Le denominazioni del vino
Quali sono le denominazioni del vino che permettono di tutelare i produttori e i consumatori di questa buonissima bevanda?
Introduzione
Prima di parlare delle denominazioni del vino è necessario fare una premessa. La normativa europea ed italiana su tutto quello che riguarda alimenti e bevande è per gran parte impostata per favorire la tutela della filiera agro-alimentare e dei consumatori finali. Coloro che producono devono essere tutelati per gli sforzi e gli investimenti apportati alla propria attività imprenditoriale; coloro che acquistano devono essere messi al corrente degli elementi quali-quantitativi di un prodotto, in modo da rendere più chiara e comprensibile la scelta di acquisto[1] (rimane scontata la certezza di non tossicità di un alimento o bevanda[2]).
Inoltre, da amante e studioso del vino, informo già da ora che tutte queste regole che andremo a descrivere non vogliono assolutamente indicare che una denominazione più restrittiva dell’altra indichi che un vino sia più buono dell’altro, perché questo dipende dagli sforzi coinvolti nella realizzazione e chiaramente, al gusto proprio di ognuno di noi.
La legge nel vino
Fino all’avvento della Comunità Europea, ogni nazione provvedeva ad un propria legislazione creando non poche problematiche. Una prima pietra comune si appose attraverso l’emanazione del Regolamento 1962/26/CEE[3] che impose, tra le altre cose, a tutti gli Stati membri di adottare un catasto dei vigneti e di individuare procedure per la dichiarazione di produzione dei vini.
Per adeguarsi al Regolamento, il nostro legislatore creò il DPR 930/1963[4] e successivamente, la L. 164/1992[5], che diedero vita alle denominazioni del vino. Successive norme si sono susseguite nel tempo fino ad arrivare ad oggi, con due norme tra di loro necessariamente legate soprattutto per il tema delle denominazioni del vino che stiamo trattando: il Regolamento Europeo 1308/2013[6] – Regolamento OCM e la L. 238/2016[7] – Testo Unico sul Vino.
Le denominazioni del vino
Il Regolamento 1308/2013[8], all’art. 93 individua le denominazioni del vino.
Indicazioni Geografiche (IG): l’indicazione che si riferisce a una regione, a un luogo determinato o, in casi eccezionali e debitamente giustificati, a un paese, che serve a designare un prodotto vitivinicolo, conforme ai seguenti requisiti:
- Possiede qualità, notorietà o altre peculiarità attribuibili a tale origine geografica;
- Le uve da cui è ottenuto provengono per almeno l’85 % esclusivamente da tale zona geografica;
- La produzione avviene in detta zona geografica;
- È ottenuto da varietà di viti appartenenti alla specie Vitis vinifera[9] o da un incrocio tra la specie Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis.
I vini provenienti da una IG che rispecchiano i disciplinari e abbiano superato tutti i controlli necessari ricadono nel marchio europeo IGP e possono essere etichettati, in Italia, come:
- Indicazione geografica tipica (IGT)
Denominazione di Origine (DO): il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali e debitamente giustificati, di un paese che serve a designare un prodotto vitivinicolo, conforme ai seguenti requisiti:
- La qualità e le caratteristiche del prodotto sono dovute essenzialmente o esclusivamente a un particolare ambiente geografico e ai suoi fattori naturali e umani;
- Le uve da cui è ottenuto il prodotto provengono esclusivamente da tale zona geografica;
- La produzione avviene in detta zona geografica
- Il prodotto è ottenuto da varietà di viti appartenenti alla specie Vitis vinifera;
I vini provenienti da una DO che rispecchiano i disciplinari e abbiano superato tutti i controlli necessari ricadono nel marchio europeo DOP e possono essere etichettati, in Italia, come:
- Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG)
- Denominazione di Origine Controllata (DOC)
La piramide qualitativa
L’art. 33 della L. 238/2016 individua i requisiti per il riconoscimento delle denominazioni del vino, secondo la piramide qualitativa, che qui spiegheremo capovolta:
Il riconoscimento dell’IGT è riservato ai vini provenienti dalla rispettiva zona viticola a condizione che la relativa richiesta sia rappresentativa di almeno il 20 %, inteso come media, dei viticoltori interessati e di almeno il 20 % della superficie totale dei vigneti oggetto di dichiarazione produttiva nell’ultimo biennio. Per i vini a IGT è consentito l’uso delle varietà iscritte nel registro nazionale delle varietà di vite[10].
Il riconoscimento della DOC[11] deve prevedere una disciplina viticola ed enologica più restrittiva rispetto a quella della IGT precedentemente rivendicata. Il riconoscimento è riservato ai vini provenienti da zone già riconosciute, anche con denominazione diversa, a IGT da almeno cinque anni e che siano stati rivendicati, nell’ultimo biennio, da almeno il 35 %, inteso come media, dei viticoltori interessati e che rappresentino almeno il 35 % della produzione dell’area interessata. Il riconoscimento in favore di vini non provenienti dalle predette zone è ammesso esclusivamente nell’ambito delle regioni nelle quali non sono presenti IGT. Inoltre, le zone espressamente delimitate o le sottozone delle DOC possono essere riconosciute come DOC autonome qualora le relative produzioni abbiano acquisito rinomanza commerciale e siano state rivendicate, nell’ultimo biennio, da almeno il 51 %, inteso come media, dei soggetti che conducono vigneti dichiarati allo schedario viticolo di cui all’articolo 8 e che rappresentino almeno il 51 % della superficie totale dichiarata allo schedario viticolo idonea alla rivendicazione della relativa area delimitata o sottozona.
Il riconoscimento della DOCG[12] deve prevedere una disciplina viticola ed enologica più restrittiva rispetto a quella della DOC di provenienza. Il riconoscimento è riservato ai vini già riconosciuti a DOC da almeno sette anni, che siano ritenuti di particolare pregio, per le caratteristiche qualitative intrinseche e per la rinomanza commerciale acquisita, e che siano stati rivendicati, nell’ultimo biennio, da almeno il 66 %, inteso come media, dei soggetti che conducono vigneti dichiarati allo schedario viticolo di cui all’articolo 8, che rappresentino almeno il 66 % della superficie totale dichiarata allo schedario viticolo idonea alla rivendicazione della relativa denominazione e che, negli ultimi cinque anni, siano stati certificati e imbottigliati dal 51 % degli operatori autorizzati, che rappresentino almeno il 66 % della produzione certificata di quella DOC.
La tutela di queste denominazioni del vino è affidata ai Consorzi di tutela[13].
Il procedimento di costituzione di una DO o IG
Il procedimento per ottenere le denominazioni del vino è disciplinata dagli articoli 96 e seguenti del Regolamento Europeo 1308/2013 e dal DM 7 novembre 2012[14] e si articola in due fasi:
- La prima riguarda la procedura preliminare nazionale, in sostanza un insieme di produttori associati predispone le richiesta e predispone le regole minime che deve rispettare il prodotto finale (il disciplinare) e lo propone alla Regione competente. Se l’istruttoria Regionale va a buon fine, la domanda è trasmessa al Ministero delle Politiche Agricole che effettua una fase istruttoria partecipata. In caso di esito positivo, avviene la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del modello di disciplinare.
- Decorsi 60 giorni dalla pubblicazione, se non ci sono impugnazioni, viene inoltrata la domanda alla Commissione Europea che valuta la conformità alle regole comunitarie e, in caso di esito positivo, inserisce la nuove denominazione nell’elenco[15] delle DO o IG.
Informazioni
Il Sommelier – FISAR, ed. 2020
[1] Si approfondisca con questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/22/il-diritto-al-cibo/
[2] Si approfondisca con questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/07/lautorita-europea-per-la-sicurezza-alimentare/
[3] Qui il testo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A31962R0026
[4] Qui il testo: https://www.tuttocamere.it/files/camcom/1963_930.pdf
[5] Qui il testo: https://www.tuttocamere.it/files/camcom/1992_164.pdf
[6] Qui il testo: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:347:0671:0854:IT:PDF
[7] Qui il testo: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/12/28/16G00251/sg
[8] Il regolamento ci indica anche tutta una serie di definizione che ruotano intorno al vino, nell’allegato II, parte IV
[9] La pianta del vino, la vite, è un arbusto rampicante. La Vitis vinifera è la specie in assoluto più importante per le caratteristiche qualitative dei suoi frutti.
[10] Qui il registro: http://catalogoviti.politicheagricole.it/catalogo.php
[11] I primi vini a cui fu assegnata la DOC furono, nel 1966, la Vernaccia di San Gimignano, l’Ischia, l’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone, il Frascati.
[12] I primi vini a cui fu assegnata la DOCG furono, nel 1980, il Brunello di Montalcino e Il Vino Nobile di Montepulciano.
[13] Qui l’elenco aggiornato al 1/10/2020: https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4923
[14] Qui il testo: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/11/24/12A12250/sg
[15] Qui l’elenco: https://ec.europa.eu/info/food-farming-fisheries/food-safety-and-quality/certification/quality-labels/geographical-indications-register/
Le comunità energetiche
La sostenibilità ambientale passa anche dal punto di vista sociale, come le comunità energetiche possono essere un esempio di sfruttamento energetico rinnovabile in comune?
Cosa sono le comunità energetiche
È notizia[1] di pochi giorni fa che il Ministro dello sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha firmato un decreto ministeriale che definisce la tariffa con cui si incentiva la promozione delle comunità energetiche da fonti rinnovabili, ma di che cosa si parla?
Per comunità energetiche da fonti rinnovabili si intende un’associazione di cittadini, di piccole e medie imprese e di attività commerciali, che condivide lo stesso impianto di produzione di energia rinnovabile. L’obiettivo delle comunità è di apportare benefici in termini ambientali, economici e sociali ai membri che la compongono e all’area in cui essi operano. Questa entità è considerata un soggetto giuridico ed è stato introdotto dalla Direttiva europea RED II del 2018[2], aprendo la strada a un nuovo scenario energetico in Italia, soprattutto in ottica di sostenibilità ambientale e di economia circolare[3].
Il quadro Europeo
L’articolo 22 della Direttiva Red II, sopracitata, si occupa di delineare le comunità energetiche indicando quali devono essere i diritti dei clienti finali, soprattutto domestici, e i doveri degli Stati membri:
Gli Stati membri assicurano che i clienti finali abbiano il diritto di partecipare a comunità di energia rinnovabile, mantenendo al contempo i loro diritti o doveri in qualità di clienti finali e senza essere soggetti a condizioni o procedure ingiustificate o discriminatorie che ne impedirebbero la partecipazione a una comunità di energia rinnovabile, a condizione che, per quanto riguarda le imprese private, la loro partecipazione non costituisca l’attività commerciale o professionale principale.
Gli Stati membri assicurano che le comunità energetiche abbiano il diritto di:
- Produrre, consumare, immagazzinare e vendere l’energia rinnovabile, anche tramite accordi di compravendita di energia elettrica rinnovabile;
- Scambiare, all’interno della stessa comunità, l’energia rinnovabile prodotta dalle unità di produzione detenute da tale comunità produttrice/consumatrice di energia rinnovabile, fatti salvi gli altri requisiti di cui al presente articolo e il mantenimento dei diritti e degli obblighi dei membri della comunità produttrice/consumatrice di energia rinnovabile come clienti;
- Accedere a tutti i mercati dell’energia elettrica appropriati, direttamente o mediante aggregazione, in modo non discriminatorio.
