La causa di non punibilità dell'articolo 384 c.p.
Il codice penale disciplina all’articolo 384 c.p. una duplice causa di non punibilità per i reati contro l’amministrazione della giustizia
Il contenuto dell’articolo 384 c.p.
All’interno della disciplina dei delitti contro l’amministrazione della giustizia (libro secondo, titolo III del codice penale)[1], che tutela il corretto svolgimento dell’attività giurisdizionale, il legislatore ha introdotto all’articolo 384 c.p. una duplice causa di non punibilità[2]:
- Il primo comma prevede la non punibilità per i reati di omessa denuncia, omissione di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false dichiarazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale, favoreggiamento personale se il soggetto li ha commessi “costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”. Questa disposizione fa riferimento al fatto che l’eventuale inizio di un procedimento penale, ed il rischio di una condanna, costituiscono sicuramente un fatto lesivo del proprio onore e, potenzialmente, anche della propria libertà, ragion per cui il legislatore ha scelto di non punire chi abbia nuociuto allo svolgimento dell’attività giurisdizionale per tutelare sé stesso o un prossimo congiunto da tale pericolo.
- Il secondo comma prevede, invece, la non punibilità per i reati di false dichiarazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, se commessi da un soggetto che non avrebbe dovuto essere sentito come persona informata sui fatti o come testimone o incaricato di redigere perizia o eseguire interpretazione, o comunque non avrebbe dovuto essere obbligato a deporre o a redigere perizia o eseguire interpretazione.
La norma risponde alla medesima ratio da cui dipende il comma precedente e fa riferimento alla sua trasposizione processuale. Il codice di procedura penale, infatti, all’art. 199[3] prevede che, al momento di assumere informazioni da persone informate sui fatti o di escutere i testimoni, qualora essi siano prossimi congiunti dell’imputato devono essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni e non possono esservi obbligati.
Con l’articolo 384, in sostanza, il legislatore ha scelto di fare un bilanciamento tra l’interesse a tutelare l’amministrazione della giustizia e la protezione della famiglia che è sancita anche all’art. 29 della Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU)[4].
Relativamente al primo comma dell’articolo 384, si sono sviluppati forti dibattiti fra dottrina e giurisprudenza: la questione sorta riguarda la possibilità di applicare la relativa disciplina analogicamente anche al convivente more uxorio, considerando che non è espressamente previsto un riferimento alle famiglie di fatto, che tuttavia costituiscono ormai una realtà che è parte integrante della nostra società. Nei prossimi paragrafi affronteremo gli sviluppi della questione.
Il problema della qualificazione giuridica ai fini dell’analogia: spiegazione sulle categorie di cause di non punibilità
Nel nostro ordinamento, in ossequio ai principii di tassatività e determinatezza, vige il divieto di analogia relativamente alle norme penali ed alle norme di natura eccezionale, come sancito dall’art. 14 delle Preleggi al codice civile. Nella prassi giurisprudenziale emergono frequentemente situazioni di fatto richiedenti tutela, ma caratterizzate da un vuoto normativo. Per questa ragione, gli interpreti generalmente ammettono la possibilità di applicare in via analogica favorevole le norme, fermo restando comunque il divieto di analogia “in malam partem” ossia sfavorevole al reo.
I presupposti per l’ammissibilità dell’analogia “in bonam partem”, quindi sono la non eccezionalità della norma da applicare e la non volontarietà della lacuna esistente, poiché non deve trattarsi di un’ipotesi appositamente esclusa dal legislatore.
Per capire se l’articolo 384 c.p. sia suscettibile di interpretazione analogica, bisogna preliminarmente stabilire esattamente a quale categoria di causa di non punibilità appartenga: alcune di esse, infatti, sono considerate di natura eccezionale e quindi incompatibili con l’analogia.
A tal proposito, il codice penale non introduce un discrimen fra le norme di questa tipologia, utilizzando sovente la generica espressione “non è punibile chi…”.
La dottrina[5], quindi, ha elaborato le categorie delle scusanti o cause di esclusione della colpevolezza, delle scriminanti o cause di giustificazione, e delle cause di non punibilità in senso stretto.
Le scusanti, o esimenti, costituiscono cause di esclusione della colpevolezza: ove queste sono riconosciute, cioè, non viene negata l’illiceità della condotta posta in essere dal reo, ma si esclude la sua volontà nella causazione dell’evento. In questo caso, cioè, il comportamento del reo è considerato inevitabile, poiché la condotta osservante del precetto si pone, allo stesso tempo, come inesigibile. È possibile trarre degli esempi di meccanismo dalle ipotesi di reato commessa per caso fortuito o forza maggiore, di cui all’art. 45 c.p., o compiuto sotto costringimento fisico, ai sensi dell’art. 46 c.p.: in simili fattispecie, l’illecito non è voluto dal soggetto agente, che si trova costretto a violare il precetto; il legislatore, quindi, in questa sede non ne esige il rispetto della disposizione penale, perché ciò andrebbe contro l’integrità della persona stessa.
La maggior parte della dottrina considera di natura eccezionale le norme che contengono esimenti, ed in quanto tali non suscettibili di interpretazione analogica[6].
Dalle scusanti si distinguono, invece, le cause di giustificazione, o scriminanti. Queste sono espressione di principi generali dell’ordinamento, come ad esempio la legittima difesa o lo stato di necessità, ragion per cui è direttamente esclusa la sussistenza del reato quando le condotte sono commesse in applicazione di tali principii. In quanto regole di portata generale, quindi, sono ritenute passibili di analogia; a livello codicistico, sono rappresentate dagli artt. 50 – 54 c.p.
