Contrasto al traffico di migranti

Il contrasto al traffico di migranti

Il traffico di migranti è un crimine redditizio e lesivo dei diritti umani. Ma come può intervenire la Comunità Internazionale nel contrasto al traffico di migranti?

 

Alcuni dati sul traffico di migranti

Il traffico di migranti può essere definito come un reato relativo al “procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente” (Articolo 3, Protocollo sul traffico di migranti). Il contrasto al traffico di migranti rappresenta una priorità della Comunità Internazionale, che ha sempre più cercato di migliorare la cooperazione internazionale al fine di ridurre questo  fenomeno, altamente lesivo dei diritti umani.

Ma qual è la portata di questo reato? Ecco alcuni dati.

Negli ultimi anni, anche a causa delle primavere arabe e dei conseguenti conflitti civili, il numero di migranti irregolari che hanno cercato di entrare in uno Stato con il sostegno di trafficanti è aumentato in modo esponenziale[1]. Nonostante, a causa della sua natura clandestina, non vi siano dati affidabili sul numero preciso di migranti contrabbandati, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che nel 2016 oltre 181.000 migranti abbiano cercato di raggiungere le coste europee partendo dal Nord Africa, utilizzando spesso servizi di contrabbando (IOM: 2017). Il contrabbando di migranti è infatti un’attività redditizia per le organizzazioni criminali, generando circa 6,75 miliardi di dollari all’anno nelle due principali rotte di contrabbando, ovvero dall’Africa orientale, settentrionale e occidentale all’Europa, e dal Sud America al Nord America (UNODC).

Ma come si contrasta il traffico di migranti? In questo articolo verrà offerta una panoramica del fenomeno, affrontando in primo luogo la minaccia che rappresenta per la sicurezza dal punto di vista sia umano che statale, mostrando in secondo luogo il suo legame con la tratta di esseri umani, e suggerendo infine come rispondere a questa sfida con il quadro giuridico sviluppato dalla Comunità internazionale.

 

Il traffico di migranti: una minaccia per la sicurezza dello Stato e dell’uomo

Il contrabbando di migranti rappresenta una problema globale e una grave minaccia per la sicurezza dello Stato e dell’uomo.

Esso costituisce un crimine contro lo Stato, in quanto mina la sua sovranità e la sua capacità di salvaguardare il proprio territorio, riducendo così la possibilità legale dei migranti di trasferirsi in modo sicuro in un altro Paese. Inoltre, i contrabbandieri trafficano anche droga e armi da fuoco lungo le stesse rotte, rappresentando così una minaccia diretta per i cittadini e indebolendo il controllo dello Stato.

Questa pratica pericolosa rappresenta anche una grave minaccia per la sicurezza umana, poiché i migranti sono altamente vulnerabili alle violazioni dei diritti umani. Come sottolineato nella Dichiarazione di New York del 2016 per i Rifugiati e i Migranti, i migranti che non hanno alcuna possibilità legale di muoversi alla ricerca di opportunità migliori spesso non hanno altra scelta che cercare il sostegno dei trafficanti, che li trattano come merci. In realtà, il contrabbando non implica necessariamente una violazione dei diritti umani, poiché si basa su un’operazione commerciale consensuale ma, a causa del rapporto di potere ineguale tra trafficanti e migranti, questi ultimi possono essere esposti a sfruttamento, violenza e abusi. Inoltre, sono “ad alto rischio di vittimizzazione attraverso altri reati, tra cui estorsione, sequestro di persona, violenza sessuale e di genere, privazione di cibo e acqua e persino omicidio” (IOM 2017: 4).

In questo contesto, i migranti possono anche essere soggetti alla tratta. Infatti, la tratta e il contrabbando sono spesso perpetrati dalle stesse organizzazioni criminali, lungo le stesse rotte. Può accadere, ad esempio, che una persona, dopo essere stata contrabbandata nel Paese di destinazione, diventi vittima di tratta, al fine di pagare il debito contratto con il contrabbandiere, la cosiddetta “tassa di contrabbando”. È tuttavia essenziale distinguere tra questi due diversi reati, che comportano risposte distinte nella legge, e applicare un approccio basato sul diritto nell’affrontare tali questioni[2]. Infatti, gli Stati spesso si concentrano sulla persecuzione dei criminali, trascurando al contempo le vittime, che vengono private di un’assistenza psicologica e fisica adeguata, lasciandole pertanto vulnerabili ad abusi futuri.

La necessità di sostenere, fisicamente e mentalmente, le vittime della tratta e del contrabbando dovrebbe essere una parte integrante delle politiche di contrasto al traffico di migranti, essendo anche parte integrante degli attuali quadri normativi internazionali, tra cui i Protocolli contro il Traffico e la Tratta, il Piano d’Azione Globale per Combattere la Tratta di Esseri Umani e l’Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile.

 

Le linee guida delle Nazioni Unite

Data la gravità e la portata globale del traffico di migranti, la sua lotta costituisce una priorità dell’agenda internazionale. Le linee guida per il contrasto al traffico di migranti sono fornite dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità Organizzata Transnazionale, compreso il Protocollo contro il Traffico di Migranti via Terra, Mare e Aria, che offrono una chiara panoramica del fenomeno[3]. Inoltre, nel 2010 l’UNODC ha sviluppato una legge modello contro il contrabbando di migranti e un Toolkit per combattere il contrabbando, al fine di assistere i Paesi nell’attuazione del Protocollo. Il Toolkit sottolinea l’importanza di un approccio olistico, che combini le necessità di sicurezza dello Stato con la legislazione esistente sui diritti dei rifugiati.

In particolare, il principio del non refoulement dovrebbe sempre essere rispettato e l’uso dei servizi di contrabbando non dovrebbe mettere a repentaglio il diritto di chiedere asilo, come sottolineato nella Convenzione del 1951 sullo Status dei Rifugiati e nel relativo Protocollo del 1967. Inoltre, il Protocollo sul Traffico di Migranti afferma che gli Stati non possono criminalizzare una persona per essere stata contrabbandata, nonché le organizzazioni che assistono i migranti per scopi umanitari.

Nel contesto della sicurezza dello Stato, va inoltre sottolineato che “la ricerca ha dimostrato che le leggi restrittive in materia di immigrazione, l’inasprimento delle politiche di asilo e le misure rafforzate di controllo delle frontiere non necessariamente si traducono in una riduzione della migrazione irregolare” (UNODC 2010: 25).

Infatti, la mancanza di percorsi regolari e sicuri per la migrazione hanno portato ad un aumento della domanda verso servizi di contrabbando. Politiche restrittive favoriscono i trafficanti, intensificando il livello di rischio posto per la vita dei migranti e aumentando le vittime di questo reato. Inoltre, il rimpatrio dei migranti nel loro Paese d’origine senza considerare le cause profonde che li hanno spinti a emigrare, potrebbe semplicemente portare i migranti a tentare un nuovo viaggio pericoloso, al fine di raggiungere migliori condizioni di vita.