Insieme a questi diritti sono poi presenti delle indicazioni volte a fornire il corretto sostegno per agevolare lo sviluppo di queste comunità energetiche, ecco alcune indicazioni:
- Si cerchi di eliminare gli ostacoli normativi e amministrativi ingiustificati per le comunità energetiche;
- Si permetta alle comunità energetiche che forniscono energia o servizi di aggregazione, o altri servizi energetici commerciali, di essere soggette alle disposizioni applicabili a tali attività;
- Che il gestore del sistema di distribuzione competente cooperi con le comunità di energia rinnovabile per facilitare i trasferimenti di energia all’interno delle comunità di energia rinnovabile;
- Che la partecipazione alle comunità di energia rinnovabile sia aperta a tutti i consumatori, compresi quelli appartenenti a famiglie a basso reddito o vulnerabili;
- Siano disponibili strumenti per facilitare l’accesso ai finanziamenti e alle informazioni.
Il quadro italiano
La direttiva RED II dovrà essere recepita entro il 30 giugno 2021 e la legge di delegazione europea del 2019[4] affida, tramite l’articolo 5, al Governo il compito di emanare un apposito atto di legge secondo determinati criteri.
Ciononostante, le comunità energetiche possono essere create in Italia. Queste infatti sono disciplinate da tre atti normativi, il primo è il Decreto Milleproroghe, il secondo è una delibera dell’ARERA, il terzo è il decreto ministeriale firmato, ma ancora non pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Il Decreto Legge 162/2019[5], convertito in L. 20/2020, prevede all’articolo 42-bis che nelle more del completo recepimento della direttiva (UE) 2018/2001 è consentito attivare l’autoconsumo collettivo da fonti rinnovabili ovvero realizzare comunità energetiche rinnovabili secondo le modalità e alle condizioni stabilite dal presente articolo. Quali sono le principali caratteristiche che devono avere le comunità energetiche?
- Gli impianti di produzione dell’energia rinnovabile devono avere potenza inferiore ai 200 kW;
- Gli impianti di produzione dell’energia rinnovabile devono essere entrati in esercizio dopo il 1 marzo 2020 (entrata in vigore della conversione in legge del Decreto Milleproroghe);
- La condivisione dell’energia avviene attraverso la rete elettrica esistente (con il pagamento degli oneri di sistema);
- L’impianto deve essere connesso alla rete elettrica a bassa tensione, attraverso la medesima cabina di trasformazione MT/BT;
- L’energia prodotta deve essere destinata all’autoconsumo, deve cioè essere consumata nelle immediate vicinanze dell’impianto;
- Gli autoconsumatori di energia rinnovabile devono trovarsi nello stesso edificio, nello stesso stabile, o condominio
- Le parti devono regolare il loro rapporto tramite un contratto di diritto privato mantenendo i loro diritti di cliente finale, compreso quello di scegliere il proprio venditore e potendo recedere in ogni momento dalla configurazione di autoconsumo, fermi restando eventuali corrispettivi concordati in caso di recesso anticipato per la compartecipazione agli investimenti sostenuti, che devono comunque risultare equi e proporzionati.
Si evidenzia che la norma non specifica quale sia la fonte di energia rinnovabile alla base della comunità energetica.
La Delibera[6] dell’ARERA[7] invece riporta le disposizioni dell’Autorità in materia di regolazione delle partite economiche relative all’energia elettrica oggetto di autoconsumo collettivo o di condivisione nell’ambito di comunità energetiche, in attuazione di quanto stabilito dal DL 162/2019.
La Delibera prevede un modello regolatorio virtuale che consente di riconoscere sul piano economico i benefici derivanti dal consumo locale dell’energia elettrica prodotta. In questo modello è previsto che il GSE[8] erogando il servizio di energia condivisa, restituisca alcuni importi forfettari con riferimento alla quantità di energia elettrica condivisa relativa all’insieme della comunità energetica. L’obiettivo è quello di valorizzare l’energia elettrica condivisa, tenendo conto di una stima della riduzione dei costi imputabile all’autoconsumo.
Il Decreto del MISE
Come abbiamo detto in apertura, è stato firmato un decreto dal Ministro dello sviluppo economico che definisce la tariffa con cui si incentiva la promozione dell’autoconsumo collettivo e le comunità energetiche da fonti rinnovabili. Tale atto, che nel momento in cui si scrive non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, rende pienamente operativa la misura introdotta dal Decreto Milleproroghe.
La tariffa per l’energia autoconsumata per le comunità energetiche sarà pari rispettivamente a 110 €/MWh. L’incentivo, riconosciuto per un periodo di 20 anni e gestito dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE), è cumulabile con il Superbonus al 110% nei limiti previsti dalla legge e punta a trasformare l’attuale sistema elettrico centralizzato, alimentato da combustibili fossili, in un sistema decentrato ed efficiente, alimentato con energie pulite, inesauribili e non inquinanti.
Informazioni
[1] https://www.mise.gov.it/index.php/it/per-i-media/notizie/2041436-energia-al-via-incentivo-per-l-autoconsumo-e-le-comunita-energetiche-da-fonti-rinnovabili
[2] Qui il testo della Direttiva RED II
[3] Si approfondisca una delle misure più importanti in tema di economia circolare: Il pacchetto UE sull’economia circolare, di Federica Della Monica.
[4] Qui il testo del Disegno della Legge di Delegazione Europea 2019
[5] Qui il testo del DL 162/2019
[6] Qui il testo della Delibera del 04 agosto 2020 n. 318/2020/R/eel
[7] L’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) svolge attività di regolazione e controllo nei settori dell’energia elettrica, del gas naturale, dei servizi idrici, del ciclo dei rifiuti e del telecalore. Istituita con la legge n. 481 del 1995, è un’autorità amministrativa indipendente che opera per garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nei servizi di pubblica utilità e tutelare gli interessi di utenti e consumatori. Funzioni svolte armonizzando gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti i servizi con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse.
[8] Il GSE è Gestore dei servizi energetici (GSE S.p.A.) è una società per azioni italiana, interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle finanze, alla quale sono attribuiti numerosi incarichi di natura pubblicistica nel settore energetico.
Il Mobility Manager
È il 1998 e con un decreto ministeriale viene introdotta la figura del responsabile della mobilità aziendale (Mobility Manager), nel 2003 e poi nel 2015 due piccole riforme ed oggi, con le intenzioni della conversione del Decreto Legge Rilancio, si vuole rafforzarla, ma chi è?
Il Decreto 27 marzo 1998
Il Decreto ministeriale che ha introdotto il Mobility Manager è stato intitolato “Mobilità sostenibile nelle aree urbane”, il nome non è chiaramente un caso perché aveva ed ha l’effettivo obiettivo di apportare un miglioramento della qualità dell’aria[1] in determinati agglomerati urbani ad alto tasso di inquinamento. L’atto ministeriale non solo dedica spazio al Mobility Manager che tra poco definiremo, ma impone obblighi ai sindaci dei comuni dell’allegato III del decreto del Ministro dell’ambiente del 25 novembre 1994[2], e a tutti gli altri comuni compresi nelle zone a rischio di inquinamento atmosferico individuate dalle regioni ai sensi degli articoli 3 e 9 dei decreti del Ministro dell’ambiente del 20 maggio 1991[3].
Il Responsabile della Mobilità aziendale
Il Responsabile della Mobilità aziendale o Mobility Manager è descritto e formalizzato all’articolo 3 del DM 27 marzo 1998:
“Le imprese e gli enti pubblici con singole unità locali con più di 300 dipendenti e le imprese complessivamente più di 800 addetti ubicate nei comuni previsti nell’allegato III del DM del 25 novembre 1994 adottano il piano degli spostamenti casa-lavoro del proprio personale dipendente, individuando a tal fine un responsabile della mobilità aziendale. […] Le imprese e gli enti con singole unità locali con meno di 300 dipendenti possono individuare i responsabili della mobilità aziendale ed usufruire della struttura di supporto.”
Da queste poche righe possiamo capire che l’essenza del Mobility Manager è insita nella creazione e gestione di un piano degli spostamenti casa-lavoro (PSCL), pertanto questa figura ha un obiettivo e cioè quello di permettere, tramite il PSCL, la riduzione dell’utilizzo dei mezzi di trasporto privati individuali, favorendo l’uso del trasporto pubblico locale e di conseguenza decongestionare le città dal traffico e migliorare la qualità dell’aria.
Il Mobility Manager di area
Con Il Decreto Ministeriale 20 dicembre 2000[4] si è inteso ancora maggiormente promuovere la realizzazione d’interventi di organizzazione e gestione della domanda di mobilità, delle persone e delle merci, al fine di avere una riduzione strutturale e permanente dell’impatto ambientale derivante dal traffico nelle aree urbane e metropolitane, tramite l’attuazione di politiche radicali di mobilità sostenibile. È stato introdotto il Mobility Manager di area, che deve essere nominato sempre nelle città in cui sono presenti aziende in cui è obbligatorio nominare un responsabile della mobilità aziendale.
Il Mobility Manager di Area ha delle determinate funzioni:
- Supportare e coordinare i responsabili della mobilità aziendale;
- Promuovere azioni di divulgazione, formazione e di indirizzo presso le aziende e gli enti interessati ai sensi del decreto;
- Assistere le aziende nella redazione dei PSCL (Piani degli spostamenti casa lavoro);
- Favorire l’integrazione tra i PSCL e le politiche dell’amministrazione comunale in una logica di rete e di interconnessione modale;
- Verificare soluzioni, con il supporto delle aziende che gestiscono i servizi di trasporto locale, su gomma e su ferro, per il miglioramento dei servizi e l’integrazione degli stessi, con sistemi di trasporto complementari ed innovativi, per garantire l’intermodalità e l’interscambio, e l’utilizzo anche della bicicletta e/o di servizi di noleggio di veicoli elettrici e/o a basso impatto ambientale;
- Favorire la diffusione e sperimentazione di servizi di taxi collettivo, di car-pooling e di car-sharing;
- Fornire supporto tecnico per la definizione dei criteri e delle modalità per l’erogazione di contributi e incentivi diretti ai progetti di mobilità sostenibile; promuovere la diffusione di sistemi e mezzi di trasporto a basso impatto ambientale;
- Monitorare gli effetti delle misure attuate in termini di impatto ambientale e decongestione del traffico veicolare.
Il Mobility Manager scolastico
Con la legge 221[5] del 28 dicembre 2015 è stato poi prevista la figura del Mobility Manager scolastico. Questo responsabile è scelto su base volontaria e senza riduzione del carico didattico, in coerenza con il piano dell’offerta formativa, con l’ordinamento scolastico e tenuto conto dell’organizzazione didattica esistente. Ha sostanzialmente gli stessi compiti del Mobility Manager aziendale, ma chiaramente con riferimento al personale scolastico e agli alunni.
Un cenno al futuro con la conversione del Decreto Legge Rilancio
Da quanto è possibile apprendere dalle bozze di conversione del Decreto Legge n. 34/2020, vi è l’intento di modificare i criteri che prevedono l’obbligo di redigere i piani di spostamento casa-lavoro, generando così l’obbligo di maggiori Mobility Manager.