Ulteriormente differente, poi, è la ratio sottesa dalle cause di non punibilità in senso stretto. Queste non escludono né la sussistenza del reato né la colpevolezza, ma rispondono ad una scelta del legislatore di non punire condotte commesse in determinate circostanze, come, ad esempio, i reati contro il patrimonio commessi a danno di congiunti, ai sensi dell’art. 649 comma 1 c.p.[7] . Anche in questo caso, le disposizioni hanno natura di eccezioni rispetto alle regole generali e sono, pertanto, insuscettibili di analogia.
Ciò premesso, negli anni la giurisprudenza ha oscillato nel qualificare l’articolo 384 c.p. ogni volta sotto una diversa categoria fra quelle appena analizzate.
Recentemente, le Sezioni Unite di Cassazione hanno posto fine alla diatriba.
Legge Cirinnà e conviventi more uxorio
Nell’individuazione dei soggetti che rientrano nel novero dei prossimi congiunti, occorre richiamare l’art. 307, comma 4 c.p., che introduce la causa di punibilità per coloro che abbiano assistito i partecipanti di banda armata o di cospirazione, qualora si sia trattato di prossimi congiunti, identificati come: ascendenti, discendenti, coniugi, fratelli o sorelle, affini nello stesso grado, zii, nipoti.
Recente modifica dell’articolo è intervenuta con il decreto legislativo 19 gennaio 2017 n. 6, attuativo della delega disposta dalla Legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. “Legge Cirinnà”, recante la “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”[8].
Infatti, con riguardo alle cause di non punibilità, la citata legge ha inserito, negli articoli 307 e 649 c.p., apposito riferimento alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, equiparata al coniuge ai fini di legge. La commissione dei citati reati per favorire la parte dell’unione civile, quindi, sarà non punibile al pari di quella a favore del coniuge[9].
Non è stato inserito, invece, riferimento alcuno al convivente more uxorio, poiché ciò non rientrava nel contenuto della delega legislativa. Relativamente alla convivenza, infatti, l’intervento della Legge Cirinnà ha comportato l’equiparazione tra coniugi e conviventi non in maniera globale, come per le unioni civili, ma solo nel settore dell’assistenza sanitaria, dell’impresa familiare, del diritto di visita previsto in ambito penitenziario, della gestione della casa di comune residenza.
Il perdurare del mancato riferimento al convivente ha destato, come anticipato sopra, numerose perplessità fra dottrina e giurisprudenza, che hanno formato due contrapposti orientamenti.
Gli orientamenti e l’interpretazione a favore del convivente more uxorio
- Il primo è sfavorevole all’estensione analogica dell’art. 384 a simili fattispecie. Esso dà risalto, in primo luogo, al tenore letterale delle disposizioni, osservando che in nessuna delle citate cause di non punibilità si menziona il convivente, laddove invece, operando un raffronto di tipo sistematico, in altre disposizioni penali è espressamente prevista anche tale figura. Per esempio, i reati di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori, di cui rispettivamente agli articoli 572 e 612 bisp., sono punibili anche se commessi a danno di persona convivente; parimenti, tra le aggravanti del delitto di omicidio elencate dall’art. 577 c.p., dopo recente modifica, quella della commissione contro il convivente è contemplata insieme a quella contro il coniuge. In ambito processuale, inoltre, la facoltà di astensione dal rendere dichiarazioni rispetto ad un congiunto è riconosciuta anche al convivente, oltre che al coniuge, ai sensi dell’art. 199, comma 3, lettera a c.p.p. Seguendo il brocardo latino ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit, emergerebbe quindi che il legislatore non abbia tralasciato la tutela del convivente in qualunque tipo di disciplina, ma che l’abbia voluta prevedere espressamente solo rispetto ad alcuni istituti, omettendola quindi deliberatamente in altri casi, come per le cause di non punibilità[10].
- Il secondo orientamento, propende per l’applicabilità dell’art. 384 c.p. al convivente, proponendo una lettura teleologica della citata causa di non punibilità: è stato evidenziato, cioè, come il fine della norma sia di tutelare i soggetti e le loro relazioni affettive, non punendo condotte contro l’amministrazione della giustizia commesse proprio in dipendenza da tali legami, fra cui quindi andrebbe ricompresa anche la convivenza. Secondo una lettura sistematica, la previsione della facoltà di non rispondere anche per il convivente, ai sensi dell’art. 199 c.p.p., sarebbe dimostrazione di tale In una prospettiva evolutiva, inoltre, è stato osservato come i rapporti di convivenza abbiano raggiunto un peso e una diffusione sempre maggiori nella nostra società, rispetto al secolo scorso, e come quindi risulti “automatico” estendervi oggi la disciplina dell’articolo 384 c.p.: si opererebbe un bilanciamento di valori fra la necessità di tutela di tale formazione sociale e la protezione del corretto funzionamento dell’attività giudiziaria.
La giurisprudenza più recente propende per il secondo orientamento, come si vedrà nel prossimo paragrafo.
Il nuovo intervento delle Sezioni Unite
Da ultimo, con l’arresto decisivo delle Sezioni Unite nella sentenza del 16 marzo 2021, n. 10381[11], è stata affermata la natura di esimente dell’articolo 384 c.p., superando stavolta la tradizionale concezione di eccezionalità delle cause di esclusione della colpevolezza.
In questa sede, infatti, la Suprema Corte ha definitivamente collocato l’articolo 384 fra le cause di esclusione della colpevolezza, ritenendo che, in ossequio al valore innegabile della famiglia, sia inesigibile dall’individuo un comportamento che esponga un suo congiunto alla possibilità di essere sottoposto a procedimento penale e ad eventuali misure restrittive della libertà personale.