 

Contrasto al traffico di migranti: ridurre la vulnerabilità dei migranti e favorire la cooperazione transnazionale

Considerando che i migranti richiedono servizi di contrabbando perché non hanno alternative, l’OIM sottolinea come l’apertura di canali di migrazione regolari sia un modo efficace per prevenire il contrabbando, evidenziando anche il legame positivo tra migrazione e sviluppo. Inoltre, è essenziale affrontare le cause profonde della migrazione, attuando gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030[4]. Povertà estrema, mancanza di istruzione e di opportunità di lavoro, conflitti e cambiamenti climatici sono tra le principali cause che spingono le persone a emigrare. Affrontarli, con un approccio a lungo termine, potrebbe prevenire la perdita di vite umane e ridurre sostanzialmente la vulnerabilità dei migranti nei confronti dei contrabbandieri.

È inoltre essenziale eliminare efficacemente le attività delle organizzazioni criminali e, a questo fine, la cooperazione transfrontaliera appare di vitale importanza. Poiché il contrabbando di migranti è un crimine transnazionale di crescente complessità, è necessaria una forte collaborazione nell’indagine, nella prevenzione e nella persecuzione dei trafficanti, che non dovrebbe essere limitata solo al controllo delle frontiere statali. Ad esempio, la condivisione di dati sul modus operandi e sulle reti dei contrabbandieri può migliorare la possibilità di neutralizzare queste organizzazioni criminali.

Inoltre, la cooperazione tra attori statali e non statali, attraverso protocolli formalizzati, può aumentare ulteriormente la possibilità di perseguitare i trafficanti, garantendo al contempo la sicurezza delle persone interessate. L’ampliamento del quadro giuridico esistente e la cooperazione tra le forze di polizia nazionali, nonché la collaborazione giudiziaria, sono componenti chiave nel contrasto al traffico di migranti.

A tal fine, sono stati lanciati vari meccanismi bilaterali e regionali, come il Quadro di Politica Migratoria dell’Unione Africana per l’Africa, il Piano D’azione della Conferenza Regionale sulla Migrazione (Processo di Puebla) e il Piano D’Azione dell’Unione Europea di Vienna. Inoltre, la strategia congiunta Africa-UE promuove una stretta cooperazione Paesi africani e Unione Europea, costruendo un partenariato a lungo termine nell’interesse comune di affrontare la questione migratoria. Dopo la crisi migratoria del 2015, l’UE ha inoltre sviluppato il Piano D’Azione contro il Traffico di Migranti (2015 – 2020), per promuovere una più forte cooperazione con Paesi terzi.

 

Conclusioni

Come dimostrato in questo articolo, il contrasto al traffico di migranti è una sfida globale, che quindi richiede un approccio globale. Come evidenziato dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità Organizzata Transnazionale e il relativo Protocollo contro il Traffico di Migranti, è necessaria una forte cooperazione internazionale per contrastare questo grave crimine.

Accordi multilaterali sono infatti essenziali per migliorare la possibilità degli Stati di prevenire e perseguitare i trafficanti. Inoltre, gli Stati dovrebbero sempre considerare non solo la minaccia che essa rappresenta per la sicurezza dello Stato, ma anche la violazione dei diritti umani che comporta. Un approccio umanitario è fortemente necessario quando si ha a che fare con migranti vittime di contrabbando, e i loro diritti di non refoulement e non-criminalizzazione dovrebbero sempre essere rispettati.

Informazioni

IOM, Flow Monitoring, https://migration.iom.int/europe?type=arrivals

IOM, Smuggling of migrants, trafficking in persons and contemporary forms of slavery, including appropriate identification, protection and assistance to migrants and trafficking victims, Vienna, 2017

UNODOC, Migrant Smuggling, https://www.unodc.org/toc/en/crimes/migrant-smuggling.html

UN General Assembly, New York Declaration for Refugees and Migrants, New York, 2016

UN General Assembly, Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, 2000

UN General Assembly, Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, 2000

UN General Assembly, United Nations Convention against Transnational Organized Crime, Palermo, 2000

UNODC, Model Law against the Smuggling of Migrants, Vienna, 2010

UNODC, Toolkit to Combat Smuggling of Migrants, Vienna, 2010

[1] Scita Rossana (2020), “I flussi migratori: comprendere il fenomeno”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/06/flussi-migratori-comprendere-il-fenomeno/

[2] Venezia Lorenzo (2018), “Alcune precisazioni sul’immigrazione”, DirittoConsenso http://www.dirittoconsenso.it/2018/11/12/alcune-precisazioni-sull-immigrazione/

[3] Venezia Lorenzo (2019), “Il Protocollo contro il traffico di migranti”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/11/il-protocollo-contro-il-traffico-di-migranti/

[4] Scita Rossana (2020), “Opportunità e sfide delle migrazioni: l’approccio della comunità internazionale”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/08/29/opportunita-e-sfide-delle-migrazioni-lapproccio-della-comunita-internazionale/


Migrazioni

Opportunità e sfide delle migrazioni: l'approccio della comunità internazionale

Le migrazioni rappresentano un’opportunità o una sfida per la Comunità internazionale?

 

Introduzione: il dibattito politico sulle migrazioni

La gestione delle migrazioni rappresenta una grande sfida per la comunità internazionale, che ha più volte cercato di regolamentare il fenomeno e fornire linee guida ai governi nazionali. Oggigiorno il dibattito politico appare sempre più polarizzato tra coloro che esaltano gli aspetti positivi delle migrazioni e coloro che ne strumentalizzano i rischi, dividendosi tra “pro” e “contro” immigrazione.

In realtà, il fenomeno migratorio è altamente complesso ed una visione oggettiva richiede di valutarne sia opportunità che sfide.

Pertanto, il fine di questo articolo è quello di offrire un’analisi il quanto più possibile comprensiva del fenomeno, che cerca di capire quali siano sia i vantaggi che gli svantaggi delle migrazioni. Inoltre, visto che si tratta di un fenomeno di portata internazionale, appare opportuno analizzare anche l’approccio della Comunità internazionale, attraverso lo studio dei principali accordi in materia.

 

Opportunità e rischi delle migrazioni

La migrazione è un fenomeno complesso, da tempo analizzato e oggetto di intenso dibattito politico in relazione alle opportunità e ai rischi che comporta.

Innanzitutto, occorre sfatare un mito radicato nelle nostre società. Contrariamente a quanto sostenuto da numerosi politici, l’immigrazione, se ben regolamentata e gestita, può avere un impatto positivo sullo sviluppo dei Paesi di destinazione, contribuendo alla crescita sociale ed economica. Infatti, secondo una ricerca condotta da Stefania Gabriele (2012), il contributo fiscale dei migranti presenti in Italia contribuisce al mantenimento del sistema pensionistico italiano. Analogamente, uno studio condotto in Germania da Bonin (2014) ha dimostrato che nel 2012 i 6.6 milioni di migranti presenti in Germania hanno generato un guadagno netto di 22 miliardi per lo Stato tedesco, dimostrando che nel lungo termine i migranti contribuisco al benessere economico dello Stato ospitante. La migrazione ha infatti un ruolo fondamentale soprattutto nel mercato del lavoro, dove contribuisce a ridurre il declino dell’età lavorativa nei Paesi più sviluppati, come in Europa e negli Stati Uniti. Ovviamente, questo dato dipende molto anche dalla capacità dei Paesi ospitanti di integrare i migranti nel mercato del lavoro, offrendo loro opportunità e rendendoli consapevoli dei loro diritti, per evitare episodi di sfruttamento.

