mediante per lo più smartcard.

Entrato nella navigazione in rete, compila la scheda interattiva sullo schermo del dispositivo e conferma il voto, che verrà così trasmesso ad un server centrale.

  1. Sistema a scansione ottica

Con esso la scheda cartacea viene letta con lettore ottico di ultima generazione, in grado non solo di conteggiare ma anche di verificare la regolarità e la validità della preferenza espressa.

  1. Via telefono o smartphone

L’elettore riceve credenziali personali e segrete con cui accede tramite app o browser ad una piattaforma che simula il seggio elettorale e vota online.

Oppure accade che le preferenze si esprimano in forma anonima tramite appositi centralini telefonici attivati. Partecipazione molto semplice ma elevato rischio di voto doppio.

  1. Registrazione elettronica diretta

L’elettore utilizza un dispositivo elettronico, pc per la maggior parte, per votare con il “touch” su una scheda virtuale.

Compiuta l’operazione una copia virtuale si invia ad un server centrale, mentre un’altra cartacea si conserva in un contenitore posto sotto la macchina, dopo aver stampato la scheda automaticamente.

 

La sperimentazione italiana: cosa è stato fatto nella Provincia autonoma di Trento…

A partire dal progetto “ProVote”, la Provincia autonoma di Trento ha messo a disposizione delle 55 sezioni elettorali il sistema di voto elettronico per la realizzazione di una simulazione a tutti gli effetti.

Effettuato il canonico riconoscimento innanzi ai componenti del seggio, il Presidente abilita la macchina di voto: nella cabina, sullo schermo della macchina si proietta la scheda elettorale e con la tecnica touch si esprime il voto, comprese le possibilità della scheda bianca e nulla.

Confermato definitivamente la preferenza, il file si trasmette ad un’urna elettronica e contemporaneamente si manda in stampa una copia della sola scheda elettorale, esattamente come quella cartacea classica, che viene spedita in un’urna sigillata sotto il macchinario, disponibile per eventuali riconteggi o controlli del Presidente in sede di spoglio.

La garanzia del successo della procedura di voto si rinforza attraverso un’apparecchiatura, il gruppo di continuità UPS, che si attiva in caso di mancanza di corrente elettrica, permettendo all’elettore di proseguire indisturbato nelle operazioni di voto.

Ed ancora, per garantire l’anonimato al massimo, il pc che si usa per votare non è collegato a reti internet, così da evitare intromissioni o manipolazioni da server esterni al seggio.

La sperimentazione messa in atto a Trento rientra in quella più ampia riguardante l’esercizio dei nuovi diritti di cittadinanza attiva, specie quello di partecipazione attiva alla vita pubblica.

Più specificatamente, questa operazione si colloca nel piano di attuazione dell’articolo 84 della legge provinciale 2/2003 – Norme per l’elezione del Consiglio provinciale e del Presidente della Provincia[3], disposizione che non incide in nessun modo su sistemi elettorali o forme di governo provinciali, bensì solo sulla modalità fisica di esercizio del diritto al voto.

Realizzata per diverse elezioni, anche comunali dal 2005 al 2006, essa rappresenta una delle più complete e riuscite attività di sperimentazione del voto elettronico mai avvenuta in Italia, allo scopo di aumentare velocità, trasparenza e semplicità della procedura elettorale, obiettivi ovviamente unanimemente condivisi al livello nazionale e non solo.

La sperimentazione, da ultimo, aiuta non solo a mettere a punto un auspicabile svolgimento di vere e proprie elezioni legali, ma permette anche alla collettività di familiarizzare con i nuovi sistemi, arrivando alle elezioni future, dove il sistema del voto elettronico certamente potrebbe essere protagonista.

 

…e ad Avellino

Se questo è un esempio di come il voto elettronico si impiegherebbe per elezioni di tipo politico-amministrativo, sempre per l’Italia si può rintracciare un altro importante caso di voto elettronico, utilizzato però in occasione di referendum costituzionale: è il referendum del 7 ottobre 2001, città di Avellino[4].