Per questo motivo, innovando l’interpretazione tradizionale dell’istituto che considerava le esimenti come cause eccezionali, è stato affermato che l’esimente dell’articolo 384 c.p. risponda ad un principio generale dell’ordinamento, cioè appunto quello di intangibilità dei rapporti familiari.
In aggiunta, l’esclusione operata dalla “Legge Cirinnà” è stata interpretata dalla Corte non come una scelta di sottrarre la famiglia di fatto allo stesso regime di tutela introdotto per le unioni civili. Ad avviso delle Sezioni Unite, infatti, il legislatore si sarebbe soffermato quantitativamente di meno sulla disciplina della famiglia di fatto, rispetto a quella delle unioni civili, solo perché essa costituisce già un istituto pienamente diffuso ed accolto nel nostro ordinamento: considerando quindi già indubbia la sua tutela, a differenza delle unioni tra persone dello stesso sesso che hanno costituito una totale novità da regolamentare “partendo da zero”.
Per questi motivi, dunque, la Corte ha ammesso con fermezza la possibilità e la necessità di applicare analogicamente l’articolo 384 c.p. anche al convivente more uxorio, in osservanza della forte incidenza di casi di questo tipo richiedenti tutela e della naturale propensione dell’uomo a proteggere sé stesso ed i propri congiunti.
Conclusioni
L’articolo 384 c.p. costituisce una causa di esclusione di colpevolezza che risponde ad un principio generale nel nostro ordinamento ed è ormai pacifica la sua estensibilità in analogia al convivente di fatto.
Non resta che attendere un ulteriore intervento del legislatore che modifichi la formulazione della norma in tal senso, fugando definitivamente ogni dubbio interpretativo.
Informazioni
Fratini M., Manuale sistematico di diritto penale, Accademia del Diritto, 2020
Garofoli R., Compendio di diritto penale – parte speciale, NelDiritto Editore, 2020
http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/08/la-non-punibilita/
https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg
https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[1] Garofoli R., Compendio di diritto penale – parte speciale, NelDiritto Editore, 2020, pagg. 230-234.
[2] Per una riflessione critica sulle ipotesi di non punibilità previste dal legislatore, http://www.dirittoconsenso.it/2020/01/08/la-non-punibilita/ .
[3] I prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre. Devono tuttavia deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato.
Il giudice, a pena di nullità, avvisa le persone predette della facoltà di astenersi chiedendo loro se intendono avvalersene.
Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione. Si applicano inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale o derivante da un’unione civile tra persone dello stesso sesso:
a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso;
b) al coniuge separato dell’imputato;
c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio o dell’unione civile tra persone dello stesso sesso contratti con l’imputato.
[4] Per consultare il testo della Convenzione Europea dei Diritti Umani https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf. Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
[5] Fratini M., Manuale sistematico di diritto penale, Accademia del Diritto, 2020, pagg. 295-300.
[6] Non sarà possibile neanche l’estensione alll’eventuale correo. Resta aperta, peraltro, la possibilità di eventuale responsabilità civile per gli atti commessi, rispetto a chi ne abbia patito un danno ingiusto, dato che comunque l’antigiuridicità non ne è esclusa.
[7] Art. 649 comma 1 c.p.: Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno:
1) del coniuge non legalmente separato;
1-bis) della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso;
2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato;
3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano.
[8] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg
[9] L’assimilazione fra matrimonio ed unione civile agli effetti penali è espressamente prevista, altresì, dall’art. 574 ter c.p., introdotto dalla Legge 76 del 2016: “Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.”
[10] A tal proposito, la giurisprudenza di merito si è interrogata sulla legittimità della previsione rispetto agli artt. 2 e 3 della Costituzione. La Corte Costituzionale, in proposito, con la sentenza 4 maggio 2009, n. 140 ha dichiarato manifestamente infondata la questione, ritenendo la previsione del legislatore ragionevole e frutto di una legittima discrezionalità: infatti, il fondamento della tutela del coniuge e, dunque, della famiglia, si fonda sull’art. 29 della Costituzione, che non ricomprende però anche la convivenza; quest’ultima può trovare riconoscimento, al più, ai sensi dell’art. 2 Cost., come formazione sociale entro la quale si sviluppa la persona, che il legislatore può discrezionalmente scegliere come tutelare. https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do . A propria volta, anche la Corte europea dei diritti umani, nel caso Van der Heijden contro Paesi Bassi ha ritenuto la differenza di trattamento giuridico, fra coniugi e conviventi in ambito processualpenalistico, non irragionevole e non costituente violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-110188
[11] Per consultare il testo della sentenza: https://www.sistemapenale.it/it/documenti/sezioni-unite-10381-2021-art-384-primo-comma-convivente-more-uxorio
La figura del commissario ad acta
In alcune ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione, la legge prevede la nomina del commissario ad acta
Il “silenzio inadempimento” e il commissario ad acta
La figura del commissario ad acta “entra in gioco” nei procedimenti amministrativi per supplire alle ipotesi di inoperosità della pubblica amministrazione. Si tratta di una figura mutuata dal diritto processuale amministrativo, dove ha origine l’istituto, come vedremo nei paragrafi successivi.
Infatti, l’art. 97 della Costituzione italiana sancisce il principio del buon andamento: questo postula uno svolgimento dell’attività amministrativa all’insegna della massima efficienza[1] possibile, che si traduce nella doverosità dell’azione amministrativa. Per l’appunto, nei casi in cui si deve procedere d’ufficio, oppure dinanzi all’istanza del privato portatore di un interesse legittimo, l’amministrazione ha il duplice dovere di avviare il procedimento amministrativo e di emanare un provvedimento amministrativo, come si evince dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241[2].
L’obbligo riguarda non soltanto il se provvedere, ma anche il quando: il procedimento, infatti, si basa su precisi termini dettati dalla citata legge, e l’inutile decorso di questi determinerà specifiche conseguenze giuridiche[3].