Con l’entrata in vigore della legge di conversione, le imprese con singole unità locali con più di 100 dipendenti ubicate in un capoluogo di Regione, in una Città metropolitana, in un capoluogo di Provincia ovvero in un Comune con popolazione superiore a 50.000 abitanti sono tenute ad adottare, entro il 31 dicembre di ogni anno, un piano degli spostamenti casa-lavoro del proprio personale dipendente finalizzato alla riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale, al fine di favorire il decongestionamento del traffico nelle aree urbane mediante la riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale.
Le imprese coinvolte nominano un Mobility Manager con funzioni di supporto professionale continuativo alle attività di decisione, pianificazione, programmazione, gestione e promozione di soluzioni ottimali di mobilità sostenibile. Il Mobility Manager promuove, anche collaborando all’adozione del piano di mobilità sostenibile, la realizzazione di interventi di organizzazione e gestione della domanda di mobilità, delle persone, al fine di consentire la riduzione strutturale e permanente dell’impatto ambientale derivante dal traffico veicolare nelle aree urbane e metropolitane, tramite l’attuazione di interventi di mobilità sostenibile.
Questa modifica non cambia di tanto le carte in gioco, se non quella di portare avanti una politica ambientale dedicata all’abbattimento dell’inquinamento atmosferico, di pari passo alla politica europea del Green Deal[6]. Rimane comunque un nodo cruciale sul tema, che è sin dal 1998 lasciata (volutamente?) nascosta, ossia l’assenza di sanzioni tanto della redazione del PSCL che della nomina di questa figura.
Tale mancanza sminuisce pertanto una figura che nonostante abbia un ruolo ben definito e con finalità ammirevoli, lascia comunque incertezza e amaro in bocca.
Informazioni
[1] L’impatto sulla qualità dell’aria può essere intaccato anche da altre fonti, come gli F-gas. Ne ho parlato in questo articolo http://www.dirittoconsenso.it/2018/10/29/f-gas-e-global-warming-potential/
[2] Torino, Genova, Brescia, Milano, Padova, Venezia, Verona, Trieste, Bologna, Parma, Firenze, Livorno, Roma, Napoli, Bari, Foggia, Taranto, Reggio Calabria, Catania, Messina, Palermo, Siracusa, Cagliari.
[3] Il decreto si occupa di disciplinare I criteri per l’elaborazione dei piani regionali per il risanamento e la tutela della qualità dell’aria.
[4] Qui il testo del DM 20 dicembre 2000
[5] Qui il testo della L. 221/2015
[6] Francesca Scaini ha parlato di Green Deal in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/25/green-deal-europeo-europa-sostenibile-entro-2050/
Il disastro ambientale
Cosa succede quando l’ecosistema viene intaccato da un’attività antropica che determina un disastro ambientale? È presente una disciplina sanzionatoria?
Le caratteristiche del disastro ambientale
Un disastro ambientale è un fenomeno che, nel momento in cui si manifesta, apporta un determinante contributo sull’ambiente. Alcune volte il disastro ambientale, può anche configurarsi come catastrofico poiché può intaccare una rilevante quantità di territorio interessato, oppure influenza una notevole quantità di esseri viventi causando effetti negativi sugli stessi. Un disastro ambientale si verifica generalmente a causa dell’azione diretta dell’uomo o di altre specie animali (evento quest’ultimo molto raro).
Non si deve confondere il disastro ambientale con i disastri naturali o calamità naturali[1]. La differenza è che per calamità naturale si intende ogni fatto catastrofico, ragionevolmente imprevedibile, conseguente a eventi determinanti e a fattori predisponenti tutti di ordine naturale, e a loro volta ragionevolmente imprevedibili; il disastro ambientale invece non deriva da fattori naturali. Ciononostante, alcuni disastri naturali o calamità naturali ricevono un effetto di amplificazione a causa delle attività dell’essere umano, sfumando facilmente il confine tra le due categorie. Ad esempio, la deforestazione incontrollata di una zona collinare può trasformare un nubifragio in una frana, che senza l’intervento dell’uomo sarebbe classificato un disastro naturale.
Alcuni esempi
La lista dei disastri ambientali è veramente lunga, ma è doveroso fare un elenco di quelli che ritengo maggiormente significativi, accaduti in Europa ed Italia, per poter comprendere quanto diremo dopo in merito alla normativa vigente in tema di disastro ambientale. Alcuni di questi esempi non solo hanno intaccato l’ecosistema ambientale, ma hanno avuto ricadute sulla salute di cittadini e lavoratori.
- 1907 – Amianto[2] – Italia, a Casale Monferrato inizia la produzione di fibrocemento Eternit, da parte dell’omonima ditta svizzera. Le lavorazioni porteranno a molti morti (principalmente per mesotelioma) tra i lavoratori, i loro familiari e i residenti nei pressi dello stabilimento, accertate nel solo decennio relativo alla chiusura della linea di produzione. L’attività procederà fino al 1986. Le vittime saranno oltre 2000 e continueranno ad aumentare nei prossimi anni.
- 1932 – Policlorobifenili (PCB)[3] – Italia – Brescia, presso lo stabilimento chimico Caffaro, acquisito dalla Monsanto, inizia la produzione di PCB, causando gravissimi problemi d’inquinamento ambientale e gravi malattie tra lavoratori e residenti nei dintorni. La produzione continuò fino al 1983, quando i PCB furono vietati in Italia.
- 1963 – Disastro del Vajont – Il disastro del Vajont è strettamente collegabile allo sfruttamento delle risorse idriche del territorio montano Italiano. L’evento ha coinvolto il bacino idroelettrico artificiale del Vajont: gran parte del pendio soprastante l’invaso, denominato Monte Toc, è franato nelle acque del bacino lacustre, provocando una tracimazione dell’acqua e il conseguente dilavamento delle sponde del lago che hanno superato la diga ricadendo nel fondovalle.
- 1964 – Diossine – Italia – Taranto – Entra in funzione il primo altoforno dello stabilimento siderurgico costruito dall’Italsider (oggi Arcelormittal, ex ILVA), dal quale fuoriuscirà una quantità di diossine considerevole; questo provocò e provoca tuttora, oltre che innumerevoli casi tumorali nella città, l’avvelenamento del bestiame e delle cozze, provocando la rovina degli allevatori e dei mitilicoltori.
- 1986 – Černobyl’ (Ucraina) – Incidente al reattore nucleare – 30 morti, 135.000 evacuati nel raggio di 40 km, enorme il numero di contaminati del disastro di Černobyl’, ne stiamo ancora pagando le conseguenze, la zona intorno la centrale non è infatti ancora abitabile.
- 1994 – Rifiuti – Italia – Campania. Inizia a manifestarsi la crisi dei rifiuti in Campania, che da allora si è ripetuta periodicamente ed è tuttora parzialmente irrisolta. Gravi problemi d’inquinamento di suolo, falde acquifere e aria. Pesante coinvolgimento della camorra nelle attività di smaltimento dei rifiuti.
- 2009 – Rifiuti tossici e radioattivi – Italia – Calabria. Viene scoperto il Relitto di Cetraro, una nave affondata nel Mar Tirreno dalla ‘ndrangheta[4] carica di rifiuti tossici e radioattivi.
Il disastro ambientale nella normativa italiana
La normativa prima della L. 68/2015
Prima dell’introduzione della L. 68/2015 non esisteva nel nostro ordinamento un precetto che potesse direttamente tutelare il bene “Ambiente”. Ciononostante, al fine di trovare uno stratagemma, la giurisprudenza aveva posto il delitto di “disastro innominato”, previsto all’art. 434, comma 2, c.p., a presidio dei fatti più gravi di inquinamento ambientale che non rientravano nell’elenco dei disastri previsti dallo stesso articolo 434 c.p.[5]
I Giudici della Corte Costituzionale[6] avevano estrapolato una definizione di disastro innominato, riconoscendolo come un vero e proprio evento distruttivo in grado di produrre effetti dannosi gravi e costituente un pericolo per la vita e l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, bene giuridico tutelato dalla norma, inoltre avevano auspicato alla tipizzazione di un reato che prevedesse l’ambiente come bene da tutelare. In sostanza, fino alla futura riforma, la giurisprudenza faceva ricorso a questo delitto per contrastare i fenomeni di inquinamento ambientale e di devastazione degli ecosistemi.
La L. 68 /2015
La legge 22 maggio 2015, n. 68, ha introdotto una riforma di ampio respiro del diritto penale dell’ambiente, che ha apportato significative modifiche tanto al codice penale, che al D.Lgs. 152/2006 (Testo unico sull’ambiente). Fino all’introduzione di questa Legge, l’articolo 434 c.p. e le contravvenzioni previste dal D.Lgs. 152/2006 cercavano di sostituirsi al fine di punire un disastro ambientale.
La riforma è stata necessaria al fine dell’adeguamento dell’ordinamento italiano alla normativa europea in materia di ambiente, ed in particolare alla direttiva 2008/99/CE[7], che aveva strutturato l’apparato sanzionatorio non su illeciti di pericolo astratto – come la legislazione italiana ante riforma – bensì su fattispecie causali di danno o di pericolo concreto.
La legge ha, sostanzialmente, introdotto il Titolo VI bis, nel Libro II, dedicato ai Delitti contro l’ambiente, che introduce cinque figure delittuose:
- L’inquinamento ambientale (art. 452 bis, aggravato ai sensi del successivo articolo quando dall’inquinamento siano derivate morte o lesioni);
- Il disastro ambientale (art. 452 quater), punibile anche a titolo di colpa (art. 452 quinquies);
- Il traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452 sexies);
- L’impedimento del controllo (art. 452 septies);
- L’omessa bonifica (art. 452 terdecies).
Vengono introdotte due nuove circostanze aggravanti, l’art. 452-octies relativa ai reati associativi di cui agli artt. 416 e 416 bis, l’art. 452-novies relativa all’aggravante ambientale di carattere comune, applicabile quando un fatto previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti previsti nel titolo; l’art. 452-decies contiene una disposizione premiale applicabile ai delitti in esame nei casi di ravvedimento operoso; l’art. 452-undecies introduce una nuova ipotesi di confisca obbligatoria e per equivalente; e, infine, l’art. 452-duodecies disciplina la misura riparatoria, applicabile in tutte le ipotesi di condanna o patteggiamento per uno dei delitti in esame, del ripristino allo stato dei luoghi.
Il disastro ambientale – Art. 452 quater c.p.
Il delitto di disastro ambientale è disciplinato dall’art. 452-quater c.p. il quale prevede che:
«Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata».
Come è possibile desumere dalla lettura, il reato è punibile indipendentemente dalla lesione o messa in pericolo della vita umana, basandosi sulla componente ambientale in un’ottica del tutto eco-centrica della tutela stessa. Il reato tipizza il disastro ambientale con la perpetrazione di determinati comportamenti a dolo generico contraddistinti da: alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; un’alterazione dell’ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; offesa alla pubblica incolumità per via della diffusività del danno ambientale e della messa in pericolo di un numero indeterminato di persone. È chiaramente specificato che queste fattispecie sono alternative e soprattutto condotte abusivamente[8].