La provincia campana è la prima in Europa a utilizzare il voto elettronico su pc.

In una delle sezioni della provincia, la n. 1, gli elettori sono chiamati su base volontaria ad esprimere le proprie preferenze anche mediante apparecchiatura elettronica; quindi, ciascuno si trova a votare due volte, avendo però solo il tradizionale voto cartaceo valore legale ai fini dei risultati referendari.

L’apparecchiatura deputata all’espressione del suffragio si installa anche nei locali del comune, così potendo il cittadino esprimersi anche senza recarsi al seggio tradizionalmente assegnatogli.

Prima che le urne fossero ufficialmente aperte, i cittadini selezionati sono chiamati al ritiro della tessera elettorale elettronica E-Poll, sulla quale sono stati registrati dati anagrafici e impronte digitali, utile al riconoscimento prioritario alle operazioni di voto.

Infatti, prima di votare l’elettore è chiamato a imprimere le impronte dell’indice della mano destra su apposito apparecchio-lettore, che garantisce il confronto tra quell’impronta appena apposta e quella registrata sulla tessera elettronica, velocizzando così la procedura di riconoscimento di solito svolta dagli operatori del seggio.

La preferenza così espressa viene criptata a garanzia dell’anonimato e inviata direttamente al server centrale del Ministero dell’Interno che, a chiusura delle urne, attiverà il conteggio informatizzato dei voti ricevuti.

Si è trattato di una così detta “sessione pilota”, destinata a ripetersi poi a Cremona ed anche all’estero nel comune francese di Merignac, con le stesse modalità.

Questo tipo di operazioni e sperimentazioni sono destinate ad aumentare per perfezionarsi, giungendo in un futuro non troppo prossimo a sostituire completamente le modalità fisiche di espressione dei suffragi elettorali.

 

Quale garanzia dei diritti costituzionali?

Come è ovvio, il tema dell’esercizio del voto coinvolge da un punto di vista giuridico la questione della tutela di alcuni diritti irrinunciabili.

Il voto è esso stesso un diritto e un dovere civico, citando la nostra Costituzione, e quindi non può non essere di primo rilievo un discorso circa la sua garanzia in quanto tale, estesa a tutti i suoi caratteri identitari.

Il voto è personale, eguale, libero e segreto[5], e tale deve necessariamente mantenersi anche laddove le modalità fisiche del suo esercizio si evolvessero nel tempo.

Non a caso si è cercato di porre attenzione lungo il nostro discorso al modo in cui specie la segretezza e la libertà del voto siano oggetto di continua valutazione da parte dei progetti europei e italiani attorno al voto elettronico, con la consapevolezza dei rischi di intromissione nei server da remoti, della strategia dei cyber attacchi e pilotaggi.

C’è da pensare anche all’effettività dell’esercizio del diritto di voto.

Vivendo nell’era digitale ci si aspetta che la quasi totalità della popolazione possa essere in grado di utilizzare un pc e una scheda elettorale virtuale, ma ciò non toglie che esiste una parte minoritaria forse della popolazione, italiana come europea, che con questi strumenti ha poca familiarità, sollevando così la necessità magari di lasciare inalterate per loro le operazioni materiali di voto, con scheda e matita.

I vantaggi in merito alla trasparenza e alla correttezza anche matematica dei calcoli elettorali impongono tuttavia un bilanciamento di interessi che non potrà ancor a lungo rimanere inascoltato o inapplicato[6].

Valutazione di interessi e valori contrapposti che non è detto si concluderà a tutto favore del voto elettronico, od almeno non ne risulterà una sua applicabilità in ogni tipo di competizione o appuntamento elettorale, ma forse solo per alcuni.