In proposito, il legislatore disciplina tassativamente i casi in cui il silenzio dell’amministrazione si debba intendere come significativo: solo in tali ipotesi, la mancata risposta dell’amministrazione alle istanze del privato, entro i termini stabiliti, sarà da intendersi come silenzio-rigetto o silenzio-assenso, in base all’espressa previsione di legge[4].
In tutti gli altri casi, si parla di silenzio-inadempimento: l’amministrazione, che non si adoperi per rispondere al privato, tradisce la sua legittima aspettativa in una certezza dei tempi del procedimento e così mina l’efficienza[5] dell’attività amministrativa.
Per questo motivo, la legge prevede svariati istituti per rimediare all’inerzia, fra cui appunto quello del commissario ad acta.
In particolare, il comma 2 bis dell’art. 2, legge 241/90, prevede l’esistenza di un potere sostitutivo, da attribuire ad un soggetto in posizione apicale all’interno dell’amministrazione: di regola, il dirigente generale o il dirigente dell’ufficio. Decorso il termine per la conclusione del procedimento, il privato può rivolgersi al titolare del potere sostitutivo. Ai sensi del comma 9 ter, quest’ultimo, entro un termine pari alla metà del tempo previsto in origine, potrà concludere il procedimento oppure nominare un commissario[6]. Il commissario, a propria volta, potrà sostituirsi all’amministrazione e compiere gli atti necessari per concludere il procedimento amministrativo ed emanare un provvedimento.
Nel quarto e nel quinto paragrafo affronteremo le conseguenze della nomina del commissario, rispetto al potere dell’amministrazione che ne viene sostituita.
Il commissario ad acta nel processo amministrativo
La prima ipotesi di commissario si ravvisa all’interno del ricorso avverso il silenzio amministrativo, introdotto dagli artt. 31 e 117[7] del codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, d’ora in poi c.p.a.)[8].
Dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali (o TAR), infatti, il privato può chiedere che sia accertato l’obbligo di provvedere che l’amministrazione aveva, in modo che sia pronunciata, se la domanda è fondata, una sentenza di condanna[9] ad emettere il provvedimento per il quale era stata fatta originaria istanza. In questa sede, il giudice nominerà, ove necessario, il commissario ad acta con la sentenza, o successivamente su istanza della parte interessata.
Così, il commissario eserciterà i poteri originariamente spettanti all’amministrazione, in modo da compiere tutti gli atti necessari per pervenire all’emanazione del provvedimento dovuto.
Ai sensi dell’art. 117 comma 4, inoltre, la competenza per eventuali controversie attinenti l’adozione del provvedimento, compresi gli atti del commissario, spetta allo stesso giudice adito per il ricorso avverso il silenzio.
Sempre in sede giurisdizionale, esiste inoltre l’istituto dell’ottemperanza. Si tratta di un rimedio disciplinato dagli artt. 112-115 del c.p.a., che la parte interessata può azionare dopo la pronuncia della sentenza passata in giudicato se l’amministrazione non vi si è conformata, restando inerte.
Tale ricorso si propone dinanzi al medesimo giudice che aveva pronunciato la sentenza non eseguita dall’amministrazione: questo, in caso di accoglimento, potrà nominare il commissario, che si sostituirà anche in questa ipotesi all’amministrazione, allo scopo, appunto, di ottemperare alle statuizioni del giudice.
In modo parallelo rispetto all’art. 117, l’art. 114 comma 6 prevede che gli atti del commissario siano eventualmente reclamabili dinanzi al medesimo giudice dell’ottemperanza.
Inoltre, ulteriore ipotesi di nomina del commissario è contemplata dall’art. 34, comma 1 lettera e: il giudice, nella sentenza di merito, può disporre ”le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”.
Per assicurare l’attuazione delle sentenze passate in giudicato, quindi, prima ancora che sia proposto il ricorso in ottemperanza il giudice, anche d’ufficio, può nominare un commissario.
Ancora, nell’ambito delle misure cautelari[10], ai sensi dell’art. 59 c.p.a. il giudice, su istanza motivata dell’interessato può esercitare i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza, ivi compreso quello di nominare il commissario ad acta.
Che natura ha la figura del commissario ad acta?
Quanto alla natura del commissario, questi è espressamente collocato dal codice amministrativo fra gli ausiliari del giudice: l’art. 21 c.p.a., appunto, dichiara che il giudice, se nell’ambito della propria giurisdizione deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare il commissario come proprio ausiliario.
E’ opportuno menzionare, tuttavia, la differenza operata da parte della dottrina[11] tra la natura del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio ed in sede di ottemperanza.
Si ritiene, infatti, che la qualificazione come ausiliario del giudice valga solo per il commissario dell’ottemperanza, la cui funzione sostitutiva attiene solo al compimento degli atti necessari per eseguire una sentenza; il commissario nominato dal giudice nel ricorso contro il silenzio, invece, si distinguerebbe in quanto gode di poteri più ampli, poiché potrà sostituirsi all’amministrazione in modo pieno, per adottare appunto un provvedimento che l’amministrazione aveva omesso. Per questo motivo, quindi, questo tipo di commissario è considerato organo amministrativo straordinario, titolare di un potere sostitutivo assimilabile a quello esercitato da un dirigente in caso di inerzia dell’amministrazione a sé subordinata. Si tratta, tuttavia, di una lettura dottrinale che è stata recentemente sconfessata, come vedremo tra poco.
Cosa succede ai poteri dell’amministrazione sostituita?
Considerata l’entità dei poteri del commissario ad acta, in tutte le ipotesi di legge che abbiamo passato in rassegna, sorge spontaneo chiedersi cosa resti dei poteri originari dell’amministrazione sostituita da questo e, in particolare, se possano essere esercitati tardivamente con l’emanazione di atti amministrativi.