Da un lato diametralmente opposto, si nota come la migrazione risulti positiva anche per i Paesi di partenza, grazie ai trasferimenti di denaro che i migranti mandano alle proprie famiglie di origine. Inoltre, dal lato prettamente umano, è indubbio che l’interazione tra culture diverse favorisca l’intera comunità internazionale, contribuendo allo sviluppo sociale e tecnologico, grazie allo scambio di conoscenze. Basti pensare, per esempio, agli Stati Uniti d’America, un Paese fondato interamente sull’immigrazione e che proprio su questo ha costruito la sua grandezza.

Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, ci sono anche degli svantaggi. Nel breve periodo, infatti, l’immigrazione comporta notevoli costi, dovuti al sistema di welfare[1] per accogliere e integrare i migranti nella comunità ospitante. Ciò nonostante, come accennato in precedenza, nel lungo termine questi costi verrebbero ripagati dagli stessi migranti che, pagando le tasse, contribuiscono al benessere socio-economico del Paese ospitante. Un rischio più grave è invece il cosiddetto fenomeno di social dumping, spesso riscontrato nei Paesi di destinazione. I migranti possono infatti trovare impiego in quei settori dove la popolazione locale si rifiuta spesso di lavorare, ma allo stesso tempo la loro manodopera – spesso sottopagata – può essere utilizzata per abbassare i salari. In questo caso, è necessario un forte intervento statale, per prevenire un fenomeno che rischia di compromettere i diritti di tutti i lavoratori del settore.

Sul lato dei Paesi di origine, la migrazione può avere invece un impatto negativo a causa del cosiddetto fenomeno di brain drain, per cui i lavoratori più qualificati lasciano il proprio Paese per cercare migliori opportunità di vita, lasciando il proprio Paese senza una classe dirigente effettiva.

Presi in considerazione tutti questi aspetti, la comunità internazionale è chiamata dunque a massimizzare i benefici delle migrazioni, minimizzandone contemporaneamente i costi, sociali ed economici.

 

Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030: “non lasciare nessuno indietro”

Le migrazioni, come già accennato in precedenza, offrono numerose opportunità per lo sviluppo della società umana, ma portano con sé anche numerosi rischi, che necessitano di essere presi in grande considerazione non solo dai singoli Stati nazionali, ma anche dall’intera Comunità internazionale.

Per queste ragioni, le Nazioni Unite hanno inserito le migrazioni tra gli obiettivi primari del piano di sviluppo della Comunità internazionale. In particolare, “non lasciare nessuno indietro” rappresenta il fulcro dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Con questo principio l’Agenda 2030 sottolinea l’importanza di proteggere ogni singolo individuo, migranti inclusi. La migrazione è infatti una questione trasversale, che riguarda tutti gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals –; in particolare 11 dei 17 SDGs contengono obiettivi ed indicatori relativi proprio alla migrazione o allo spostamento di persone, con un riferimento specifico ai flussi migratori[2] nel target 10.7: “facilitare la migrazione e la mobilità delle persone in modo ordinato, sicuro, regolare e responsabile, anche attraverso l’implementazione di politiche migratorie pianificate e ben organizzate” (UN, SDG 10.7).

In particolare, gli SDGs e l’integrativa Agenda d’Azione di Addis Abeba forniscono i mezzi per gestire la migrazione, proponendo strumenti efficaci attraverso i quali affrontarne le cause profonde, inclusi sotto-sviluppo economico ed ineguaglianze. La comunità internazionale dovrebbe infatti offrire la possibilità di decidere quando emigrare o restare nel proprio Paese d’origine. A tal fine, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile sottolineano la necessità di ridurre le deprivazioni sociali ed economiche, promuovere una crescita inclusiva e creare le condizioni favorevoli al lavoro e all’educazione scolastica.

Inoltre, gli SDGs mettono in evidenza come uno sviluppo sostenibile, basato su istituzioni inclusive e buona governance, possa contribuire a rendere le comunità più resilienti, diminuendo così i conflitti. Pace e sviluppo sono infatti essenzialmente interdipendenti, per cui politiche inclusive che “non lasciano indietro nessuno” costituiscono la misura più efficace per prevenire i conflitti.

Nell’Agenda 2030 si fa riferimento anche al cambiamento climatico. Oggigiorno, infatti, eventi climatici estremi, siccità, degradazione del terreno e desertificazione rappresentano le principali cause di emigrazione[3]. Pertanto, per ridurre la vulnerabilità dei migranti e prevenire un’unitile perdita di vite umane, risulta essenziale fornire risposte di lungo termine al cambiamento climatico.

 

I Global Compacts on Migration and on Refugees del 2018: verso una migliore gestione delle migrazioni

Oltre all’Agenda 2030, la Comunità internazionale ha anche affrontato la tematica migratoria in specifici incontri svolti grazie al supporto delle Nazioni Unite. A spingere verso accordi internazionali esaustivi hanno contribuito in particolar modo la crisi migratoria del 2015 e i crescenti flussi migratori, che oggigiorno includono 25,9 milioni di rifugiati (UNHCR).

Nel settembre 2016 i 193 membri delle Nazioni Unite hanno così adottato la Dichiarazione di New York su Rifugiati e Migranti, fornendo finalmente un approccio comprensivo sulle migrazioni. Riconoscendo il contributo positivo delle migrazioni allo sviluppo sostenibile, la Dichiarazione ha mandato un forte messaggio politico. I capi di Stato e Governo dei membri ONU si sono infatti impegnati a proteggere i diritti umani e la libertà di ogni singolo migrante o rifugiato, a prescindere dal loro status. In particolare, questo impegno include due aspetti fondamentali, in relazione alla protezione dei rifugiati e alla gestione dei flussi migratori. Innanzitutto, si stabiliscono infatti misure chiare ed effettive per affrontare grandi flussi di rifugiati, in modo da proteggere sia i rifugiati che le comunità ospitanti. Inoltre, gli Stati membri si impegnano a negoziare un accordo globale su migranti e rifugiati.

Adottati nel 2018, i Global Compacts on Migration and on Refugees hanno l’obiettivo di assicurare che i diritti umani siano sempre rispettati e che i benefici della migrazione siano il più possibile visibili. In particolare, offrono alla comunità internazionale i principi cardine su cui costruire politiche migratorie efficaci e costruttive.

Innanzitutto, mettono in luce l’importanza di raccogliere dati affidabili sui flussi migratori e condividerli con la comunità internazionale, al fine di fornire un quadro più completo della situazione. La raccolta di dati risulta infatti fondamentale nel comprendere i fattori che spingono le persone ad emigrare, così come le difficoltà maggiori riscontrare dai migranti. Per esempio, condividere informazioni sui network di trafficanti di esseri umani, così come sul  loro modus operandi, può aiutare gli Stati a neutralizzare queste organizzazioni criminali. Oltre alla condivisione di dati tra Stati, risulta poi fondamentale anche la cooperazione con attori non statali, al fine di garantire la sicurezza delle persone a rischio.