Conclusioni
Non poche discussioni sono nate con l’introduzione di questo articolo, soprattutto a causa del rapporto con l’articolo 434 c.p. Ci si è chiesto, infatti, se il passaggio della protezione dell’incolumità pubblica a quella della tutela ambientale, e più specifica, portasse all’abrogazione del disastro innominato, o quale fosse l’utilità della clausola di riserva posta all’inizio dell’art. 452-quater “Fuori dai casi previsti dall’art. 434”.
Al di là delle svariate pronunce che qui non citerò, la realtà è che le due fattispecie continuano a coesistere. La ragione principale che non ha portato all’abrogazione dell’art. 434 è stata quella di scongiurare qualsivoglia forma di interferenza della nuova previsione con i processi già pendenti che dovranno essere risolti alla luce della normativa vigente al momento in cui il fatto è stato commesso. Pertanto si rimanda ai giudici il compito di capire quale sia il bene giuridicamente da tutelare in fase decisoria.
Informazioni
Diritto dell’ambiente, G. Rossi, Giappichelli, 2018.
V. Solenne, Il delitto di disastro ambientale, art. 452-quater c.p., in Pandslegal.it
I “disastri ambientali”: la cassazione al crocevia tra clausola di salvaguardia, fenomeno successorio e concorso apparente di norme di Matteo Riccardi, in Diritto Penale Contemporaneo.
[1] Per approfondire sul tema delle calamità naturali: http://www.treccani.it/enciclopedia/calamita-naturali_(Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica)/
[2] Ho parlato di Amianto in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2018/07/02/amianto-inquadramento-generale/
[3] I policlorobifenili (PCB) sono una famiglia di 209 composti aromatici costituiti da molecole di bifenile variamente clorurate: sono molecole sintetizzate a partire dall’inizio del secolo scorso (dalla Monsanto) e prodotte commercialmente fin dal 1930.
[4] Per approfondire, Lorenzo Venezia ha parlato di organizzazioni mafiose in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2018/06/07/l-articolo-416-bis-del-codice-penale-italiano/
[5] Questo il testo dell’art. 434 c.p.: Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene
[6] Sentenza n. 327 del 2008
[7] Qui il testo della Direttiva: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32008L0099&from=EN
[8] Sul tema dell’abusività si approfondisca con la Sentenza Cassazione del 18 giugno 2018 n. 29901
Il Legal Design: la semplificazione del mondo legale
Il Legal Design può essere il punto di svolta per rendere meno pesante il ruolo del diritto che circonda le persone comuni, che hanno bisogno di tutto tranne che di pagine incomprensibili da leggere. Ecco come, lentamente, i professionisti del diritto stanno modificando il loro modo di lavorare
Perché serve un approccio diverso?
L’utilizzo del Legal Design ha un obiettivo: riuscire a soddisfare le esigenze di un consumatore finale in maniera completa, efficace e soprattutto comprensibile. Quante volte ci siamo ritrovati davanti polizze assicurative, contratti, informative privacy composte da diverse pagine e preparate con un approccio estremamente legale? Fatto questo pensiero, quante volte abbiamo direttamente firmato l’ultima pagina? Pensateci.
Le persone che hanno creato il Legal Design, probabilmente, si sono poste queste domande (e tante altre) perché l’impostazione che tutt’ora abbiamo si attua secondo il metodo “giudice-centrico”, ossia quel meccanismo in cui un ente o un professionista cerca di rendersi insormontabile nel momento in cui il consumatore finale, che ha firmato direttamente l’ultima pagina, solleva dubbi davanti ad un giudice.
La nuova impostazione sarebbe quella della “human-centric”, cioè indirizzata alla persona con cui ci interfacciamo, strategicamente basata sui pilastri della:
- comunicazione,
- trasparenza,
- coinvolgimento.
E quattro con quattro obiettivi: comprendere, semplificare, collegare e immaginare il territorio legale.
Le qualità del Legal Design
Il ruolo di Margaret Hagan
Il mondo del Legal Design è composto da persone di alto spessore che hanno coniato un codice di condotta per alimentare la diffusione migliorata di informazioni, prima tra tutte è Margaret Hagan, ispiratrice del Legal design Lab della Stanford Law school[1].
Secondo il suo punto di vista, il visual design può migliorare la comunicazione legale con i propri clienti o stakeholder. Questa comunicazione, oltre ad avere un valore legale ed onesto, dovrà essere anche “user friendly”. Per iniziare propone di seguire tre step[2]:
- Individuare un messaggio chiaro che può essere utile e interessare il proprio referente;
- Provare ad utilizzare qualche immagine, insieme e testi semplici, per far arrivare il tuo messaggio al proprio interlocutore;
- Proporre una domanda o invitare ad una azione il proprio interlocutore.
Il Proactive Law
Un altro esempio di Legal Design è quello fornito dal team finlandese[3] guidato dall’avvocato Helena Haapio, a cui si deve il concetto di “Proactive law“[4], qui viene alimentata la formazione delle persone, in ambito aziendale, perché operino con il supporto di metodologie e strumenti utili a percepire anticipatamente i problemi, le tendenze o i cambiamenti futuri, al fine di pianificare le azioni opportune.
Il ruolo del marketing
Oggi il cliente si aspetta di rimanere soddisfatto, ma anche sorpreso. Il servizio giuridico non deve essere solo di qualità, ma può permettersi di portare il concetto di innovazione e far scaturire il cd. effetto meraviglia, ossia l’arte di creare stupore in maniera positiva, permettendo di costruire attorno al brand una forte reputazione.
La figura del Legal Designer
Se esiste il Legal Design, ci sarà certamente un legal designer[5], cioè, colui che progetta sulla base delle risposte alle esigenze, organizzando e mostrando le informazioni in maniera tale da rendere il documento legale il più chiaro e comprensibile possibile.
Il legal designer dovrà progettare le procedure e i documenti in modo tale da fare incontrare gli obiettivi dell’azienda e i bisogni del cliente. Non si limiterà soltanto a scrivere in modo chiare le regole, ma cercherà di strutturare i processi e i documenti, seguendo generalmente questi passaggi, strutturati dalla Stanford Law School:
- Un periodo di osservazione e di ideazione: in queste fasi si definiscono il problema da risolvere e si generano le possibili soluzioni.
- Un periodo di sperimentazione e verifica: in queste fasi si testano le possibili metodologie per risolvere le soluzioni e si raccolgono i commenti da parte delle parti interessate.
Le fasi sono ripetute finché non si trova la soluzione ottimale al problema.
Le leggi (e le sentenze) che incentivano il Legal Design
Anche se può non sembrare così, con il tempo anche il legislatore e qualche giudice ha sentito il dovere di inserire nelle leggi un dovere di chiarezza, snellezza e semplicità documentale:
- Il Decreto 8 marzo 2018 n. 37[6] che, modificando il D.M. 55/2014 sulla determinazione dei parametri di liquidazione dei compensi per la professione forense, introduce, all’art. 1,comma 1-bis, un aumento del 30% dei compensi quando “gli atti depositati con modalità telematiche sono redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione, la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto”;
- Il Codice del Consumo[7], che all’art. 35 raccomanda che le clausole nei contratti proposte al consumatore siano redatte “in modo chiaro e comprensibile” e agli artt. 48 e 51 impone chiarezza, semplicità e comprensibilità nelle informazioni che vengono fornite al consumatore;
- Il Codice del Processo Amministrativo[8] che, all’art. 3, pone alle parti e al giudice un dovere di sinteticità e chiarezza nella redazione degli atti, e all’art. 13-ter fissa dei “limiti dimensionali” per i ricorsi e gli atti difensivi;
- La sentenza n. 21297/2016[9] della Corte di Cassazione, per la quale “la smodata sovrabbondanza espositiva degli atti […] non soltanto grava l’amministrazione della giustizia e le controparti di oneri inutili”.
- Il Considerando 54 del GDPR[10] afferma che “(…) qualsiasi informazione e comunicazione dovrebbe utilizzare un linguaggio semplice e chiaro che un minore possa capire facilmente”;
- Sempre in tema GDPR, le Linee guida elaborate dal Gruppo Art. 29 in materia di trasparenza stabiliscono l’obbligo di adattare la comunicazione legale al destinatario: “comprensibile a un esponente medio del pubblico cui sono dirette”
- Nel mondo delle assicurazioni accade lo stesso, si veda l’articolo 23 della Direttiva (UE) 2016/97[11] “Tutte le informazioni da fornire a norma degli articoli 18, 19, 20 e 29 sono comunicate ai clienti: […] in un modo chiaro e preciso che sia comprensibile per il cliente”.
Conclusioni
L’Italia è un po’ indietro rispetto le altre nazioni europee, ma è di certo molto incentivata anche grazie agli emergenti studi legali del settore tech, che sono ovviamente influenzati da input che seguono i trend comunicativi. Sarebbe, perciò, opportuno che il tema venga ampiamente diffuso nel nostro paese[12] poiché potrebbe contribuire a una gestione efficace, snella e trasparente dei processi aziendali, del lavoro dei professionisti e della giustizia, dove è inevitabile che le regole e le procedure vengano riprogettate tenendo presente i nuovi strumenti che i tempi ci mettono a disposizione.
Informazioni
[1] https://law.stanford.edu/organizations/pages/legal-design-lab/
[2] È stato anche scritto un decalogo sul legal design.
[4] Il Proactive Law cerca un nuovo approccio alle questioni legali nelle imprese e nelle società. Invece di percepire il diritto come un vincolo che le imprese e le persone in generale devono rispettare, il diritto proattivo considera il diritto come uno strumento in grado di creare successo e di promuovere relazioni sostenibili, che alla fine ha il potenziale di aumentare il valore per le imprese, gli individui e le società in generale.
[5] Qui due esempi: http://www.haptica.co/web/servicios/?s=17 e SIMPATICO
[6] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/04/26/18G00062/sg
[7] https://www.mise.gov.it/index.php/it/mercato-e-consumatori/tutela-del-consumatore/codice-del-consumo
[8] https://www.giustizia-amministrativa.it/il-codice-del-processo-amministrativo1
[9]http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20161021/snciv@s20@a2016@n21297@tS.clean.pdf
[10] https://www.garanteprivacy.it/il-testo-del-regolamento
[11] https://www.ivass.it/normativa/internazionale/internazionale-ue/direttive/2016-97-ue/index.html
[12] Già nella magistratura si chiede un po’ di apertura mentale per la gestione dei processi: https://www.associazionemagistrati.it/doc/2473/lopportunit-del-legal-design.htm
Un esempio di approccio al diritto con il legal design è la pagina instagram di dirittoconsenso.it
I DPI alla luce dell'emergenza coronavirus
In questi ultimi giorni, per via della forsennata ricerca delle mascherine protettive a causa del coronavirus, si sente parlare del concetto di DPI (Dispositivi di Protezione Individuale). Il mondo lavorativo li conosce molto bene, ma perché sono così fondamentali per tutti?
Premessa
Il mondo della sicurezza nei luoghi di lavoro è estremamente complesso e in maniera veramente elementare è necessario spiegare che alla base della gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro è presente la valutazione del rischio (VDR) che è un obbligo non delegabile del datore di lavoro[1]. Ai sensi dell’art. 2, lett. q) del D.Lgs. 81/2008[2], per VDR si intende “la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”.