La risposta a tale quesito è di notevole peso perché affermare che esista ancora o si sia esaurito il potere dell’amministrazione dopo la nomina del commissario, comporta che gli atti compiuti in quel lasso di tempo siano efficaci, se si ammette che esiste ancora un potere, o inefficaci, se si afferma che quel potere non esiste più.
Al riguardo, si contrappongono i seguenti orientamenti in proposito:
- il primo si basa sul c.d. principio dell’inesauribilità del potere, tale per cui l’amministrazione possa provvedere anche scaduto il termine, fintantoché non abbia provveduto il commissario. In proposito, la legge 6 dicembre 1971, n. 1034, di istituzione dei TAR, all’art. 21 bis prevedeva che il commissario, all’atto dell’insediamento e preliminarmente all’emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accertasse se anteriormente alla data dell’insediamento l’amministrazione avesse già provveduto, anche in seguito alla nomina del commissario da parte del giudice. Questo fa propendere a favore del principio di inesauribilità: tuttavia, nel c.p.a., che ha abrogato le precedenti norme in materia processuale amministrativa, non è confluita questa previsione, e da ciò si potrebbe desumere una diversa volontà del legislatore.
- il secondo orientamento considera esistente il potere dell’amministrazione solo fino alla nomina del commissario da parte del giudice. Il fondamento di tale lettura si trova nella considerazione che il medesimo potere non possa essere esercitato in contemporanea sia dall’amministrazione, sia dal commissario, ragion per cui si verifica un esautoramento dell’amministrazione non appena viene nominato il commissario.
- il terzo orientamento ritiene invece sopravvivere il potere dell’amministrazione fino all’effettivo insediamento del commissario, perché solo allora avverrebbe il trasferimento del potere pubblico a costui.
Altra questione molto dibattuta, al contempo, riguarda il tipo di eventuale inefficacia che colpirebbe l’atto amministrativo tardivo: l’opinione prevalente[12] la classifica come nullità, evidenziando come un atto adottato in carenza di potere integri l’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione di cui all’art. 21 septies della legge 241/90[13].
Si tratta della più grave forma di patologia dell’atto amministrativo, non convalidabile; inoltre, ai sensi dell’art. 31 comma 4 c.p.a., può essere rilevata d’ufficio dal giudice amministrativo in qualsiasi momento.
I chiarimenti offerti dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
Su tali dibattute questioni, è intervenuta recentemente un’importante pronuncia di Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la n. 8 del 25 maggio 2021, che ha chiarito come interpretare il panorama normativo sull’istituto.
Quanto alla natura del commissario, ne è stata ribadita la qualifica di ausiliario del giudice, in relazione a cui si configura un’ipotesi di potere concorrente fra costui e l’amministrazione. Non si verifica, quindi, alcun esautoramento, né con la nomina né con l’insediamento del commissario.
Viene negato in quest’occasione, quindi, l’orientamento che propendeva per la natura di organo straordinario dell’amministrazione, per molteplici ragioni:
- il codice amministrativo all’art. 21 prevede espressamente la sola nozione di commissario come ausiliario;
- il fondamento del suo potere si trova nella sentenza del giudice, mentre il potere dell’amministrazione nasce dalla legge stessa;
- anche il fine è differente: il primo è funzionale all’esecuzione di quanto disposto in giudizio, il secondo è finalizzato alla cura degli interessi pubblici. Ecco perché i due poteri coesistono e non vanno confusi, né si può ritenere che il potere amministrativo si esaurisca in favore di quello del commissario.
Ad ulteriore conferma di ciò, si pone il dato normativo circa la competenza sugli atti del commissario, ad esempio qualora vengano adottati dopo che l’amministrazione abbia provveduto. Ai sensi degli artt. 114 comma 6 e 117 comma 4 c.p.a., tale competenza spetta al medesimo giudice che lo ha nominato, non vi è autonoma impugnabilità con ricorso amministrativo come per i provvedimenti dell’amministrazione, né possono essere revocati in autotutela o annullati d’ufficio dall’amministrazione.
Similmente, qualora l’amministrazione adotti provvedimenti dopo che il commissario abbia già provveduto, chi vi abbia interesse può chiedere che ne sia dichiarata l’inefficacia al medesimo giudice di cui sopra.
Quando invece gli atti dell’amministrazione pervengono successivamente alla nomina o l’insediamento del commissario, ma prima che questi abbia provveduto, essendo adottati con pieni poteri sono perfettamente validi ed efficaci, non affetti da nullità per difetto di attribuzione. Semmai, invece, fossero in contrasto con le disposizioni del giudice, potrebbero essere nulli per violazione o elusione del giudicato.
Conclusioni
Grazie a questa pronuncia sembra, quindi, sia stata posta fine al risalente dibattito inerente la figura del commissario ad acta.
In definitiva si può affermare che:
- va considerato come un ausiliario del giudice,
- eserciterà il potere di adottare provvedimenti amministrativi in maniera concorrente con l’amministrazione sostituita inerte, ma senza esaurirne il potere,
- gli eventuali atti dell’amministrazione saranno quindi efficaci, salvo che intervengano dopo che il commissario abbia già adottato i propri provvedimenti; e questi ultimi saranno eventualmente reclamabili dinanzi al giudice che ha nominato il commissario e non revocabili in autotutela né impugnabili autonomamente.
Informazioni
Fratini M., Manuale sistematico di diritto amministrativo, Accademia del Diritto, 2020
Garofoli R., Compendio di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021
https://www.bosettiegatti.eu/info/norme/statali/1990_0241.htm
https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/09/10/codice-del-processo-amministrativo
http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/30/uno-schema-sul-processo-amministrativo/
[1] Art. 1, comma 1 legge 241/90: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princípi dell’ordinamento comunitario”. Cfr. anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41 comma 1: “Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione”.