In secondo luogo, offrono pratiche efficaci su come ridurre la vulnerabilità dei migranti, spesso messi a rischio da trafficanti che lucrano sulle difficoltà altrui. A questo riguardo risulta essenziale migliorare la cooperazione trans-frontaliera, tra forze di polizia e autorità giuridiche. Visto che il traffico di esseri umani è un crimine transnazionale di crescente complessità, questo richiede una forte collaborazione nel processo di investigazione, prevenzione e persecuzione dei trafficanti, che non può limitarsi ai soli controlli di frontiera.

In terzo luogo, sottolineano come gli Stati dovrebbero sempre rispettare la dignità di migranti e rifugiati, supportandoli nel divenire autosufficienti. A tal fine, i Paesi di destinazione dovrebbero sviluppare politiche in grado di massimizzare il potenziale dei migranti[4], rendendoli parte integrante del tessuto sociale del Paese di destinazione. Inoltre, specialmente nel caso dei rifugiati, lo Stato dovrebbe supportarli con servizi assistenziali adeguati, affinchè possano eventualmente ritornare nel proprio Paese di origine. A questo riguardo, il Global Compact on Refugees riafferma anche il sacro principio internazionale di non-refoulement – diritto di non essere rimpatriati verso un Paese considerato non sicuro –, adottato dalla comunità internazionale nel 1951, con la Convezione sui Rifugiati, e riaffermato nel 1967 con il relativo Protocollo.

Infine, i Global Compacts evidenziano la necessità di adottare un approccio olistico relativamente ai fattori che spingono le persone ad emigrare. In particolare, la comunità internazionale è chiamata a combattere le cause profonde della migrazione, tra cui povertà, conflitti e ineguaglianze. Gli Stati dovrebbero pertanto sempre applicare il principio dell’Agenda 2030, “non lasciare nessuno indietro”, promuovendo una crescita sostenibile[5] e inclusiva.

Tutti questi principi, inclusi nei Global Compacts del 2018, rappresentano un passo in avanti per una gestione condivisa del fenomeno migratorio. Il Global Compact on Refugees ha rafforzato la protezione dei migranti a livello internazionale, anche grazie all’introduzione di un Forum Globale sui Rifugiati, in cui i ministri dei Pasi membri ONU si riuniscono per discutere sulla tematica ogni quattro anni. Dall’altro lato, il Global Compact on Migration ha rappresentato il primo accordo internazionale con un approccio olistico sulla tematica migratoria.

Ciò nonostante, mentre sui rifugiati è stato possibile trovare un accordo condiviso anche a livello nazionale, sui migranti la comunità internazionale è apparsa più frammentata, mancando di supporto politico da parte di Paesi chiave. Infatti, nonostante la natura non vincolante dell’accordo, l’amministrazione Trump ha deciso di sospendere il supporto statunitense, affermando che il Compact on Migration metterebbe a repentaglio la sovranità degli USA: “our decisions on immigration policies must always be made by Americans and Americans alone”. Allo stesso modo, alcuni Paesi europei tra cui Austria, Polonia, Ungheria e Italia, hanno condiviso la visione americana, non sostenendo così l’accordo internazionale.

 

Conclusioni

I flussi migratori rappresentano una sfida globale, che richiede una forte cooperazione transnazionale per poterne massimizzare i benefici, minimizzandone i costi. I Sustainable Development Goals e la relativa Agenda d’Azione di Addis Abeba, insieme ai Global Compacts on Refugees and Migration, forniscono un approccio esaustivo sui flussi migratori e consigli d’azione per i Paesi di origine, transito e destinazione.

Contrariamente alla propaganda nazionalistica di molti Paesi occidentali, la migrazione offre opportunità anche per i Paesi di destinazione, che devono però avere la lungimiranza di guardare al lungo termine e non solo ai costi immediati. Una politica di integrazione efficace può infatti beneficiare l’intera comunità, non solo i migranti.

La comunità internazionale, dal canto suo, dovrebbe utilizzare i consigli d’azione degli SDGs e dei Global Compact per prevenire e ridurre le cause profonde dei flussi migratori, al fine di offrire a tutti la possibilità di scegliere se rimanere nel proprio Paese di origine o emigrare.

Informazioni

Bonin H., The contribution of foreigners and future immigration to the German national budget, Centre for European Economic Research, 2014

Collier Paul, Exodus: How Migration is Changing Our World, Oxford University Press, New York, 2013

Gabriele Stefania, Dare e avere: migrazioni, bilancio pubblico e sostenibilità, in Ronchetti Laura, “I diritti di cittadinanza dei migranti, Il ruolo delle Regioni”, Giuffrè, pp. 301‒327, Milano, 2012

IOM, Addressing drivers of migration, including adverse effects of climate change, natural disasters and human-made crisis through protection and assistance, sustainable development, poverty eradication, conflict prevention and resolution, New York, 2017

IOM, Migration and Climate Change, IOM Migration Research Series, No. 31, Geneva, 2008

UN, Addis Ababa Action Agenda, Addis Ababa, 2015

UN, Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, Morocco, 2018

UN, Global Compact on Refugees, New York, 2018

UN, New York Declaration for Refugees and Migrants, New York, 2016

UN, Sustainable Development Goals, https://www.un.org/sustainabledevelopment/

UNDP, Human Development Report 2009, Overcoming Barriers: Human Mobility and development, Palgrave Macmillan, New York, 2009

[1] Per esempio corsi di lingua, controlli medici, assistenza psicologica

[2] Scita Rossana (2020), “I flussi migratori: comprendere il fenomeno”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/06/flussi-migratori-comprendere-il-fenomeno/

[3] Borsato Silvia (2019), “Migranti climatici e protezione dei diritti umani”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2019/03/25/migranti-climatici-e-protezione-dei-diritti-umani/

[4] Attraverso strategie di brain gain e possibilità di mobilità sociale, riconoscendo l’impatto positivo dei migranti sulla crescita economica dello Stato

[5] Questo include fornire risposte rapide al cambiamento climatico, fattore spesso determinante nei flussi migratori


Flussi migratori

I flussi migratori: comprendere il fenomeno

I flussi migratori sono una tematica al centro del dibattito politico odierno, ma quanto ne sappiamo davvero?

 

I flussi migratori: alcuni numeri

I flussi migratori possono essere definiti come “lo spostamento delle persone dal loro luogo di residenza, attraverso un confine internazionale o all’interno di uno Stato” (OIM 2019: 135).

Le migrazioni hanno da sempre caratterizzato la storia umana, contribuendo a plasmare nuove società e a promuovere lo sviluppo della civiltà umana. Ciò nonostante, oggi più che mai, le persone si spostano, per motivi vari, in Paesi diversi da quello di origine. Infatti, secondo varie ricerche condotte dalle Nazioni Unite, nel 2019 il numero di migranti ha raggiunto il picco di 272 milioni, un aumento enorme se paragonato ai 173 milioni del 2000 e ai 102 milioni del 1980.