Determinati tutti i rischi devono essere intraprese le misure di minimizzazione del rischio, considerare il rischio come nullo non è infatti possibile. Sin da ora si vuole sottolineare che quando entrano in campo i DPI significa che a livello organizzativo e di riduzione del rischio non è stato possibile evitare l’uso di questi strumenti, o che comunque i DPC (Dispositivi di Protezione Collettiva) non sono sufficienti. La tutela è infatti principalmente collettiva e poi singolare.
I Dispositivi di Protezione Individuale (DPI)
La definizione di DPI è dettata dall’art. 74 del D.Lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro (TUSL): “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”.
In realtà non basta “qualsiasi attrezzatura”, a livello normativo sono presenti stringenti requisiti che disciplinano la progettazione, la fabbricazione e la messa sul mercato, in Europa tutti i DPI devono essere infatti marcati CE[3]. Insieme al Regolamento Europeo 2016/425[4], sono presenti svariate norme tecniche catalogate come standard internazionali[5], grazie alle quali vengono uniformati a livello globale i sistemi di produzione, in modo da avere un minimo comun denominatore per ogni attrezzatura destinata ad essere DPI.
Il Datore di Lavoro, insieme al Medico Competente e al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione sceglie i DPI da utilizzare e li consegna al lavoratore, in caso di DPI di Categoria III è obbligatorio l’addestramento del lavoratore. I DPI devono essere mantenuti in buono stato di conservazione e soprattutto per alcuni, non scaduti.
Ci sono tre diverse categorie di DPI[6]:
- I DPI di I^ Categoria vengono utilizzati per proteggere da rischi minimi: lesioni meccaniche superficiali; contatto con prodotti per la pulizia poco aggressivi o contatto prolungato con l’acqua; contatto con superfici che non superino i 50° C; lesioni oculari dovute all’esposizione alla luce del sole; condizioni atmosferiche di natura non estrema;
- I DPI di II^ Categoria sono tutti i DPI che non rientrano nella I^ o nella III^ Categoria;
- I DPI di III^ Categoria vengono utilizzati in caso di rischi che possono causare conseguenze molto gravi (morte o danni alla salute irreversibili): sostanze[7] e miscele pericolose per la salute; atmosfere con carenza di ossigeno; agenti biologici nocivi; radiazioni ionizzanti; ambienti ad alta o bassa temperatura (almeno + 100° C o – 50° C); cadute dall’alto; scosse elettriche o lavoro sotto tensione; annegamento; tagli da seghe a catena portatili; getti ad alta pressione; ferite da proiettile o da coltello; rumore nocivo.
Un cenno alle mascherine
Prima dell’emergenza coronavirus, non molte persone erano a conoscenza delle mascherine in uso nei luoghi di lavoro, probabilmente ci si soffermava solo su quelle ad uso chirurgico, ma abbiamo visto che nel mondo dei dispositivi di protezione individuale, tra le primissime attrezzature che possiamo anche ritenere come “usa e getta”, ci sono alcune mascherine filtranti, nel gergo tecnico chiamate FFP 1-2-3. Quali sono le differenze?
- Mascherina chirurgica: protegge filtrando l’aria che espiriamo, ossia evitare la diffusione e il contagio di agenti, particelle, batteri o virus a un paziente o ad altre persone intorno a noi. Queste mascherine non erano considerate DPI fino all’entrata in vigore del DL 17 marzo 2020 n. 18[8].
- Mascherina FFP1: protegge dalle polveri non tossiche e/o dagli aerosol a base acquosa (ad es. polvere di cemento, farina, carbonato di calcio (gesso), grafite, cotone, cemento). Essa ha una efficienza filtrante minima del 78% di ciò che inspiriamo.
- Mascherina FFP2: protegge dagli aerosol solidi e/o liquidi debolmente tossici o irritanti (ad es. legno non trattato, sostanze derivanti da molatura, taglio, saldatura, fresatura, carbone, fibra di vetro, fibra minerale, grafite, pesticidi in polvere). Essa ha una efficienza filtrante minima del 92% di ciò che inspiriamo, sono omologate per trattenere particelle di spessore fino 0.6 micron. È adatta per proteggersi dal coronavirus.
- Mascherina FFP3: Protegge dalle particelle e dagli aerosol solidi o liquidi classificati come tossici (ad es. Amianto, pesticidi in polvere, agenti biologici, polvere farmaceutica, legno trattato, cromo, calcare, piombo, grafite). Essa ha una efficienza filtrante minima del 98% di ciò che inspiriamo, sono omologate per trattenere particelle di spessore fino 0.6 micron. È adatta per proteggersi dal coronavirus.
La gestione rifiuti dei DPI
Il tema dei DPI non passa solo sotto la gestione della sicurezza, ma anche da quella ambientale. I DPI non possono essere smaltiti liberamente, ma in ambiente lavorativo, devono sottostare alla disciplina dei rifiuti disciplinata dalla parte IV dal D.Lgs. 152/2006.
Senza sminuire l’affascinante mondo dei rifiuti, in linea generale è importante chiarire che per definire un rifiuto ci devono essere tre elementi: un soggetto produttore; l’obbligo o la volontà di sbarazzarsi di qualcosa e, appunto, un qualcosa. È fondamentale focalizzarsi sul “qualcosa” perché esso deve essere univocamente inquadrato e il Testo Unico Ambientale ci spiega che esiste una classificazione. Principalmente si opera la distinzione tra i rifiuti urbani e i rifiuti speciali, questi ultimi vengono poi distinti in rifiuti speciali pericolosi o non pericolosi. A tutti i rifiuti è attribuito un codice univoco europeo.
Nel mondo delle attività produttive è responsabilità del produttore qualificare il rifiuto, ossia operare tutta una serie di attività al fine di individuare il codice da attribuire e far partire la catena che porterà quell’oggetto al recupero o allo smaltimento e tutto l’insieme di obblighi di registrazione connessi. In via semplificata anche il cittadino comune opera una classificazione, sempre che siano attivi i regimi di raccolta differenziata che permettono di separare la plastica, il vetro, la carta e di gestire rifiuti più ostici come le pile e gli accumulatori, gli oli ad uso alimentare e i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE[9]).
Un soggetto che svolge attività imprenditoriale quando non potrà più utilizzare una mascherina filtrante o un DPI gli attribuirà un codice e chiederà a soggetti autorizzati di prelevare il rifiuto e di recuperarlo o smaltirlo, possiamo ipotizzare che in caso di mascherine cercherà soggetti autorizzati a trasportare e smaltire un rifiuto con codice 15.02.02* o 15.02.03[10].
Un privato quando utilizzerà un DPI lo classificherà come rifiuto indifferenziato.
Le linee guida ISS per la gestione dei rifiuti urbani in relazione alla trasmissione dell’infezione da coronavirus
Al fine di gestire i rifiuti urbani in relazione all’infezione da coronavirus, l’Istituto Superiore della Sanità ha stilato delle Linee Guida che consigliamo di approfondire[11]. Nel presente documento viene considerata la gestione di due tipi di rifiuti, e precisamente:
- Rifiuti urbani prodotti nelle abitazioni dove soggiornano soggetti positivi al tampone in isolamento o in quarantena obbligatoria.
I rifiuti urbani provenienti dalle abitazioni dove soggiornano soggetti positivi al tampone in isolamento o in quarantena obbligatoria, dovrebbero essere considerati equivalenti a quelli che si possono generare in una struttura sanitaria, come definiti dal DPR 254/2003[12].
Si raccomanda, quindi che nelle abitazioni in cui sono presenti soggetti positivi al tampone, in isolamento o in quarantena obbligatoria, sia interrotta la raccolta differenziata, ove in essere, e che tutti i rifiuti domestici, indipendentemente dalla loro natura e includendo fazzoletti, rotoli di carta, i teli monouso, mascherine e guanti, siano considerati indifferenziati e pertanto raccolti e conferiti insieme.
Per la raccolta dovranno essere utilizzati almeno due sacchetti uno dentro l’altro o in numero maggiore in dipendenza della loro resistenza meccanica, possibilmente utilizzando un contenitore a pedale. Si raccomanda di:
- Chiudere adeguatamente i sacchi utilizzando guanti mono uso;
- Non schiacciare e comprimere i sacchi con le mani;
- Evitare l’accesso di animali da compagnia ai locali dove sono presenti i sacchetti di rifiuti;
- Smaltire il rifiuto dalla propria abitazione quotidianamente con le procedure in vigore sul territorio (esporli fuori dalla propria porta negli appositi contenitori, o gettarli negli appositi cassonetti condominiali o di strada).
- Rifiuti urbani prodotti dalla popolazione generale, in abitazioni dove non soggiornano soggetti positivi al tampone in isolamento o in quarantena obbligatoria.
Per le abitazioni in cui non sono presenti soggetti positivi al tampone, in isolamento o in quarantena obbligatoria, si raccomanda di mantenere le procedure in vigore nel territorio di appartenenza, non interrompendo la raccolta differenziata.
Bisogna comunque porre l’attenzione al fatto che, anche se al momento non sono presenti alcune indicazioni ufficiali, le mascherine utilizzate in ambito lavorativo in questa situazione di emergenza, anche se non in luogo di lavoro di tipo sanitario, potrebbe comportare la loro classificazione come rifiuti di tipo sanitario a causa della potenziale trasmissione biologica, potenziale poiché secondo i protocolli sanitari e le procedure aziendali, allo stato attuale possono svolgere mansioni solo soggetti privi di sintomi tipici del coronavirus. In tal caso i rifiuti sarebbero classificati come 18.01.03 e 18.01.04.
Informazioni
https://europa.eu/youreurope/business/product-requirements/labels-markings/ce-marking/index_it.htm
Diritto dell’ambiente – A cura di Gianpaolo Rossi, quarta edizione, Giappichelli Editore.
Sicurezza sul lavoro 2019 – A cura di Rotella Andrea, Wolters Kluwer
http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/01/i-raee/
http://www.dirittoconsenso.it/2018/07/02/amianto-inquadramento-generale/
[1] Art. 17 del D.Lgs. 81.2008
[2] Qui il testo del T.U. aggiornato
[3] La marcatura CE, in vigore dal 1993, indica la conformità a tutti gli obblighi che incombono sui fabbricanti (o importatori) in merito ai loro prodotti (o a quelli immessi sul mercato sotto la propria responsabilità) in virtù delle direttive comunitarie, consentendo la libera commercializzazione dei prodotti marcati entro il mercato europeo.
[4] Qui il testo del Regolamento Europeo 425/2016
[5] Uno tra tutti è lo standard ISO – https://www.iso.org/home.html.
[6] Allegato I del Reg. EU. 425/2016
[7] Una sostanza pericolosa è l’Amianto, ne ho parlato qui.
[8] Art. 16 del DL 18.2020: Per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull’intero territorio nazionale, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all’articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall’articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9.
[9] Cosa sono i RAEE? Leggi qui.
[10] CER 15.02.02* – assorbenti, materiali filtranti (inclusi filtri dell’olio non specificati altrimenti), stracci e indumenti protettivi, contaminati da sostanze pericolose;
CER 15.02.03 – assorbenti, materiali filtranti, stracci e indumenti protettivi, diversi da quelli di cui alla voce 150202.