La diffusione della pandemia, tra l’altro, ha posto in risalto tutti i vantaggi possibili di una società digitalizzata, che affidandosi alle nuove tecnologie riesce a sopravvivere e mandare avanti settori essenziali della vita pubblica e privata, dallo smart working[7] alla DAD.

 

Il voto elettronico in Europa: qualche esempio

Tutto quanto detto non rappresenta nel complesso una materia puramente teorica, bensì una materia in crescendo, attraverso applicazioni rigorosamente pratiche, e da queste tuttavia si evince come ancora il sistema del voto elettronico non sia ad un buon livello di affidabilità e sviluppo.

Emblematico è il caso della Norvegia che ha sospeso definitivamente anche le sperimentazioni dell’e-voting dopo più di dieci anni di utilizzo, causa la scarsa affidabilità e tutela della trasparenza delle operazioni elettorali.

E analogamente hanno agito i Paesi Bassi.

Contrariamente altri ordinamenti, come quello tedesco o inglese, mantengono inalterato il sistema del voto elettronico per consultazioni minori, abbandonandole del tutto per quelle nazionali o regionali e locali più grandi e complesse. Tant’è che nel 2009 la corte costituzionale tedesca ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del voto elettronico[8] perché non garantisce che ogni fase del processo elettorale sia pubblica, al contrario di come accade con i classici seggi e schede elettorali.

La questione del voto elettronico rimane quindi notevolmente aperta, del pari a quello del futuro delle democrazie che devono aggiornarsi in qualche senso rispetto all’era digitale che ormai riguarda tutto e tutti.

Informazioni

[1] Sul punto: S. Rodotà, Tecnopolitica. Le democrazie e nuove tecnologie della comunicazione, Bari 2004

[2] Sul punto: P. Carlotto, Il voto elettronico nelle democrazie contemporanee, Padova 2015

[3] Sul punto: https://elezioni.provincia.tn.it/Sperimentazioni/Quadro-normativo/Riferimenti-normativi/Legge-provinciale-2-2003-Norme-per-l-elezione-del-Consiglio-provinciale-e-del-Presidente-delle-Provincia

[4] Sul punto: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/elezioni/app_notizia_17704.html

[5] Cost. it, art. 48: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.

Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

[6] Sul punto: http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/11/la-strategia-digitale-europea/

[7] Sul punto: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/16/lavoro-agile-quale-futuro-post-pandemia/

[8] Sul punto: https://blog.crvd.org/la-sentenza-della-corte-costituzionale-tedesca-sullincostituzionalita-del-voto-elettronico/


Servizi segreti italiani

I servizi segreti italiani: informazione e sicurezza nazionale

I servizi segreti italiani: struttura, organi e attività

 

Cosa s’intende per “servizi segreti italiani”?

Tradizionalmente, il complesso delle attività che rientrano sotto l’indicazione servizi segreti italiani[1] si definisce “intelligence”: attività e funzioni con cui uno Stato raccoglie e custodisce informazioni utili alla difesa delle istituzioni, imprese e cittadini in generale.

Per questo, il livello di professionalità e preparazione degli operatori di cui si serve l’organizzazione è specifico e documentato, operando con la massima riservatezza, tanto degli operatori medesimi che delle attività in concreto svolte.

Non manca ovviamente la collaborazione con le altre istituzioni dello stato, nonché con l’autorità giudiziaria nazionale e internazionale.

 

Cenni storici

L’Unità d’Italia

Con l’indicazione “sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica” ci si riferisce, appunto, a quel complesso di organi e autorità che si preoccupa di assicurare e raccogliere informazioni indispensabili alla sicurezza della Repubblica da minacce tanto interne quanto esterne.

Il suo è un percorso di sviluppo che comincia da molto lontano: si può addirittura far risalire agli “agentes in rebus” istituiti dall’imperatore Diocleziano, passando per i “rappresentanti in incognito” di Comuni e Ducati nel Medioevo.