Questa notevole crescita, dovuta in gran parte ad una sempre maggiore globalizzazione, ha comportato numerose sfide. Infatti, mentre alcuni migranti decidono di trasferirsi in un altro Stato per propria libera scelta, molti altri ne sono costretti. In particolare, stando ai numeri dell’UNHCR, nel 2018 il numero di persone costrette a lasciare il proprio luogo di origine per cause di forza maggiore ha raggiunto i 70.8 milioni, un ammontare destinato a crescere ulteriormente, secondo le previsioni di autorevoli studiosi in materia.

 

Categorie di flussi migratori

I flussi migratori rappresentano un fenomeno complesso, che deve pertanto essere analizzato in profondità, al fine di costruire politiche migratorie efficaci. Molto spesso, oggigiorno, gli organi d’informazione tendono a confondere i termini e a parlare di migrazione come di un fenomeno unico. Questo tipo di narrativa, giuridicamente e politicamente imprecisa, non fa altro che confondere il cittadino su una tematica altamente scottante, portando così ad un’interpretazione errata del fenomeno stesso.

Appare dunque di grande importanza fare chiarezza su cosa vuol dire migrazione e su quali sono le principali categorie di flussi migratori.

Generalmente, i principali organi internazionali che si occupano di migrazioni, come l’UNHCR e l’OIM, dividono i flussi migratori in base alle ragioni che spingono le persone ad emigrare. Secondo questa divisione, vi sono tre principali categorie:

  • migrazione volontaria,
  • migrazione forzata, e
  • migrazione mista.

 

La migrazione volontaria fa riferimento a quei migranti che decidono di spostarsi per una libera scelta personale, per cercare migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che su quello economico. Questi migranti, spesso denominati anche migranti economici, includono per esempio 164 milioni di persone che si spostano per motivi di lavoro (ILO 2017), così come 4.8 milioni di studenti internazionali (ILO 2016).

Su un piano diametralmente opposto si trova invece la migrazione forzata, che include coloro che sono costretti a emigrare per cause di forza maggiore, come per esempio guerre, persecuzioni, carestie e disastri naturali. Secondo i dati dell’UNHCR, i migranti appartenenti a questa categoria, inclusi rifugiati, richiedenti asilo e sfollati all’interno del loro stesso Paese di origine, è aumentata notevolmente negli ultimi anni.

Infine, la categoria più diffusa, la migrazione mista, fa riferimento a quei migranti che si spostano insieme, attraverso le stesse rotte, per ragioni differenti. Questa categoria include infatti le due precedenti e vi si possono trovare sia rifugiati che migranti economici. Inoltre, un dato rilevante, è che la migrazione mista spesso avviene in modo irregolare, senza la documentazione necessaria, e può includere il traffico di esseri umani  (IOM).

Ovviamente, tutte queste categorie possono anche includere sotto-categorie[1], divise in base al modo in cui i migranti si spostano. Per esempio, è possibile distinguere tra migranti regolari e irregolari, in base alle modalità con cui arrivano nel Paese ospitante.

Tuttavia, appare fondamentale precisare che queste divisioni non sono categorie giuridiche, e che solo alcune categorie di migranti sono legalmente riconosciute e protette a livello internazionale. Ai giorni nostri, caratterizzati da crescenti flussi migratori e conseguenti dibattiti su come gestirli, assegnare ad ogni categoria il suo nome specifico è di vitale importanza, per non confondere l’opinione pubblica su quali migranti sono titolari di diritti specifici e su come ci si debba comportare in determinate circostanze. Per esempio, confondere i termini “rifugiato” e “migrante”, come spesso accade nei mezzi di informazione, può compromettere il supporto popolare per l’istituzione del diritto d’asilo, in un periodo in cui sempre più rifugiati necessitano di tale protezione (UNHCR 2016).

 

La comunità internazionale: perché i flussi migratori sono in aumento

Come già accennato, i flussi migratori possono essere divisi in varie categorie, le quali godono ciascuna di diversi gradi di protezione internazionale. Tutti i migranti sono infatti protetti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma all’interno di questa macro-categoria, alcune sono protette da specifici accordi internazionali.

Per esempio, i rifugiati godono di speciali diritti, grazie alla Convezione sullo Status dei Rifugiati del 1951 e il relativo Protocollo del 1967. Anche le persone senza nazionalità – stateless people – hanno  particolari diritti, definiti dalla Convention on the Reduction of Statelessness del 1961. Al contrario, le persone sfollate all’interno del loro stesso Paeseinternally displaced personsrimangono sotto la protezione del loro governo, anche nei casi in cui queste siano costrette a fuggire proprio a causa dello stesso. Ciò nonostante, vi sono alcuni accordi regionali sulla protezione degli IDPs, come la Convenzione di Kampala del 2009, in vigore tra i membri dell’Unione Africana.

Le categorie sopra menzionate rientrano tutte nella migrazione forzata, che ha visto un notevole incremento nell’ultimo decennio. Questo dato allarmante è dovuto principalmente a lunghi conflitti, che obbligano le persone a scappare, in cerca di un posto sicuro. In particolare, la guerra civile siriana ha prodotto 6.7 milioni di rifugiati e 6.2 milioni di internally displaced persons, diventando uno dei conflitti con il maggior numero di sfollati al mondo. Le misure oppressive del regime siriano, deliberatamente disegnate per colpire i civili, e il fallimento della comunità internazionale a trovare una soluzione condivisa, sono i principali motivi che impediscono la fine di un conflitto tanto brutale quanto sanguinario. Eppure la guerra in Siria non è che la manifestazione di una più vasta tendenza globale, in cui i conflitti armati si protraggono per molti anni, e in cui i civili sono il bersaglio principale, utile al fine di conquistare o mantenere il potere.

Questa tendenza generale è visibile anche nella guerra in Afghanistan, che ha causato 2.7 milioni di rifugiati, così come nella guerra civile nel Sudan del Sud (conclusasi nel giugno del 2018), con i suoi 2.3 milioni di rifugiati. Vi è poi la crisi venezuelana, che ha contribuito notevolmente ad aumentare i flussi migratori in Sud America, in particolare verso i Paesi confinati, come la Colombia.

Infine, non solo i conflitti armati, ma anche il cambiamento climatico ha giocato un ruolo di primo piano nell’aumentare il numero di persone a rischio. Infatti, specialmente quando il cambiamento climatico impatta regioni già colpite da conflitti armati, questo agisce come un accelerante di instabilità. Per esempio, la siccità e le carestie che hanno colpito la Somalia hanno anche aggravato il conflitto armato contro al-Shabaab, costringendo molte persone a fuggire verso il Kenya e l’Etiopia. Allo stesso modo, la scarsità di acqua nella zona del lago Chad ha causato sanguinose dispute per il controllo delle acque, costringendo così milioni di persone a lasciare le proprie case.