[2] “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. […]” . Per il testo di legge completo, https://www.bosettiegatti.eu/info/norme/statali/1990_0241.htm .
[3] Garofoli R., Compendio di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021, pagg. 410 e ss.
[4] Cfr. art. 20, legge 241/90.
[5] In riferimento alla legge 241/90 ricordiamo inoltre che: il mancato rispetto dei termini del procedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale del dirigente e del funzionario inadempiente, nonché della responsabilità disciplinare e contabile (art. 2, comma 9); il privato può inoltre chiedere il risarcimento del danno ingiusto causato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine (art. 2 bis).
[6] Il comma 9 ter dell’art. 2 è stato introdotto dalla legge 120/2020, c.d. legge semplificazioni, e recita: “Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento o quello superiore di cui al comma 7, il responsabile o l’unità organizzativa di cui al comma 9-bis, d’ufficio o su richiesta dell’interessato, esercita il potere sostitutivo e, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, conclude il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario.”
[7] https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/09/10/codice-del-processo-amministrativo
[8] Per una panoramica sul processo amministrativo, v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/30/uno-schema-sul-processo-amministrativo/
[9] Ciò potrà accadere purché si tratti di giurisdizione di merito ai sensi dell’art. 34 c.p.a.: infatti, nella giurisdizione amministrativa vige la regola generale, secondo cui il giudice conosce dei vizi di legittimità ma non può entrare nel merito dell’attività amministrativa discrezionale, in ossequio al principio di separazione dei poteri. Pertanto, ai sensi dell’art. 31 comma 3, il giudice potrà pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza originariamente presentata dal privato all’amministrazione, solo quando si tratti di attività vincolata o comunque non residuino margini di esercizio della discrezionalità, e non siano necessari adempimenti istruttori da parte dell’amministrazione.
[10] Disciplinate dagli artt. 55-62 c.p.a., sono misure temporanee ed urgenti che il ricorrente può richiedere al giudice in pendenza del giudizio principale, se dimostra che potrebbe subire un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario per lo svolgimento del processo.
[11] Garofoli R., Compendio di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021, pag. 422.
[12] Fratini M., Manuale sistematico di diritto amministrativo, Accademia del Diritto, 2020, pag. 564.
[13] La nullità può altresì dipendere da violazione o elusione del giudicato oppure da mancanza degli elementi essenziali del provvedimento, o negli altri casi previsti dalla legge. Differente categoria di inefficacia del provvedimento amministrativo è invece quella dell’annullabilità ai sensi del successivo art. 21 octies, che colpisce il provvedimento adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
Cosa sono le società in house?
In materia di appalti pubblici, una panoramica sul meccanismo dell’affidamento diretto alle società in house
Le caratteristiche delle società in house
Fra gli enti[1] che concorrono alla realizzazione ed alla distribuzione di beni e servizi di interesse generale si distingue l’impresa pubblica. Si tratta di un’impresa la cui attività, appunto, è esercitata da un soggetto pubblico. In proposito, l’art. 3, lettera t, del Codice dei Contratti Pubblici[2], ne individua come caratteristica fondamentale l’influenza dominante da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, che si realizza in virtù delle norme regolatrici delle imprese, o qualora le amministrazioni ne siano proprietarie, o vi abbiano una partecipazione finanziaria[3]. Per mezzo delle imprese pubbliche, lo Stato soddisfa interessi di ordine generale assumendosi direttamente la gestione dell’attività d’impresa. Questa, quindi, ha carattere commerciale o industriale ed è svolta secondo criteri di redditività. Tra i modelli d’impresa pubblica esistenti si distingue la società in house. Essa costituisce una longa manus dell’amministrazione, un’estensione tramite cui essa produce beni e servizi pubblici[4].
A partire dalla sentenza Teckal pronunciata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nel 1999[5], la giurisprudenza ha elaborato le caratteristiche della società in house. Queste, oggi codificate all’interno del d.lgs. 175/2016, c.d. Testo unico delle società a partecipazione pubblica, sono all’art. 16[6]:
- l’influenza determinante,
- l’attività prevalentemente svolta a favore dell’ente aggiudicatore,
- la sottoposizione al controllo analogo.
Affinché la società realizzi un interesse di ordine generale, infatti, è necessario che oltre l’80% delle sue attività sia svolto a favore dell’ente aggiudicatore controllante. L’importante distinzione tra questa categoria e le altre imprese pubbliche è individuabile nel divieto di partecipazione del privato. Questa, infatti, non è ammessa neanche in forma minoritaria, perché ciò costituirebbe una forma di favore verso un interesse privato e così una distorsione dall’interesse pubblico, quindi una violazione della disciplina della concorrenza[7].
L’influenza dell’ente aggiudicatore, cioè, è determinante in quanto onnicomprensiva, tale da escludere i poteri gestionali del consiglio di amministrazione. In tal senso, l’intensità dell’influenza esercitata delinea la differenza dall’organismo di diritto pubblico, altro esempio di ente pubblico che è invece sottoposto ad un’influenza dominante, ma non assoluta come nel caso in esame.
La forma di controllo pubblicistico sulla società, pertanto, è così stringente da essere analogo a quello operato sui servizi interni dell’amministrazione: ecco perché si parla del cd. controllo analogo.
Ricorso al mercato e affidamento in house
L’in house providing, o affidamento diretto, consiste nell’autoproduzione di beni, servizi e lavori da parte della pubblica amministrazione: essa, cioè, acquisisce un bene o servizio attingendo direttamente da una società formalmente privata di cui ha il controllo, senza ricorrere al mercato. Così non viene utilizzata la procedura di evidenza pubblica per l’affidamento dell’appalto ad un soggetto terzo[8].