Badando ad un’età più risalente, già alla fine dell’800, dopo l’unità nazionale, il regno provvede subito alla riorganizzazione dei differenziati sistemi di informazione e sicurezza dislocati su tutto il territorio, gerarchizzando le attività di monitoraggio sotto la supervisione e il controllo del Ministero degli Interni, dei Carabinieri dello Stato, dell’Esercito nonché del Corpo delle Guardie Doganali.

Tuttavia, il primo vero organo di informazione centralizzato e con compiti specifici, assimilabili a quelli odierni, viene istituito nel 1883: “Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore del Regio Esercito”, affidato al Colonnello Edoardo Driquet.

Già in questi tempi, il sistema soffre di continue riforme e rimodulazioni anche onomastiche: alla fine del XIX secolo, nasce l’”Ufficio Riservato del Ministero dell’interno”, realizzando un’organizzazione su “doppio binario” dell’intelligence italiana, militare per la sicurezza esterna e civile per la sicurezza interna.

Invece, nel 1900 si istituisce l’”Ufficio I del Corpo di Stato Maggiore dell’Esercito”, che diventa, con la Grande Guerra,” Servizio I del Comando Supremo”.

 

La Repubblica

Tale tendenza riformatrice si conferma per tutta la nostra storia monarchica, ma non si smentisce neanche con l’inaugurazione della stagione repubblicana: i servizi informativi si riuniscono nel SIFAR (Servizio Informazioni Forza Armate) alle dirette dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, cui fanno da supporto Sezioni informazioni operative e situazione (SIOS).

L’introduzione del SIFAR, quale vero e proprio sistema di servizio segreto, è una delle prime conseguenze dell’adesione dell’Italia alla NATO[2], dovendo assicurarsi una rete di contatti efficiente e riservata con l’intelligence degli USA.

Ognuna di queste riorganizzazioni attiene ad aspetti più tecnici organizzativi, che non strettamente per poteri o compiti: dalla rimodulazione gerarchica alla compressione-dilatazione della loro sovranità e discrezionalità tecnico-operativa, i servizi segreti sono destinati a riproporsi in vesti molto simili negli anni.

Finché non interviene una riforma organica e strutturale con la L. n. 801 del 1977[3] che istituisce il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (SISMI) e il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), rispettivamente alle dipendenze dei ministeri della Difesa e degli Interni.

Tuttavia, e qui la radicale innovazione, viene fissata la competenza del Presidente del Consiglio dei Ministri per la responsabilità politica degli organi e il coordinamento della politica informativa e di sicurezza svolta dai servizi segreti italiani stessi.

 

I servizi segreti oggi

L’ultimo intervento di riforma legislativa dei servizi segreti italiani avviene nel 2007: la L. n. 124 del 2007, intervento necessario dato nuovo contesto geopolitico nazionale e internazionale e delle nuove dinamiche economiche e tecnologiche.

Nasce così l’organizzazione “Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica”, che rappresenta tutt’ora l’insieme di organi e attività che si indicano, appunto, come servizi segreti.[4]

 

La strutturazione interna

La struttura interna dei servizi segreti italiani è molto complessa, per questo si preferisce adottare un metodo descrittivo più schematico che ne renda immediata la comprensione.

  • Dipende dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quest’ultimo provvede quindi a coordinare le politiche di informazione, emanare le disposizioni necessarie per il funzionamento del Sistema, adotta le iniziative necessarie a tutelarne gli operatori, delega i direttori interni a chiedere all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a svolgere particolari attività di indagine, appone, tutela e conferma l’introduzione del segreto di Stato, nomina e revoca il Direttore generale del DIS, dell’AISE e AISI[5], ne dispone le risorse finanziarie.

  • Le funzioni che non sono attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri in via esclusiva si possono delegare ad una specifica “autorità delegata[6]”, ministro senza portafoglio o sottosegretario di Stato che non eserciti altre funzioni nell’esecutivo.