Il fallimento della comunità internazionale nel prevenire i conflitti e trovare soluzioni effettive per contrastare i cambiamenti climatici ha avuto un impatto drammatico sui flussi migratori, che sono destinati ad aumentare notevolmente nei prossimi anni. Anche la cosiddetta migrazione volontaria è infatti spesso legata a situazioni di sotto-sviluppo e mancanza di opportunità di crescita sul piano socio-economico. Infatti, nonostante vari Paesi in via di sviluppo siano caratterizzati da crescita economica, non sempre questo progresso si lega ad un concreto miglioramento delle condizioni di vita. La mancanza di opportunità lavorative e salari adeguati, insieme a sempre crescenti disuguaglianze, prevengono la mobilità sociale, spingendo molti giovani ad emigrare in cerca di opportunità di vita migliori.

 

Prospettive future

Nei prossimi anni i flussi migratori saranno influenzati da numerosi aspetti. Nel breve termine, giocheranno sicuramente un ruolo fondamentale la capacità di risolvere conflitti esistenti e le politiche migratorie adottate dagli Stati. Come precedentemente accennato, i conflitti armati sono tra le principali cause di migrazione forzata. Pertanto, porvi fine attraverso accordi di pace duraturi e ricostruire quelle zone devastate da lunghe guerre intestine consentirebbe a quelle persone di restare nelle loro case, così come permetterebbe ai tanti rifugiati di far ritorno presso il proprio Paese di origine[2].

Oltre a porre fine a questi protratti conflitti, sarebbe anche necessario disegnare politiche migratorie efficaci e di largo respiro. Adottare una prospettiva umanitaria avrebbe infatti un impatto immediato sulle vite di milioni di migranti, contribuendo ad un’effettiva integrazione nei Paesi ospitanti. Inoltre, la comunità internazionale dovrebbe condividere le responsabilità a livello regionale[3], favorendo un processo armonioso di accoglimento dei migranti.

Nel lungo termine, invece, i flussi migratori saranno influenzati principalmente da tre fattori: globalizzazione, cambiamento climatico e sviluppo socio-economico.

La globalizzazione e le tecnologie hanno infatti impattato fortemente i flussi migratori, favorendo il movimento delle persone, e sono destinate a continuare in questa direzione. Secondo alcuni studi, entro il 2030, internet sarà il mezzo più utilizzato per favorire la migrazione, sia legale che illegale (Hellgren, Hoorens, Yaqub, Khodyakov, Kobzar, 2015).

In second luogo, il cambiamento climatico ridisegnerà la mappa delle zone abitabili sulla Terra, accrescendo così il numero delle persone forzatamente sfollate. A riprova di ciò, basti pensare che tra il 2008 e il 2016 i disastri naturali hanno provocato lo sfollamento di 25.3 milioni di persone all’anno (Internal Displacement Monitoring Center 2017) e che, secondo l’OIM, entro il 2050 ci saranno all’incirca 200 milioni di sfollati per cause naturali[4].

Infine, l’altro fattore determinante, è sicuramente lo sviluppo socio-economico. In questo caso, la relazione tra reddito e migrazione segue una forma ad U. Infatti, le persone estremamente povere non hanno i mezzi necessari per spostarsi, mentre con lo sviluppo economico la loro possibilità di emigrare accresce di conseguenza. Una volta raggiunto un certo reddito, la relazione si rovescia e le persone preferiscono rimanere piuttosto che emigrare. Considerando questo dato, è possibile predire che lo sviluppo economico favorirà le migrazioni, specialmente in quei Paesi con un’economia in via di sviluppo, dove milioni di persone stanno uscendo dallo stato di povertà. Allo stesso modo, si suppone che una volta che questi Paesi abbiano raggiunto un certo livello di benessere economico, i loro cittadini preferiranno rimanervi.

 

Conclusioni

Come illustrato in questo articolo, i flussi migratori sono un fenomeno complesso, che richiede altrettante esaustive politiche in materia. Distinguere tra i vari tipi di migrazione è essenziale in un mondo che, come dimostrato da vari studi, sarà sempre più plasmato dallo spostamento delle persone.

Detto ciò, l’obiettivo primario della comunità internazionale dovrebbe essere non quello di fermare i flussi migratori, bensì quello di offrire le possibilità per poter restare nel proprio Paese natale, così come spostarsi in totale sicurezza.

A livello di giurisdizione internazionale, tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero rispettare il Diritto Internazionale Umanitario e il diritto dei conflitti armati, codificato nella Convezione di Ginevra del 1949 e il relativo Protocollo del 1977.

Nonostante alcuni conflitti armati siano infatti inevitabili, è comunque possibile ridurre il loro impatto sui civili, mantenendo un approccio “umanitario” anche durante gli attacchi armati. Come sottolineato dall’Alto Commissario per i Rifugiati Sadako Ogata, le persone hanno il “diritto a restare”, e i governi hanno la responsabilità di salvaguardare questo diritto fondamentale, anche durante azioni di guerra. Il compito della comunità internazionale rimane pertanto quello di supervisionare, affinchè questo diritto non venga mai meno, prevenendo i conflitti, promuovendo la cooperazione transnazionale e punendo coloro che violano i diritti umani.

Informazioni

Collier Paul, “Exodus: How Migration is Changing Our World”, Oxford University Press, New York, 2013

Gabriele Stefania, “Dare e avere: migrazioni, bilancio pubblico e sostenibilità”, in Ronchetti Laura, “I diritti di cittadinanza dei migranti, Il ruolo delle Regioni”, Giuffrè, pp. 301‒327, Milano, 2012

Geneva Convention of 1949, Geneva, 12 August 1949

Hellgren Tess, Hoorens Stijn, Yaqub Ohid, Khodyakov Dmitry, Kobzar Svitlana, “Evolving patterns and impacts of migration”, Global societal trends to 2030: Thematic report 4, Rand Corporation, 2015

UN, Addis Ababa Action Agenda, Addis Ababa, 2015

ILO, Migration Data Portal, https://migrationdataportal.org/?i=stock_abs_&t=2019

Internal Displacement Monitoring Center, Global Report on Internal Displacement, 2017 http://www.internal-displacement.org/global-report/grid2017/

IOM, “Addressing drivers of migration, including adverse effects of climate change, natural disasters and human-made crisis through protection and assistance, sustainable development, poverty eradication, conflict prevention and resolution”, New York, 2017

IOM, “Migration and Climate Change”, IOM Migration Research Series, No. 31, Geneva, 2008

IOM, Mixed Migration, https://rodakar.iom.int/mixed-migration

IOM, Glossary on Migration, IML Series No. 34, 2019

UNHCR, Global Trends Report: Forced Displacement in 2018, Geneva, June 2019

UNHCR, UNHCR viewpoint: ‘Refugee’ or ‘migrant’, 2016

https://www.unhcr.org/news/latest/2016/7/55df0e556/unhcr-viewpoint-refugee-migrant-right.html

[1] Venezia Lorenzo (2018), “Alcune precisazioni sull’immigrazione”, DirittoConsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2018/11/12/alcune-precisazioni-sull-immigrazione/

[2] In relazione a ciò, sarebbero essenziali un accordo di pace sulla guerra civile in Siria, una risoluzione politica alla crisi venezuelana e una pace duratura, unita ad una ricostruzione del Paese, in Afghanistan.

[3] Per esempio, un accordo tra gli Stati membri dell’UE  potrebbe offrire maggiori garanzie di assistenza ai migranti, supportando economicamente quegli Stati che ospitano il maggior numero di migranti.