[12] Qui il testo del Regolamento recante disciplina della gestione dei rifiuti sanitari
Fgas, il decreto e le sanzioni previste
Dal 2 gennaio l’Italia ha una disciplina volta a sanzionare la violazione delle norme sugli Fgas, in base al Regolamento europeo 517/2014, con il DPR 146/2018. La norma è efficace dal 17 gennaio 2020
Breve cenno agli FGas
Gli FGas[1] sono le sostanze che comunemente troviamo in tutte le apparecchiature che generano il freddo (condizionatori, frigoriferi, ecc.). La storia dei gas refrigeranti è molto vecchia, il loro utilizzo è presente si dai primi anni del 1800 e con il passare del tempo si evoluti fino a diventare la soluzione a molti mali, ma anche causa di lesioni al nostro eco-sistema. I gas refrigeranti hanno il potere di consumare lo strato di ozono e più generalmente di inquinare l’atmosfera. È stato quindi necessario porre delle misure precauzionali e addirittura bandire il loro utilizzo.
La legislazione vigente
Oggi possiamo affermare che gli FGas, o in senso ampio i gas fluorurati ad effetto serra, hanno una normativa evoluta e concreta, sono tre i riferimenti normativi principali: un Regolamento Europeo e due norme Italiane.
Il Regolamento Europeo 517/2014
Questo regolamento ha come obiettivo quello di proteggere l’ambiente mediante la riduzione delle emissioni di FGas e invita gli stati a legiferare sul tema. Esso stabilisce disposizioni in tema di contenimento, utilizzo, recupero e distruzione degli FGas. Impone condizioni per l’immissione in commercio di prodotti e apparecchiature specifiche che contengono o il cui funzionamento dipende dai gas fluorurati ad effetto serra. Impone condizioni per particolari usi di FGas, stabilisce i limiti quantitativi per l’immissione al commercio di idro-fluorocarburi[2]. Infine invita gli stati a prevedere un sistema sanzionatorio.
Il DPR 146/2018
Entrato in vigore il 24 gennaio 2019, il regolamento presidenziale attua quanto previsto dalla norma Europea. Il Decreto:
- individua il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare quale autorità competente ad interloquire con gli operatori e le imprese;
- interviene sul sistema di certificazione degli organismi di valutazione e di attestazione di formazione delle persone e sul sistema di iscrizione e implementazione del Registro telematico nazionale per le persone fisiche e per le imprese;
- individua gli organismi di controllo indipendenti competenti per le procedure di verifica dei dati relativi all’immissione in commercio di apparecchiature precaricate con i gas fluorurati;
- istituisce una Banca Dati[3] per la raccolta e la conservazione delle informazioni su tali gas; stabilisce, infine, l’obbligo di formazione delle persone e di certificazione delle imprese.
Un elemento del tutto assente è il regime sanzionatorio, questa mancanza non è passata inosservata al legislatore Europeo che ha immediatamente instaurato una procedura di pre-infrazione: EU Pilot 9154/2017.
Il Decreto Legislativo 163/2019
Il testo, pubblicato sulla G.U. del 2 gennaio 2020[4], prevede sanzioni penali e amministrative pecuniarie per la violazione degli obblighi in materia di prevenzione delle emissioni e di sistemi di rilevamento delle perdite. Si chiude così il cerchio della normazione in materia, conseguentemente è abrogato il testo pre-vigente[5].
Le sanzioni previste riguardano questi temi:
- Prevenzione delle emissioni;
- Controllo delle perdite;
- Rilevamento delle perdite;
- Tenuta dei registri;
- Recupero degli FGas;
- Certificazione;
- Immissione al commercio;
- Controllo dell’uso;
- Comunicazioni.
Sanzioni penali e amministrative
Rispetto al vecchio impianto, ci sono norme più severe e come abbiamo detto anche sanzioni penali: l’art. 11, co. 1 punisce, infatti, con l’arresto da 3 a 9 mesi o con l’ammenda da 50 mila a 150 mila per chi usa l’esa-fluoruro di zolfo[6] in particolare condizioni. Viene invece sanzionato amministrativamente da 5 a 15 mila euro l’operatore che, entro un mese dalla riparazione dell’apparecchio controllato a causa di perdite, non verifica l’efficacia della riparazione mediante persone fisiche certificate.
L’art. 16 affida la vigilanza e l’accertamento al Ministero dell’Ambiente, il quale si avvale dei Carabinieri per la tutela ambientale, dell’ISPRA, delle ARPA e dell’Agenzie delle Dogane. Alla fine dell’accertamento, per l’irrogazione delle sanzioni, il ministero trasmette il rapporto al Prefetto. Se la violazione è accertata dalle Dogane, la sanzione è irrogata dagli uffici doganali competenti per territorio.
Conclusioni
Il nostro Paese ha deciso di intraprendere una strada dedicata alla tutela ambientale[7], non resta che aspettare le modalità e l’efficacia con cui gli enti di controllo effettueranno la vigilanza e irrogheranno le sanzioni.
Informazioni
http://www.dirittoconsenso.it/2018/10/29/fgas-e-global-warming-potential/
www.gazzettaufficiale.it
https://ec.europa.eu/info/index_it
https://bancadati.fgas.it/#!/home
[1] Gli F-Gas e il Global Warming Potential, di Roberto Giuliani, ottobre 2018 – Dirittoconsenso.it
[2] È la terza generazione di fluidi refrigeranti, studiati per sostituire fluidi più dannosi, i più comuni sono l’R407C, l’R410A, l’R417A, ecc.
[3] Link alla Banca Dati F-Gas
[4] Link al testo integrale del D.Lgs. 163/2019
[5] Il D.Lgs. n. 26/2013
[6] Comunemente chiamato SF-6
[7] Vedasi il Decreto Clima, la Legge di delegazione europea 2018 e il Green Deal, tutta normativa che da impulso alla centralità dell’ambiente e ad uno sviluppo sostenibile.
L'obsolescenza programmata
Quando siamo stanchi di maneggiare un dispositivo elettronico, oppure ci meravigliamo di come il nostro elettrodomestico non funzioni più, non dovremmo stupirci, probabilmente si tratta di obsolescenza programmata. Ma che cos’è?
Obsolescenza programmata, in breve
Con questo termine si fa riferimento al processo mediante il quale si cerca di instillare nei consumatori il desiderio di sostituire i beni tecnologici o più nello specifico le apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) di largo consumo. L’obsolescenza programmata si attuerebbe mediante opportuni accorgimenti introdotti in fase di produzione (utilizzo di materiali di scarsa qualità, pianificazione di costi di riparazione superiori rispetto a quelli di acquisto, ecc.), nonché mediante la immissione sul mercato di nuovi modelli ai quali sono apportate modifiche irrilevanti sul piano funzionale, ma sostanziali su quello formale.
Il meccanismo, o meglio, la pratica di cui parliamo non è mai stata scientificamente provata, ma nella letteratura economica è considerata presente e costante, emblematici sono state alcune politiche aziendali che hanno intaccato direttamente i consumatori finali, vediamone alcuni:
- Il cartello di Phoebus
Quando nel 1924 i principali produttori europei e statunitensi di lampade ad incandescenza si riunirono a Ginevra, si parlò di obsolescenza programmata, fu infatti il primo caso[2]. All’epoca del cartello esistevano diversi tipi non standardizzati di lampadine, per forma, incastro, tensione, potenza e luminosità: i produttori del cartello si imposero di omologare la produzione e fissare un limite da 2.500 a 1.000 ore per la durata di ogni lampadina. A dimostrazione che le lampadine dell’epoca erano molto più performanti è possibile prendere come riferimento la “Centennial Light”, accesa da ben 118 anni[3].
- Il caso Apple ed Epson
Apple è stata direttamente multata[4] dall’anti-trust[5] in quanto dolosamente procedeva a diffondere aggiornamenti software che rallentavano i dispositivi più vecchi “costringendo” i consumatori ad acquistare telefoni più recenti. Apple in questa occasione si è impegnata a sostituire le batterie dei telefoni a prezzi agevolati[6]. Ad Epson, in Francia, invece è stato riconosciuto che i chip delle cartucce segnalavano l’esaurimento nonostante fosse presente tra il 20 % e il 50 % di inchiostro residuo[7].
Pur essendo semplici esempi, facilmente ricercabili, queste notizie ci portano ad una domanda scontata: siamo tutelati?
La tutela del consumatore
Si, siamo tutelati. Abbiamo dalla nostra parte il codice del consumo[8] (D.lgs. 206/2005) che è quello strumento attraverso il quale i consumatori possono tutelarsi dalle pratiche scorrette che vengono eseguite sul mercato, nei casi di obsolescenza programmata non si ha una tutela diretta, piuttosto ci si può appigliare alla pratiche scorrette dei produttori (artt. 20, 21, 22, 23 e 24) oppure al tema della sicurezza dei prodotti (artt. 102-135).
Ma è in campo qualcosa di più specifico, un vero e proprio Disegno di Legge che introduce il concetto di “obsolescenza programmata”.
Il Disegno di Legge 615
Già da tempo è presente in cantiere un atto[9] che ha intenzione di introdurre, all’interno del nostro ordinamento, il tema dell’obsolescenza programmata.
I senatori, nella relazione illustrativa, dopo un breve cenno alla storia di questa pratica affermano quanto segue:
“Costruire beni destinati a rompersi in fretta rappresenta una garanzia di continuità per il mercato, con i consumatori costretti a sostituire apparecchi potenzialmente sani, ma nei quali la progettazione iniziale ha inserito un difetto pianificato. Uno studio tedesco intitolato «Obsolescenza programmata – Analisi delle cause – Esempi concreti – Conseguenze negative – Manuale operativo[10]» ha dimostrato come numerosi elettrodomestici e prodotti di uso comune vengono programmati, dagli stessi produttori, per rompersi dopo circa due anni, cioè dopo la scadenza del periodo di garanzia stabilito dalla legge. Attraverso l’obsolescenza programmata si amplia il mercato in senso intensivo e si genera un consumo più rapido, diffuso e frenetico, perpetuando la logica del bene di consumo «usa e getta», generando prodotti più scadenti e quindi provocando un costante incremento di rifiuti di varia natura, molti dei quali di difficile smaltimento. Non è più ammissibile giustificare questo ricorso e questo abuso dell’obsolescenza programmata poiché il sistema sociale globale e quello ambientale-climatico non riescono più a sostenere tale carico.”
Entrando nello specifico, il disegno di legge si compone di nove articoli, nel primo si definisce il concetto di obsolescenza programmata e si intende: “l’insieme di tecniche e di tecnologie tramite cui il produttore […] nella progettazione di un bene di consumo, volutamente accorcia la vita o l’uso potenziale del medesimo bene, al fine di aumentarne il tasso di sostituzione”.
Sono poi previsti alcuni casi tipici di obsolescenza come ad esempio, la più classica: “l’impiego di tecniche di costruzione o di materiali aventi l’effetto di accelerare l’usura del bene, di favorire l’insorgenza di guasti, rotture o malfunzionamenti ovvero l’invecchiamento precoce del medesimo bene”, oppure, “l’utilizzo di componenti software o di sistemi operativi aventi l’effetto di peggiorare le condizioni generali del bene e il suo funzionamento”.
Senza analizzare il testo articolo per articolo, è bene sapere che il legislatore intenderebbe muoversi principalmente in un’ottica di prevenzione. Chiaramente nel mirino del dispositivo vi è il produttore, a cui viene imposto infatti l’obbligo di non mettere in pratica tecniche che possano portare all’obsolescenza programmata e di rendere note tutte le informazioni utili al fine di conoscere la durata della vita dei dispositivi e le possibilità che essi vengano riparati.