Tra essi si fonda un rapporto di collaborazione e costante aggiornamento reciproco e monitoraggio.

L’autorità delegata entra a far parte del CISR

  • CISR: Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica, organismo di consulenza e deliberazione di obiettivi e indirizzi nell’ambito di attività di sicurezza e informazioni, nonché i suoi obiettivi in senso generale.

Ne sono membri: il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’autorità delegata e diversi Ministeri (Affari esteri, Difesa, Interno, Giustizia, Economia e Finanze e Sviluppo economico)

  • DIS: Dipartimento Informazioni e Sicurezza

È il dipartimento di cui si avvale il Presidente e l’autorità delegata per l’esercizio delle proprie funzioni e garantire unitarietà e coesione delle attività da svolgere.

Grazie all’intervento della L. n. 133/2012, ad oggi risultano tra i suoi compiti:

  • Coordinamento dell’intera attività di informazione, specie quella della sicurezza cibernetica
  • Raccoglie, elabora e trasmette i risultati delle attività degli altri dipartimenti al Presidente del Consiglio
  • Elabora analisi che sottopone al CISR
  • Gestisce approvvigionamenti dei dipartimenti inferiori
  • Elabora piani per l’acquisizione di risorse umane per i dipartimenti inferiori
  • AISI: Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, ricerca ed elabora informazioni utili alla difesa della Repubblica. La particolarità delle sue attività risiede nella competenza di indagine di ciò che accade all’esterno del territorio nazionale.
  • AISE: Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna, parallelamente svolge attività di spionaggio all’interno del territorio italiano, difendendolo anche da quello esterno di altri Paesi, contrastando minacce terroristiche e criminali.

 

Diventare un agente dei servizi segreti italiani

La L. n. 124/2007[7] istituisce la “Scuola di formazione del Sistema di informazione per la Sicurezza della Repubblica” per assicurare l’aggiornamento, la formazione e l’addestramento specialistico del personale già in servizio presso l’organizzazione.

Se da un lato quindi ci si preoccupa di tutelare e ampliare costantemente il livello di formazione e competenza dell’organico in servizio, interessante è capire come si entra a farne parte.

Ovviamente, l’accesso è regolato da bandi di concorso reperibili presso il sito istituzionale del governo, sebbene accanto ai concorsi spesso ci sono delle selezioni a posizioni aperte, in cui è sufficiente l’invio della propria candidatura.

Ciò non toglie tuttavia, che qualunque sia il modo di accesso alla selezione, i requisiti richiesti sono molto stringenti.

Si richiede una laurea in materie giuridiche, economiche o internazionali; non aver riportato condanne penali o civili; non fare uso di alcun tipo di sostanza stupefacente; conoscenze informatiche e linguistiche certificate; non essere stato politico, magistrato o giornalista, persona già in viso all’opinione pubblica o che, comunque, già in possesso di determinate informazioni a causa del suo lavoro.

Condizioni specifiche vanno fissate poi in baso al ruolo a cui si aspira.

Superati i primi step, comprensivi di analisi del curriculum, test psicoattitudinali, e colloqui di fronte ad esperti, si può passare a periodi di apprendistato, frequenza di corsi di alta formazione erogati dal governo.

La selezione è molto invasiva della propria vita privata: non basta un certificato di casellario giudiziario immacolato.

Le agenzie provvedono a verificare concretamente anche le abitudini personali, le proprie situazioni economiche, valutando l’esposizione a possibili corruzioni o cattive gestioni di risorse finanziarie, e, come è scontato, si svolge un’approfondita analisi dei profili psicologici, utili a verificare l’affidabilità e la serietà del candidato, che verrà chiamato nella maggior parte dei casi a nascondere le sue attività lavorative anche ai suoi affetti più cari.

Altro indice estremamente importante: la fisicità.

Si richiedono standard di capacità fisiche elevati e soprattutto da tenere sotto controllo continuo e verifica periodica.