[4] Relativamente allo sfollamento per cause naturali è fondamentale fare una distinzione tra disastri naturali improvvisi e cambiamenti climatici di lungo termine. Mentre infatti i primi causano lo sfollamento di persone per un periodo limitato di tempo, i secondi producono effetti a lungo termine, inducendo intere comunità ad emigrare senza possibilità di ritorno. Il cambiamento climatico, contribuendo alla scarsezza di cibo e acqua, minaccia direttamente le popolazioni locali, provocando tensioni per il controllo delle poche risorse rimaste.


Velo islamico

Il velo islamico: tra dibattito e diritti

Negli ultimi decenni la “questione del velo islamico” ha provocato un acceso dibattito. Siamo sicuri che limitandone l’uso si tutelino i diritti delle donne musulmane?

 

Il dibattito sul velo islamico

Negli ultimi trent’anni si è discusso molto sull’uso del velo islamico, provocando intensi dibattiti sia in Italia che in altri Paesi europei. In società multiculturali come quelle odierne, promuovere un dibattito oggettivo su questa pratica appare di importanza fondamentale, sia per tutelare i diritti delle donne musulmane che per promuovere una maggiore uguaglianza tra i sessi.

A partire dal 1989, quando tre ragazze marocchine furono espulse da una scuola del nord della Francia per aver indossato l’hijab, la controversia sul diritto delle donne musulmane di indossare il velo islamico è andata aumentando. Attualmente, in Europa, sono in atto limitazioni sull’uso del velo in Francia, Danimarca, Austria, Bulgaria, Belgio e Paesi Bassi, e molti altri Paesi europei, tra cui Italia, Svizzera e Norvegia, stanno discutendo di una sua possibile introduzione. Sempre di più, numerosi politici e media nazionali associano il velo all’integralismo islamico, dipingendo le donne musulmane sia come oppresse, prive di una qualunque volontà individuale, che come agenti del terrorismo, ignorando così i molteplici significati del velo islamico e compromettendo ulteriormente i diritti delle donne.

In questo articolo dimostrerò come le leggi che limitano l’uso del velo islamico, presenti in molti Paesi europei con l’obiettivo di emancipare le donne musulmane, abbiano l’effetto inverso di minare i loro diritti. L’articolo mostrerà come queste leggi siano in realtà il sintomo di un orientalismo che riduce l’Islam ad una religione barbara, sintomatico di una cultura occidentale che non è ancora riuscita a fare i conti con il proprio passato coloniale.

 

L’influenza del discorso neo-coloniale

In un mondo post 11 settembre la crescente paura del fondamentalismo islamico ha rafforzato il discorso sullo “scontro di civiltà”, accrescendo ulteriormente la paura per tutto ciò che ricorda l’Islam, velo islamico incluso.

La rivoluzione iraniana, le guerre del Golfo e i conflitti mediorientali hanno incrementato il supporto per coloro che vedono nell’Islam una minaccia ai valori occidentali. A partire dagli attacchi alle Torri Gemelle, numerosi Paesi occidentali hanno infatti sviluppato un processo di forte securitizzazione, che ha preso di mira principalmente gli immigrati di religione musulmana, portando ad una crescente Islamofobia e a conseguenti discriminazioni nei confronti dei musulmani, tra cui anche la componente femminile. In questo contesto, in cui “l’altro” viene percepito come il nemico, si inserisce “la questione del velo islamico”, che rientra nel più ampio dibattito sul multiculturalismo e la necessità, secondo alcuni, di promuovere politiche più assimilazioniste. Da costoro, le donne musulmane vengono paradossalmente rappresentate sia come terroriste, che minacciano i valori della democrazia liberale, sia come vittime, sottoposte al sistema patriarcale tipico dell’Islam.

Nei media francesi, il velo viene raffigurato “come simbolico della dicotomia di genere che si sta rafforzando tra le donne occidentali liberate e le loro sorelle musulmane oppresse” (Freedman 2007: 30).

 

La pratica dello “svelamento” nella narrativa Orientalista

Questo tipo di narrativa, che considera la disuguaglianza di genere come insita nella religione islamica, trae le proprie origini da ciò che Edward Said teorizzò come “Orientalismo”, ovvero da una rappresentazione paternalistica dell’Oriente, caratteristica del periodo coloniale.

Secondo questa visione, l’Occidente avrebbe il dovere morale di conquistare e civilizzare le “razze” inferiori, per poterle elevare ai valori di un Occidente illuminato. In questa prospettiva, il velo viene percepito come uno dei principali simboli dell’inferiorità islamica. Per questo motivo, le potenze coloniali europee promossero la pratica dello “svelamento”, come simbolo dell’affermazione dei valori occidentali in Medio Oriente. In Algeria, per esempio, le donne “svelate” divennero il simbolo della conquista francese del Paese. Ed è per questo motivo che, durante la guerra d’indipendenza algerina, il velo islamico divenne il simbolo della lotta contro il dominio coloniale francese. Allo stesso modo, durante gli anni ’70 e ’80, numerose donne musulmane ricominciarono ad indossare il velo per rivendicare la propria identità islamica ed opporsi all’interventismo occidentale in Medio Oriente, legato in particolar modo al conflitto arabo-israeliano.

Come dimostrato, durante il periodo coloniale, l’uguaglianza di genere venne usata per giustificare la necessità di conquistare quelle regioni. Allo stesso modo, nell’era contemporanea, parte della critica sostiene che le donne musulmane possano scegliere di abbandonare le loro tradizioni arretrate, sinonimo di una cultura barbara, e assimilarsi ai valori occidentali attraverso la pratica del “togliersi il velo”. Da questa prospettiva, il femminismo appare più come una scusa per proclamare la superiorità dei valori europei, che non come un reale impegno per promuovere l’uguaglianza di genere.

 

Il caso francese e il velo islamico

L’idea che il velo islamico possa costituire una minaccia ai valori occidentali è perfettamente esemplificata nel caso francese. Come illustrato in precedenza, la “questione del velo” ebbe inizio durante il periodo coloniale, quando la Francia, così come altri Paesi europei, promossero la pratica dello “svelamento” come una forma di modernizzazione e civilizzazione. Tuttavia il dibattito su un possibile divieto del velo islamico ebbe inizio ufficialmente solo nel 1989, quando in Francia, il Paese della laicità per eccellenza, tre ragazze marocchine furono escluse dalle lezioni scolastiche poiché indossavano l’hijab. Secondo Ernest Chénière, il preside della scuola, il velo islamico rappresentava una minaccia al secolarismo, valore fondamentale della Repubblica francese. Questa decisione, che obbligò Leila, Fatima e Samira a “svelarsi” per poter riprendere le normali attività scolastiche, provocò un acceso dibattito, che continua fino ai giorni nostri.