Si intende inoltre innalzare il periodo entro il quale il produttore può essere ritenuto responsabile di un difetto dell’apparecchio, la cd. garanzia legale di conformità per i beni di consumo: da 2 a 5 anni per i piccoli elettrodomestici e dieci anni per i grandi. Direttamente collegato al tema della garanzia è il tema delle parti di ricambio dove il produttore o l’importatore dovrebbe impegnarsi al fine di garantire un adeguato servizio.
Vengono anche introdotte le sanzioni penali: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il produttore o il distributore di beni di consumo è punito con la reclusione fino a due anni e con una multa di 300.000 euro se ha ingannato o tentato di ingannare il consumatore”. A parere di chi scrive sono considerabili troppo severe.
Infine viene ampliato il ruolo del consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti. Esso avrà un ruolo di informazione e controllo nell’ambito delle questioni inerenti l’obsolescenza programmata.
Attualmente il testo è al vaglio della 10^ commissione al Senato – Industria, commercio, artigianato. Si spera quanto prima che il testo possa divenire efficace.
La questione dei rifiuti
Secondo Brooks Stevens: “Tutta la nostra economia si basa sull’obsolescenza programmata (…) facciamo prodotti buoni, spingiamo le persone ad acquistarli e poi l’anno successivo introduciamo deliberatamente qualcosa che renderà questi prodotti obsoleti[11]”. Possiamo tradurre obsoleto come qualcosa di cui vogliamo o dobbiamo disfarci, che ricalca fondamentalmente la definizione di rifiuto[12] come prevista dal Testo Unico Ambientale.
In effetti con l’obsolescenza programmata, se da un lato le grandi aziende tecnologiche sono spinte all’avanzamento tecnologico (e ai margini di profitto), anche altre due industrie tendono a crescere: quella estrattiva e quella dei rifiuti.
Le aziende estrattive lucrano a causa (o per fortuna) della grande richiesta di materie prime necessarie a comporre questi oggetti. Ad esempio uno smartphone è composto da oro, rame, silicio e dallo sconosciutissimo coltan[13] (columbite-tantalite). Lo sfruttamento di queste risorse determina il peggioramento dello stato dei luoghi ed il deterioramento ambientale generalmente considerato.
Rispetto ai rifiuti è inevitabile non sostenere come vi sia un eccesso rispetto a quanto teoricamente potrebbe generarsi[14], rispettando la normale vita di un dispositivo. Uno studio eseguito dalle Nazioni Unite[15], prendendo in esame sette prodotti, di cui sei appartenenti all’industria tecnologica, ha dimostrato che un televisore, con le dovute accortezze, dovrebbe essere sostituito dopo 8-10 anni ed un telefono addirittura dopo 12. Arrivare a questi archi di tempo, però, potrà essere fatto solo tramite una collaborazione tra industria e consumatore (cd. soluzione win-win).
Dobbiamo poi tenere in considerazione che l’obsolescenza programmata determina una particolare tipologia di rifiuti, i RAEE[16]. I consumatori non sempre sono a conoscenza delle modalità di smaltimento di tali prodotti e anzi non poche volte vengono a crearsi discariche abusive composte da frigoriferi, lavatrici, televisori.
Una soluzione per concretizzare dei miglioramenti è lo sfruttamento dell’economia circolare[17] e della sharing economy, che hanno l’obiettivo di evitare lo spreco di risorse attraverso il riutilizzo delle materie di scarto o attraverso la condivisione di strumenti. Per dare senso a questi due strumenti basti pensare che l’apertura ai mercati commerciali secondari può sensibilmente diminuire l’ammontare dei rifiuti e garantendo a popolazioni meno abbienti la possibilità di acquistare prodotti tecnologicamente avanzati, seppur “obsoleti”.
Informazioni
I RAEE, di Roberto Giuliani, DirittoConsenso.it
L’anti-trust, di Giuseppe Nicolino, DirittoConsenso.it
[2] http://www.storiainrete.com/11351/xx-secolo/fatto-per-non-durare-phoebus-e-lobsolescenza-programmata/
[3] https://www.centennialbulb.org/
[5] L’antitrust, di Giuseppe Nicolino, DirittoConsenso, ottobre 2018.
[6] https://www.lastampa.it/tecnologia/news/2017/12/29/news/iphone-rallentati-per-colpa-della-batteria-apple-chiede-scusa-1.34087884
[7] https://ilsalvagente.it/2017/11/10/obsolescenza-programmata-in-francia-azione-legale-contro-epson/
[8] Per maggiori info http://www.codicedelconsumo.it/
[10] Qui lo studio in lingua originale
[11] Brooks Stevens, industrial designer (1911-1995)
[12] Art. 183 del D.Lgs. 152/2006 (TUA)
[14] In Italia, ogni abitante produce in media quasi 20 kg di RAEE e nel 2017 il paese ha prodotto quasi 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici
[15] Qui – The Long View – Exploring life product time extention
[16] Ne parlo in questo articolo: I RAEE
[17] https://www.economiacircolare.com/cose-leconomia-circolare/
Il Dibattito pubblico, diritto alla partecipazione?
Attraverso questo contributo viene analizzata l’utilità del DPCM 76/2018 che introduce, nel nostro ordinamento, lo strumento del dibattito pubblico in caso di determinate opere che si introducono inevitabilmente nella quotidianità del singolo cittadino o di comunità locali. Grazie a tale strumento si amplia il concetto di democrazia partecipativa
La trasparenza necessaria e il dibattito pubblico
Circoscrivendo la materia, è necessario specificare che siamo nell’ambito dei contratti pubblici. Il codice, D.Lgs. 50/2016, conosciuto anche come codice appalti, ha posto in essere strumenti di partecipazione, in ottica di trasparenza, coinvolgendo quei soggetti che in relazione a lavori di un certo impatto possono potenzialmente essere lesi.
L’art. 22, co. 1 prevede che: “Le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori pubblicano, nel proprio profilo del committente, i progetti di fattibilità relativi alle grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulla città o sull’assetto del territorio, nonché gli esiti della consultazione pubblica, comprensivi dei resoconti degli incontri e dei dibattiti con i portatori di interesse. I contributi e i resoconti sono pubblicati, con pari evidenza, unitamente ai documenti predisposti dall’amministrazione e relativi agli stessi lavori”.
Il tenore di questo passaggio ci permette di capire che questa trasparenza deve essere garantita nei casi di grandi opere che, in particolare, possono avere un impatto ambientale[1]. Come deve essere garantita la trasparenza? In sostanza, le amministrazioni si aprono nei confronti del pubblico attraverso due strumenti: la pubblicazione dei progetti di fattibilità (progetti preliminari che sono suscettibili di modificazioni) e la consultazione pubblica. Se per il primo caso è da sempre stato più semplice ed altre procedure (come la VAS prevista dal D.Lgs. 152/2006) ne sono testimoni, la seconda doveva essere necessariamente disciplinata.
L’art. 22, co. 2 sancisce l’obbligo di emanare un atto normativo, entro un anno dall’entrata in vigore del codice, che definisca quando e come si debba applicare il ricorso alla consultazione pubblica: il DPCM 76/2018[2].
Il Regolamento recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico
Così è chiamato il regolamento richiesto dal codice appalti. È a tutti gli effetti un atto tecnico che disciplina passo per passo come e quando debba essere messo in atto il meccanismo del dibattito pubblico, che per definizione si intende: “il processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi di cui all’Allegato 1[3]”.
I soggetti che muovono la raccolta dei consensi e dei dissensi provenienti dagli interessati sono tre:
- L’amministrazione aggiudicatrice
- La commissione nazionale
- Il coordinatore del dibattito pubblico
Quando si ricade in opere previste dall’allegato 1 è obbligatorio fare il dibattito pubblico. L’amministrazione aggiudicatrice ha il compito di indirlo (art. 5) attraverso la pubblicazione sui propri canali istituzionali, specificando tutto il materiale necessario (progetti di fattibilità, alternative progettuali, comunicazioni ecc.…) da portare all’attenzione degli interessati. Contestualmente deve essere nominato una coordinatore del dibattito (art. 6) che è un soggetto con capacità professionali ed imparziale[4] che ha il compito di organizzare le modalità di svolgimento del dibattito, raccogliere le informazioni, favorire la partecipazione, segnalare anomalie e soprattutto redigere il parere conclusivo al termine della procedura.
Sopra questi soggetti lavora la commissione nazionale (art. 4) che monitora l’andamento della procedura, propone raccomandazioni sul suo svolgimento e vigila sulla corretta pubblicazione della documentazione sulla base dei termini previsti dalla legge.
Al termine della fase di dibattito, dopo che è stato presentato dal coordinatore il parere conclusivo, l’amministrazione presenta il dossier conclusivo che deve essere pubblicato sui canali istituzionali e inoltrato alla commissione nazionale. Tale documento, oltre ad essere un atto di conclusione del procedimento, è necessario ad aprire l’istanza di VIA necessaria alla realizzazione del progetto. Questa fase di dibattito, con eventuali proroghe, può durare fino a 9 mesi.
Considerazioni finali
È necessario porre l’attenzione, non tanto su come è strutturato questo procedimento, ma piuttosto sul suo ruolo nel contesto attuale in cui ci troviamo. Siamo in un’epoca in cui l’informazione è nettamente cambiata, possiamo reperire qualsiasi tipo di notizia in pochissimo tempo ed è giusto che anche i procedimenti amministrativi mutino.
Il dibattito pubblico è uno strumento che ritengo “potente”, nel senso che permette alle amministrazioni di aprirsi e dimostrare come, in determinati progetti, il ruolo degli interessati sia fondamentale. È poi anche uno strumento necessario, perché abbatte quegli ostacoli che la nostra Costituzione[5] ritiene come limitanti al pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il dibattito pubblico è la ricerca dell’assenso ad un qualcosa che emerge con il dissenso, favorisce il mutamento del concetto democratico, che se prima veniva messo in atto attraverso i soggetti eletti e che poi si è evoluto con il concetto di concertazione[6], adesso è arrivato ad una fase di partecipazione diretta. Muta il rapporto che insiste tra il raggiungimento del benessere collettivo e quello individuale.
Prendiamo come esempio la costruzione di un inceneritore[7], un impianto che dal trattamento dei rifiuti, produce energia: esso è un chiaro esempio di disinformazione rispetto all’utilità e alla necessità di questi impianti[8]. La società è inevitabilmente spaventata dall’idea che un’altissima torre emetta nell’aria elementi nocivi, ma è disinformata del fatto che abbiamo obblighi europei da rispettare, che le discariche non sono più una soluzione, ma soprattutto che gli inceneritori possono produrre energia e che esistono tecnologie avanzate per limitare l’emissione di elementi nocivi.
Cosa succederebbe se l’amministrazione decidesse di costruirlo senza coinvolgere adeguatamente gli interessati? Ne deriverebbe una contrapposizione netta, portatrice di solo dissenso veicolato da disinformazione. Ecco che il dibattito pubblico entra in gioco portando conoscenza, ma non di un progetto già pronto ed impacchettato per essere messo in gara di appalto, ma di un’opera preliminare che deve essere analizzata anche dagli interessati e il cui contributo deve essere messo per iscritto e portato al tavolo dell’amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 4 del sopracitato art. 22 del codice appalti, che prevede: “gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte sono valutate in sede di predisposizione del progetto definitivo e sono discusse in sede di conferenze di servizi relative all’opera sottoposta al dibattito pubblico”.