 

Dalla teoria alla prassi: l’attentato di Addaura

Nella località palermitana indicata, il 21 giugno 1989, il giudice Giovanni Falcone risiede per le sue vacanze estive, quando viene sventato un primo attentato contro di lui, grazie all’intervento degli agenti segreti italiani.

Falcone si occupa della lotta alla criminalità organizzata con l’inchiesta “pizza connection”, riguardante riciclaggio di denaro sporco degli affiliati di “Cosa Nostra”.

La reazione dei mafiosi alle sue indagini è immediata: dentro un borsone sportivo “abbandonato” sulla spiaggia vicino alla villa di Addaura, dove il giudice sta per ricevere alcuni suoi colleghi magistrati, 58 ordigni esplosivi stanno per essere attivati, innescati da due detonatori.

L’attentato viene sventato e subito si aprono le indagini.

Diverse ipotesi circolano dopo poco tempo dall’accaduto, ma ciò che è certo, ora come all’epoca, è la mano organizzatrice ed esecutrice mafiosa.

Grazie alla confessione di un pentito coinvolto nell’attentato, si scopre che a disattivare l’esplosivo sono Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, agenti del SISDE, che proprio per aver fatto saltare l’operazione criminale, verranno assassinati.

La versione sembra essere smentita dai rilievi dei NAS sugli ordigni inesplosi, ma si sospetta altamente che le istituzioni non possano confermare l’effettivo coinvolgimento dei due agenti nell’operazione, per ragioni ovvie.

Informazioni

[1] Si invita a collegarsi al link indicato, per visitare la pagina web ufficiale dell’organizzazione, per navigare e scoprire ulteriori informazioni: https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/index.html

[2] Per approfondire il tema NATO, in relazione a nascita, evoluzione e sviluppi si rimanda a: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/07/futuro-nato-nuove-sfide-cambiamenti-necessari/

[3] Per consultare il testo legislativo: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1977/11/07/077U0801/sg

[4] Il tema si coordina strettamente a quello della “Sicurezza nazionale”, si veda a riguardo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/10/29/la-sicurezza-nazionale/

[5] Gli acronimi corrispondono ad organismi interni all’organizzazione: vedi infra

[6] Esattamente il Governo Draghi ha riproposto questa delega nella formazione del suo governo, dopo che la consuetudinaria delegazione era stata interrotta dal Governo Conte I, conferendola al Dott.re Gabrielli Franco, già prefetto di L’Aquila e Roma, e Direttore generale della Pubblica Sicurezza

[7] Consultabile presso il seguente link: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2007-08-13&atto.codiceRedazionale=007G0139&elenco30giorni=false


Reato di apologia del fascismo

Il reato di apologia del fascismo

La configurazione del reato di apologia del fascismo: tra accertamento del fatto e comminazione della pena

 

Che cos’è l’apologia del fascismo?

Per apologia del fascismo si intende quell’insieme di azioni e comportamenti diretti alla ricostruzione del partito fascista.

La legge[1] riconosce come tale “una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque, che persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia […]

La ricostruzione del partito fascista deve avvenire appunto per mezzo di un gruppo di almeno cinque persone, le quali propongono di sovvertire l’ordine democratico della Repubblica usando la violenza, minacciando le libertà e i principi fondamentali della stessa, lodando avvenimenti, figure e comportamenti propri del partito fascista.

Si prevede la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; ovvero la reclusione da sei mesi a quattro anni per chi incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

La comminazione di siffatte punizioni risulta ancora limitata e inefficace, specie perché i fatti contestati devono essere messi a confronto con la libertà di manifestazione del pensiero, diritto costituzionalmente tutelato ai sensi dell’art. 21 Cost.[2].

Sicché il giudizio finale, neanche troppo certo, spetta al giudice che analizza il caso concreto deliberando la commissione del fatto di reato o il sacrosanto esercizio di un diritto inviolabile.