Come sostiene lo storico francese Gastaut, il crescente supporto per leggi che vietino il velo, che nel 1994 condusse il Ministero dell’Educazione francese a proibire tutti i simboli religiosi nelle scuole, può essere compreso solo alla luce del più ampio dibattito sull’immigrazione maghrebina nel Paese, che portò la Francia ad abbandonare il multiculturalismo per politiche sempre più restrittive nei confronti delle minoranze musulmane. L’assimilazione venne dunque percepita come la via più facilmente percorribile, al fine di emancipare le donne islamiche e portarle ad abbracciare i valori della Repubblica. Nel 2004, il Presidente francese Chirac, nell’annunciare una nuova legge contro l’uso dei simboli religiosi nelle scuole, affermò che “non possiamo accettare che alcune persone si nascondano dietro ad una concezione aberrante di libertà religiosa per mettere in dubbio i principi fondamentali di una società moderna, tra cui l’uguaglianza di genere e la dignità della donna” (Freedman 2007: 36).

 

La marginalizzazione delle donne musulmane nelle società europee

Nelle società europee le donne musulmane sono spesso vittime di atti di razzismo e violenza. Per questo motivo, numerosi Paesi hanno giustificato le leggi che limitano l’uso del velo Islamico sulla base del fatto che, non indossando più il velo, queste donne sarebbero meno esposte ad atti di razzismo. Anche per questo motivo, la legge del 2004, così come la successiva legge, che nel 2010 vietò di indossare il burqa e il niqab negli spazi pubblici della Repubblica di Francia, furono appoggiate da varie organizzazioni anti-razziste e pro-immigrazione. Inoltre, furono sostenute anche da un numeroso gruppo di rinomate femministe che, partendo da una concezione neo-liberale di società, consideravano il velo Islamico il simbolo più manifesto della dominazione maschile nel mondo islamico. La prospettiva Orientalista era talmente radicata nella società francese che apparse normale avanzare proposte assimilazioniste. Proprio per questa ragione il legame tra le donne che vivevano sotto regimi oppressivi e le immigrate musulmane venne costantemente rimarcato, per promuovere la necessità di una “Guerra al Terrore” anche all’interno dei confini nazionali.

Furono poche le femministe che si opposero a questa visione di società e, tra loro, è da notare la forte critica di Christine Delphy. La sociologa francese dimostrò come le leggi che limitano l’uso del velo islamico avessero in realtà l’effetto contrario a quello sperato, ovvero avrebbero escluso ulteriormente le donne musulmane dalla partecipazione alla vita pubblica. In effetti, come dimostrato da uno studio condotto da Open Society Justice Initiative, la legge francese ha impattato negativamente sulla vita delle donne musulmane. Mentre non ha infatti ridotto il numero di coloro che indossano il velo, le ha invece marginalizzate ulteriormente, riducendo le loro interazioni con la società civile francese e rendendole più vulnerabili ad eventuali soprusi all’interno della sfera privata.

Uno dei punti più controversi di questo tipo di legge è infatti rappresentato dal fatto che i Paesi europei, mentre supportano misure discriminatorie nei confronti delle donne che indossano il velo, al contempo non puniscono efficacemente quegli uomini accusati di violenza domestica all’interno di queste comunità. Anziché assicurare la certezza della pena per coloro che forzano, anche attraverso la violenza, le donne musulmane ad obbedire alle regole imposte dai loro padri e mariti, questi Paesi usano “le donne come un terreno di scontro per il controllo culturale” (Evans 2006: 73). Se la reale preoccupazione delle società europee fosse la violenza contro le donne musulmane, allora sarebbero molto più efficaci leggi contro violenze di questo genere, anziché leggi che colpiscono le “vittime”.

Il divieto di indossare il velo islamico non ha infatti alcun effetto sul sistema patriarcale all’interno delle mura domestiche, al contrario rischia di danneggiare quelle donne che liberamente scelgono di indossare il velo. Il problema del corrente dibattito è che, anche quando le donne scelgono di indossarlo per una volontà personale, questa non viene considerata realmente libera. Sostenere che le donne musulmane non comprendano gli effetti discriminatori del velo e che siano semplicemente succubi di una cultura retrograda, ha l’unico l’effetto di vittimizzarle ulteriormente, riducendo la libera volontà di queste donne a semplici decisioni inconsce.

La narrativa Orientalista, che ha costruito l’immagine di donne oppresse, soggiogate ad una religione aggressiva, ha rinforzato il discorso neo-coloniale che riduce l’Islam ad una serie di stereotipi, sempre più collegati al discorso su terrorismo ed immigrazione. Questa visione non può che distorcere un dibattito oggettivo sul velo islamico, sempre più percepito come una minaccia ai valori della democrazia liberale.

 

Conclusione

Come dimostrato in questo articolo, parte della critica  sembra incapace di abbandonare il discorso neo-coloniale, imperniato sulla prospettiva Orientalista. Proiettando questa visione sulle donne musulmane, parte della società europea, inclusi vari gruppi femministi, si limita ad invocare l’uguaglianza di genere senza investigare i molteplici significati che il velo islamico può assumere. Certamente il velo, in alcuni contesti, simboleggia la sottomissione della donna al sistema patriarcale, ma può anche divenire l’emblema della presa di coscienza femminile: l’accezione del velo cambia infatti a seconda del significato che le donne stesse vogliono attribuirgli.

Limitare l’uso del velo ha l’unico effetto di minare ulteriormente la partecipazione delle donne alla sfera pubblica. Inoltre, questa narrativa impedisce ai Paesi europei di focalizzarsi sulle reali forme di disuguaglianza di genere presenti all’interno delle loro stesse società.

Informazioni

Amer Sahar (2014), “What is Veiling?”, University of North Carolina Press

Beriss David (1990), “Scarves, Schools, and Segregation: The Foulard Affair”, French Politics and Society, Vol. 8, No. 1, pp. 1-13, Berghahn Books

Evans Carolyn (2006), “The Islamic Scarf in the European Court of Human Rights”, Melbourne

Freedman Jane (2007), “Women, Islam and Rights in Europe: Beyond a Universalist/Culturalist Dichotomy”, Review of International Studies, Vol. 33, No. 1, pp. 29-44, Cambridge University Press

Gastaut Yvan (2000), “L’Immigration et l’Opinion en France sous la Ve République”, XXe siècle, Seuil

Mancini Susanna (2019), “European Law and the Veil. Muslim Women from Victims to Emblems of the Enemy”, A. Melloni, F. Cadeddu (eds.), “Religious Literacy, Law and History”, Routledge

Mancini Susanna (2011), “Patriarchy as the exclusive domain of the other: The veil controversy, false projection and cultural racism”, International Journal of Constitutional Law (I•CON), 2012, Vol. 10 No.2, 411–428, Oxford University Press and New York University School of Law

Open Society Justice Initiative (2013), “After the Ban: The Experiences of 35 Women of the Full-Face Veil in France”, https://www.justiceinitiative.org/uploads/86f41710-a2a5-4ae0-a3e7-37cd66f9001d/after-the-ban-experience-full-face-veil-france-20140210.pdf

Said Edward W. (1978), “Orientalism”, New York, Penguin Press

Shirazi Faegheh (2003), “The Veil Unveiled: The Hijab in Modern Culture”, University Press of Florida

DirittoConsenso ha anche parlato di diritti di ogni uomo in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2019/10/02/i-core-rights-treaties-il-cuore-dei-diritti-di-ogni-uomo/