Si realizza, in questo modo, la cosiddetta internalizzazione, con la quale la pubblica amministrazione si serve della società in house come ente strumentale, sotto il suo controllo, anziché rivolgersi ad imprese o società private (outsourcing o contracting out, ossia esternalizzazione).
Occorre evidenziare che l’affidamento diretto non costituisce uno strumento che favorisce i meccanismi della concorrenza di mercato, dato che è sottratto alla disciplina delle procedure di appalto pubblico; la normativa europea e la conseguente giurisprudenza, d’altro canto propendono a favore degli istituti pro-concorrenziali.
Tuttavia, secondo la giurisprudenza comunitaria consolidata dopo la sentenza Teckal[9], è ormai assodato che l’affidamento diretto sia ammissibile in quanto esprime il principio di auto-organizzazione della pubblica amministrazione: perché, di fatto, quando viene affidato un appalto o una concessione ad una società in house è l’amministrazione stessa a produrre un bene o fornire un servizio, dato che quella società è una sua articolazione interna, con cui intercorre rapporto organico. Non viene stipulato, quindi, un contratto pubblico con la società in house: ecco perché non si applica la disciplina dell’evidenza pubblica, come ribadito dalla CGUE con la sentenza Stadt Halle del 2005[10].
Per l’ammissibilità dell’internalizzazione, comunque, devono sussistere i requisiti sopra citati, ossia: il controllo esercitato dall’amministrazione sulla società deve essere analogo a quello esercitato sui propri organi; l’attività svolta dalla società deve essere prevalentemente a favore dell’amministrazione controllante.
Il sistema attualmente vigente si basa sull’alternatività fra i due meccanismi del ricorso al mercato e dell’affidamento diretto[11].
A questo proposito, il legislatore ha optato per un maggior favore verso il regime della concorrenza di mercato: a carico dell’amministrazione, infatti, con l’art. 192 del Codice dei Contratti Pubblici ha sancito un obbligo di motivazione che opera qualora venga preferito l’affidamento in house all’esternalizzazione. La regola è, dunque, il ricorso al mercato, mentre l’internalizzazione ne costituisce l’eccezione.
Sul punto, ampli dubbi della giurisprudenza sono sorti circa la conformità di tale previsione rispetto alla direttiva UE[12] 2014/24 in materia di appalti[13]. La CGUE., con ordinanza del febbraio 2020 sul caso Rieco s.p.a.[14] ha ribadito che le direttive in questione vanno interpretate nel senso di una neutralità dell’ordinamento europeo rispetto ai due meccanismi, tra i quali il legislatore nazionale ha piena discrezionalità nella scelta. Da ciò deriva un’affermazione di piena legittimità della previsione normativa in esame.
L’art. 192 citato è stato sottoposto anche a vaglio di costituzionalità: la Corte Costituzionale, rigettando la questione con la sentenza del 27 maggio 2020, n. 100, ha ribadito che tale statuizione risponde ai principii della tutela della concorrenza e della trasparenza della pubblica amministrazione, sanciti dalla Carta Costituzionale[15].
Tipologie di società in house
L’art. 2449 c.c. disciplina le società con partecipazione al capitale da parte dello Stato o degli enti pubblici, senza tuttavia fornire ulteriori cenni alle molteplici forme esistenti di società pubblica.
La giurisprudenza comunitaria, in base alla casistica concreta, ha elaborato svariate tipologie di società in house.
- L’“in house frazionato” o “pluripartecipato”: è presente quando il capitale azionario è frazionato fra più enti. In questo modo, il controllo analogo potrà essere effettuato congiuntamente. Perché sussista il controllo analogo, la partecipazione al capitale sociale può anche essere in minima percentuale, purché effettiva, in relazione al peso che l’ente pubblico ha all’interno della società.
- L’“in house a cascata”: si realizza quando il pacchetto azionario è detenuto da una holding che è sottoposta al 100% al controllo pubblico. In questo modo, l’affidamento diretto dei servizi pubblici è fatto dall’ente pubblico alla società detenuta dalla holding.
- L’“in house orizzontale”: consiste nella presenza di tre soggetti, uno dei quali controlla gli altri due. Ciascuna delle due società è in house con l’ente pubblico, in modo indipendente l’una dall’altra: ognuna delle due controllate può affidare il contratto all’altra, creando così una relazione organica in forma derivata.
Vi è poi la nuova figura della società in house mista, di creazione giurisprudenziale ed oggi disciplinata sia a livello europeo, dall’art. 12 della citata “direttiva appalti” del 2014, sia nella normativa interna, dall’art. 5 del Codice dei Contratti Pubblici e dall’art. 16 del Testo Unico delle società a partecipazione pubblica.
Tali norme hanno evidenziato la centralità del requisito del controllo analogo, che ai sensi dell’art. 16 d.lgs. 175/2016 può essere realizzato anche in deroga alle norme del codice civile in materia di statuto societario. Se, da un lato, il peso assunto da tale forma di controllo è divenuto essenziale, dall’altro lato la partecipazione pubblica totale non è più inderogabile. L’art. 16 infatti, introduce una deroga al consueto divieto di partecipazione privata al capitale sociale. Tali partecipazioni sono quindi ammissibili nel rispetto delle condizioni indicate dalla direttiva: devono essere obbligatorie secondo la normativa nazionale vigente ed essere conformi ai Trattati europei ed ai principi in essi sanciti, primo fra tutti quello della concorrenza. Non possono, inoltre, tradursi in poteri di controllo o di veto o conferire un’influenza dominante sulla società. Il privato partecipante, quindi, dovrà mantenersi estraneo alle scelte decisionali dell’ente.