 

Il quadro normativo

La legge Scelba e le sue vicende

Il reato di apologia del fascismo è introdotto per la prima volta con legge 20 giugno 1952, n. 645: la c.d. “legge Scelba” da Mario Scelba[3], primo firmatario della proposta.

Accanto allo scopo di punire la riorganizzazione del “disciolto partito fascista”, la legge sanziona ogni tipo di esaltazione di principi, metodi e fatti del fascismo, quindi chiunque tramite associazioni o partiti adotti tali comportamenti.

Sin da subito suscita non poche polemiche la sua approvazione, venendo poi accusata di incostituzionalità: la legge in questione violerebbe le libertà costituzionali di riunione e associazione, insieme a quella di manifestazione del proprio pensiero.

Illuminante e risolutivo diventa così l’intervento della Consulta[4] che definisce meglio il fatto che costituisce reato: apologia non è semplice difesa o elogio del fascismo e dei suoi ideali, bensì esaltazione convinta e capace di condurre ad una riorganizzazione effettiva del partito fascista, o sufficiente a indurre a commettere un fatto finalizzato alla riorganizzazione dello stesso.

 

La legge Mancino

La legge Mancino[5] si propone di dare attuazione allaConvenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale[6], aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.

Non solo, la nuova legge vuole ampliare l’ambito di applicazione e l’effettività già concreta della XII Disposizione transitoria e finale della nostra Costituzione[7], così da garantire, inoltre, il pieno rispetto delle nuove regole internazionali cui l’ordinamento giuridico italiano ha aderito per mezzo della Convenzione cui ci si è riferiti poco prima.

Per questo, la legge punisce la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale e etnico, ovvero chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro; quindi  con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Essa, perciò, si inserisce sistematicamente nell’ambito delle leggi contro il fascismo e la sua apologia, condannando innanzitutto azioni e gesti che, riconducibili all’ideologia fascista o nazista, incitano alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali o etnici, ma anche l’utilizzo di simboli legati ai movimenti stessi.

Il legislatore interviene così di nuovo sulla materia del fascismo specificando ancora una volta quali condotte sono riconducibili ad esso, punendole e tentando con maggiore sforzo di disincentivarle, tanta è la diffusione di comportamenti e movimenti pseudopolitici ispirati alle ideologie mussoliniane.

 

Il disegno di legge “Fiano”

Il disegno di legge “Fiano”[8], del 2017, ritorna sulla struttura del  reato di apologia del fascismo e sul suo carico sanzionatorio con l’intenzione di estendere la portata dell’art 293 bis del codice penale: con la reclusione da 6 mesi a 2 anni e con multa da 206 euro a 516 euro si vuole punire “Chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, […]anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità”.

La vendita dei santini del Duce o del Fuhrer, la ricerca di proseliti da parte di movimenti chiaramente ispirati alle ideologie violente e totalitarie proprie del fascismo, costituirebbero illecito e sarebbero quindi sanzionabili, con pena aumentata di un terzo ove il fatto si commettesse su internet.

Il legislatore sente la necessità di una modifica ritenendo le attuali discipline comunque troppo permissive, in particolare dopo il moltiplicarsi di episodi di violenza riconducibili al fascismo e ai suoi ideali da parte di movimenti e partiti di estrema destra.

La fine della legislatura e l’avvicinarsi dello scioglimento delle Camere impediscono al disegno di legge di diventare legge formale dello Stato, arenandosi alla fase di approvazione in Senato.

 

Il “saluto romano” a processo

L’avvicendarsi di leggi e di proposte di modifica non rendono oggi semplice capire con esattezza quando si commette reato di apologia del fascismo e quando invece no.