Il risultato di questo strumento è quindi estremamente utile e, come è stato citato, può essere utilizzato anche in casi non previsti dalla norma. Probabilmente con l’applicazione di questi principi si potrebbero by-passare tutte le manifestazioni di dissenso che, seppur del tutto legittime nei casi applicabili, ostacolano il raggiungimento di un obiettivo, obiettivo che non è necessariamente quello di portare a compimento la costruzione di un’opera. Il dibattito può far emergere anche la non utilità di un nuovo investimento, ma soprattutto può far emergere il vero valore della collettività ed il ruolo delle istituzioni.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] Opere che devono essere sottoposte alla valutazione di impatto ambientale (VIA) ex. D.Lgs. 152/2006
[3] Non solo, le amministrazioni possono ammettere il dibattito pubblico anche fuori da questi casi, valutata l’opportunità in uno o più casi specifici.
[4] Si rileva in particolare che: “non possono assumere l’incarico di coordinatore del dibattito pubblico i soggetti residenti o domiciliati nel territorio di una Provincia o di una Città metropolitana ove la stessa opera è localizzata”
[5] Art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana
[6] Qui approfondimento sul termine Concertazione
[7] Tecnicamente si ricadrebbe in dibattito pubblico solo nel caso in cui questo tipo di intervento abbia un investimento superiore a 300 milioni di euro. (Ultimo caso dell’All. 1, DPCM 76/2018)
[8] Approfondimento sul Rapporto del recupero energetico da rifiuti 2019 – ISPRA, qui.
A proposito di democrazia partecipativa, abbiamo parlato di Referendum in questo articolo.
Cosa sono i RAEE e la loro disciplina
Nell’era moderna siamo circondati dai RAEE, eppure quando dobbiamo disfarcene per comprare un’oggetto simile, ma tecnologicamente più avanzato, non sappiamo che possiamo consegnarlo al distributore o al centro di raccolta considerato che abbiamo già pagato il suo smaltimento al momento dell’acquisto. Parliamo degli AEE e del loro rifiuto
La normativa di riferimento
La norma di riferimento dei RAEE, il Decreto Legislativo 49/2014[1] che attua la direttiva 2012/19/UE . ha come finalità di stabilire misure e procedure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevenendo o riducendo gli impatti negativi derivanti dalla:
- Progettazione e dalla produzione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche
- Produzione e gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche
Cosa sono gli AEE
Il Decreto di riferimento, tra le definizioni, spiega che le Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (AEE), sono “le apparecchiature che dipendono, per un corretto funzionamento, da correnti elettriche o da campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, di trasferimento e di misura di queste correnti e campi e progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1000 volt per la corrente alternata e a 1500 volt per la corrente continua”.
Il cittadino comune è praticamente spaesato da questa definizione, ma in realtà senza rendersene conto utilizza diversi AEE durante l’arco della propria giornata.
Gli allegati della norma, però, aiutano a comprendere che gli AEE, dal 15 agosto 2018, sono divisi in 6 categorie, di meno rispetto a quelle previste all’entrata in vigore del Decreto, favorendo il cd. “Open scope”:
- Aee per lo scambio di temperatura;
- Schermi, monitor ed apparecchiature dotate di schermi con una superficie superiore a 100 cmq;
- Lampade;
- Apparecchiature di grandi dimensioni (con almeno una dimensione esterna superiore a 50 cm), compresi, ma non solo: elettrodomestici; apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni; apparecchiature di consumo; lampadari; apparecchiature per riprodurre suoni o immagini; apparecchiature musicali; strumenti elettrici ed elettronici; giocattoli e apparecchiature per il tempo libero e lo sport; dispositivi medici; strumenti di monitoraggio e di controllo; distributori automatici;
- Strumenti di piccole dimensioni (con nessuna dimensione esterna superiore a 50 cm), compresi ma non solo: apparecchiature di consumo; lampadari; apparecchiature per riprodurre suoni o immagini; apparecchiature musicali; strumenti elettrici ed elettronici; giocattoli e apparecchiature per il tempo libero e lo sport; dispositivi medici; strumenti di monitoraggio e di controllo; distributori automatici;
- Piccole apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni (con nessuna dimensione esterna superiore a 50 cm).
Alcuni esempi
Per fare alcuni esempi, è considerato RAEE un condizionatore, un frigorifero, ma anche una gaming console, un computer portatile, uno smartphone e le cuffie per ascoltare la musica.
Ecco che così leggendo ci si rende conte che siamo invasi da questi oggetti, eppure la finalità del Decreto è forte e chiara: serve una disciplina per salvaguardare la salute umana, perché?
I principali problemi derivanti da questo tipo di apparecchiature deriva nel momento in cui essi diventano rifiuti (R-AEE: Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). In tali aggeggi vi è la presenza di sostanze considerate tossiche per l’ambiente. La crescente diffusione di apparecchi elettronici determina, insomma, un sempre maggiore rischio di abbandono nell’ambiente o in discariche e termovalorizzatori con conseguenze di inquinamento del suolo, dell’aria, dell’acqua con ripercussioni sulla salute umana.
Questi prodotti vanno trattati correttamente e destinati al recupero differenziato dei materiali di cui sono composti, come il rame, ferro, acciaio, alluminio, vetro, argento, oro, piombo, mercurio, evitando così uno spreco di risorse che possono essere riutilizzate per costruire nuove apparecchiature oltre alla sostenibilità ambientale.
Cos’è un RAEE
Prima di affrontare il concetto di RAEE, è necessario affrontare il tema di cosa sia un rifiuto: la normativa di riferimento[2] definisce il rifiuto come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. La definizione dunque fa capire che rifiuto è quello oggetto che un soggetto, per obbligo o per volontà, ha deciso di disfarsi[3].
Senza entrare nel merito di cosa succeda successivamente al momento in cui si crea un rifiuto, tornando ai RAEE, il legislatore europeo con la sua Direttiva[4] applicata dal Decreto in questione, pone l’accento sul principio internazionale “chi inquina paga” obbligando i produttori[5] e i distributori[6] a gestire gli AEE da loro prodotti e venduti ormai esausti.
I produttori e i distributori devono quindi cercare di ottimizzare il recupero dei prodotti da loro venduti e/o distribuiti sensibilizzando il consumatore finale attraverso innanzitutto l’obbligo di informazione: il produttore, deve fornire precise informazioni riguardanti l’obbligo di avviare il R-AEE alla raccolta separata e di non inserirlo tra i rifiuti urbani; della possibilità di riconsegnare al distributore l’apparecchiatura all’atto dell’acquisto di una nuova; dei potenziali effetti sull’ambiente e sulla salute umana delle sostanze pericolose, contenute nelle apparecchiature stesse. Deve infine esporre il simbolo che riconosce univocamente che quell’oggetto è un AEE/RAEE[7].
Sono presenti ulteriori obblighi, ma che si pongono in una posizione secondaria rispetto alla tutela ambientale. Pensiamo ad esempio al fatto che tutta la gestione di tali apparecchiature corre su di una via parallela rispetto le procedure standard della gestione rifiuti, infatti ad esempio tutti i distributori, i trasportatori e installatori e gestori dei centri di assistenza tecnica devono iscriversi all’albo dei gestori ambientali in una specifica categoria[8].
Come disfarcene
Il Legislatore, con il D.Lgs. n. 151/2005 ha introdotto il cd. “eco-contributo RAEE”. Facendo sempre riferimento alla necessità di un recupero consapevole e sostenibile, a favore di produttori è stata concessa l’instaurazione di un finanziamento pagato in anticipo dal consumatore/compratore e che deve essere interamente dedicato alla gestione dei Rifiuti derivanti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche. In parole povere, acquistando un prodotto parte del suo valore è dedicato per il suo futuro smaltimento.
Tre sono le modalità attraverso le quali è possibile, ad oggi, dire addio ad un RAEE:
Il meccanismo Uno contro Uno
Il DM n. 65/2010 permette di smaltire l’AEE che non vogliamo più utilizzare e dunque di smaltirlo “senza costi aggiuntivi” a fronte dell’acquisto di un nuovo AEE equivalente. Per fare un esempio concreto, potete richiedere il ritiro e lo smaltimento “senza costi aggiuntivi” del vostro vecchio frigorifero al negozio presso il quale state comprando un nuovo frigorifero e così può essere fatto per qualsiasi altro tipo di AEE, dalle cuffie al condizionatore. Condizione necessaria è la equivalenza tra il consegnato e l’acquistato.
La modalità Uno contro Zero
Con il DM n. 121/2016 tutti gli AEE non più funzionanti e che abbiano dimensioni esterne massime di 25 cm possono essere consegnati “senza costi aggiuntivi” e senza l’obbligo di acquistare un AEE equivalente, presso i punti vendita con superficie superiore ai 400 mq. In questo caso siamo nel contesto dei cd. AEE piccoli. Per fare un esempio, è il caso di uno smartphone o di un asciuga capelli.
Consegna presso i centri di raccolta
Infine, e più in generale, è possibile in ogni caso conferire qualsiasi tipologia di AEE presso il Centro di Raccolta della zona in cui si risiede e deputato allo smaltimento RAEE.
RAEE, niente di più semplice
Da come si è potuto intendere, tutto sommato, il legislatore ha reso complicata la vita al produttore o al distributore, ma ha reso semplice la vita al consumatore, che a volte deve lottare con l’obsolescenza programmata. Dietro alla consegna di un RAEE è presente tutta una filiera[9] che garantisce vantaggi che determinano sicuramente un minor impatto ambientale, ma anche una velocizzazione della crescita tecnologica. Dal RAEE si riesce a recuperare ben il 99% dei suoi componenti.
Informazioni
Diritto dell’ambiente – a cura di Giampaolo Rossi, Giappichelli, 2017
Per sapere cosa sia l’obsolescenza programmata, abbiamo scritto qui.
www.esageraee.com
www.albonazionalegestoriambientali.it
www.cdcraee.it
[1] Qui il link al testo integrale
[2] Decreto Legislativo n. 152/2006, art. 183
[3] Diritto dell’ambiente – a cura di Giampaolo Rossi, Giappichelli, 2017
[4] Qui il link al testo integrale
[5] I produttori ai sensi del D.Lgs. 151/2005 sono tutti coloro che fabbrichino o importino un prodotto elettrico o elettronico, oppure lo commercializzino con proprio marchio indipendentemente dalla provenienza geografica del bene, ovvero tutti coloro che per primi immettono il prodotto sul mercato e dunque ne sono responsabili
[6] I distributori (ovvero i soggetti che vendono i prodotti nuovi agli utenti finali) sono tenuti all’obbligo del ritiro dell’apparecchio da buttare al momento dell’acquisto di un nuovo apparecchio equivalente.
[7] http://www.esageraee.com/index.php/prodotti-e-rifiuti/cosa-sono-i-raee.html
[8] https://www.albonazionalegestoriambientali.it/iscrizionecategorie.aspx
[9] Come ad esempio il Consorzio Remedia