I tribunali sono spesso in disaccordo: tra condanne e assoluzioni la matassa non è tutt’ora sbrogliata. Per fornire qualche esempio concreto tratto dalla giurisprudenza:

  • Il tribunale di Varese, nel 2017, condanna un professore che scambia all’uscita di scuola un saluto romano con un suo alunno. Le motivazioni spiegano che “l’insita gravità” del gesto non può passare inosservata, specie nel caso in esame, dove è un insegnante, una figura cioè educativa, a utilizzarlo[9].
  • Il tribunale di Milano, nel 2019, assolve quattro uomini imputati per l’identico gesto, adducendo che, nonostante il chiaro richiamo alla simbologia fascista, esso non determina un serio e concreto pericolo di riorganizzazione del partito fascista[10].

 

Se si vuole rintracciare una conclusione, c’è da dire che il saluto romano in sé non è reato, salvo non sia incitamento all’odio e non racchiuda la volontà riorganizzativa incriminata.

 

Riflessioni conclusive per una materia ancora non definita

La nostra Costituzione si erge sulle macerie lasciate dal fascismo, sul dolore provocato dalla negazione di libertà e diritti e dall’asservimento a un capo carismatico, ma violento e malato di onnipotenza.

La figura di Mussolini suscita incredibilmente ancora oggi giudizi contrastanti: ai nostalgici sembra irrecuperabile quella disciplina e quell’ordine che solo il Duce riuscì a diffondere in Italia, oggi vessata sotto i colpi di una classe politica poco soddisfacente e poco attenta, a detta di molti, ai reali bisogni del popolo.

Il sentimento di lontananza dalle istituzioni e dalla politica si definisce come la “malattia del popolo italiano” ed ha certo origini antiche: è l’italiano che ne patisce obbiettivamente oppure è solo una naturale tendenza non effettivamente rispondente alla realtà dei fatti storici?

Manca l’ordine, manca un’organizzazione sociale prima ancora che politica, manca attivismo e dinamismo.

Sono queste le stesse ragioni che condussero l’Italia a vestirsi del fascio littorio: che si voglia di nuovo consegnare nelle mani di un leader dai poteri pieni ed assoluti come unica ancóra di salvezza?

Oggi c’è la Costituzione: l’immodificabilità della forma repubblicana, l’inviolabilità dei diritti umani sono uno scudo sicuro e forte contro tendenze simili, ma è necessario che si incentivi maggiore empatia del popolo stesso nei loro riguardi, perché sembra che se ne sia dimenticato.

Non è più credibile rinunciare ai propri diritti e alle proprie libertà essenziali in nome di una società gerarchizzata e perciò diritta, disciplinata e ordinata.

Non c’è apologia di fascismo nel desiderare più “certezze”, soprattutto politiche, la sfida resta nei modi, negli uomini e le donne che sapranno farsene carico, mai dimenticandosi di tenere fede assoluta nella Costituzione e in quell’antifascismo che la pervade tutta.

Informazioni

[1] Il riferimento è alla legge Scelba: L 20 giugno 1952, n. 645

[2] Per approfondire il tema della libertà di manifestazione del proprio pensiero come diritto costituzionalmente tutelato: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/08/art-21-cost-libera-manifestazione-pensiero/

[3] Mario Scelba è stato politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri e Presidente del Parlamento europeo. Agli anni della legge ricopriva il ruolo di Ministro dell’interno

[4] Le sentenze in questione sono: la Sent. n. 1/1957, e la Sent. n. 74/1958 della Corte costituzionale

[5] L. 25 giugno 1993, n. 205

[6] La Convenzione citata è consultabile al seguente link: http://www.integrazionemigranti.gov.it/normativa/protezioneinternazionale/normativa-internazionale/Documents/Convenzione_discriminazione_razziale.pdf

[7] Ai sensi della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana si dispone: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”

[8] Il testo del ddl in questione si può consultare presso: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/46053.htm

[9] Ci si riferisce alla Sent. n. 167/2017 del tribunale di Varese

[10]Ci si riferisce alla Sent. n. 2488/2019 del tribunale di Milano