La disciplina applicabile
Per quanto riguarda la disciplina applicabile alle società pubbliche, essa è sempre stata oggetto di dibattito, dato che, da un lato, la forma è quella societaria (e quindi richiederebbe la disciplina privatistica), dall’altro, la sostanza è pubblicistica (e dunque postulerebbe un regime di diritto amministrativo).
A questo proposito, la Relazione di accompagnamento al codice civile del 1942 precisa, a proposito di società a partecipazione pubblica, che la disciplina applicabile è quella privatistica, salva diversa espressa previsione di legge. Tale regola sancisce, quindi, la preponderanza del criterio formale su quello sostanziale: la forma societaria prevale sulla natura pubblicistica.
Di ciò è data conferma dalla normativa attualmente vigente, poiché l’art. 1, comma 2 del Testo Unico delle società partecipate prevede proprio l’applicabilità della disciplina codicistica, ove non derogata dalla legge.
Anche i rapporti di lavoro dei dipendenti delle società pubbliche si disciplineranno secondo le norme privatistiche; così come le ipotesi di crisi d’impresa, che vedranno applicabile la disciplina relativa a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria (art. 14 TU).
Similmente, anche le vicende riguardanti gli amministratori della società seguiranno le regole di diritto privato, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Tuttavia, qualora venga arrecato danno al patrimonio della società in house, ricorrerà la responsabilità amministrativo-contabile nei confronti della pubblica amministrazione, per cui spetterà la giurisdizione alla Corte dei Conti[16]. Infatti poiché la società in house è un’articolazione dell’amministrazione, danneggiarne il patrimonio significa danneggiare l’erario pubblico.
In definitiva, è possibile affermare che le società pubbliche e, in particolare, le società in house costituiscono una figura ambivalente, a cavallo fra diritto privato e diritto amministrativo, come rispecchiato dalla relativa disciplina applicabile. In alternativa alle procedure di evidenza pubblica, offrono indubbiamente allo Stato un utile strumento per l’autoproduzione di beni e l’erogazione di servizi alla collettività, purché sempre nel rispetto del principio di concorrenza e dei limiti previsti dalla legge.
Informazioni
Caringella F., Manuale superiore di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021
Fratini M., Manuale sistematico di diritto amministrativo, Accademia del Diritto, 2020
Garofoli R., Compendio di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021
https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2010;104
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/08/18/090G0294/sg
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/09/8/16G00188/sg
https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?docid=44852&doclang=IT
https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?docid=49805&doclang=IT
https://www.gazzettaufficiale.it/sommario/codici/contrattiPubblici
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0024
https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=223401&doclang=it
https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=100
http://www.ius-publicum.com/servPub/giuri/ITA/house/SEZ.UN_2013_26283.PDF_ns.pdf
http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/15/inefficacia-contratto-di-appalto/
http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/07/regolamenti-e-direttive-ue/
[1] Il concetto di pubblica amministrazione gode di molteplici accezioni, poiché non si fonda su una definizione univoca fornita dalla legge. Infatti, sussistono svariate tipologie di enti, anche formalmente privati, che concorrono allo svolgimento dell’attività amministrativa volta a soddisfare interessi generali e che, dunque, da un punto di vista sostanziale e funzionale possono essere definiti anch’essi come pubbliche amministrazioni. Per questo motivo, si parla di pubblica amministrazione a geometrie variabili
[2] D.lgs. 50/2016 – https://www.gazzettaufficiale.it/sommario/codici/contrattiPubblici
[3] L’influenza dominante si presume, altresì, nei casi in cui, alternativamente o cumulativamente: esse esercitino un controllo maggioritario sul voto societario spettante dalle relative azioni, o detengano la maggioranza del capitale sottoscritto, o abbiano il potere di designazione di più della metà dei membri del consiglio di vigilanza, di amministrazione o di direzione dell’impresa.
[4] Fratini M., Manuale sistematico di diritto amministrativo, Accademia del Diritto, 2020, pagg. 206 e ss.
[5] Sentenza del 18 novembre 1999, Causa C-107/98, EU:C:1999:562. https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?docid=44852&doclang=IT
[6] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/09/8/16G00188/sg
[7] È però ammessa una deroga a tale divieto, alle condizioni previste dalla legge, per cui v. il paragrafo 3, sulle tipologie di società in house.
[8] Per evidenza pubblica si intende la procedura, disciplinata dal codice dei contratti pubblici, con la quale la pubblica amministrazione (che in questa sede è definita stazione appaltante) ricorrendo al mercato individua, all’esito di un confronto concorrenziale, il soggetto privato più meritevole con cui stipulare un contratto pubblico di appalto o concessione. Le fasi della procedura si evincono dall’art. 32 del d.lgs. 50/2016: deliberazione della stazione appaltante a contrarre; scelta del contraente (secondo i requisiti enunciati nell’apposito bando) ed aggiudicazione; stipulazione del contratto pubblico; approvazione del contratto. Seguirà poi l’esecuzione del contratto, che si svolgerà secondo le norme privatistiche. Eventuali controversie sull’esecuzione spetteranno alla giurisdizione del giudice ordinario; mentre quelle antecedenti, attinenti alla selezione del contraente, rientreranno nella giurisdizione del giudice amministrativo. Per approfondire la materia degli appalti pubblici e le relative cause di invalidità, v. http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/15/inefficacia-contratto-di-appalto/ .
[9] Fra le molte: sentenza Econord del 29 novembre 2012, cause riunite C‑182/11 e C‑183/11, EU:C:2012:758; sentenza Porin kaupunki del 18 giugno 2020, C‑328/19, EU:C:2020:483.
[10] Sentenza del 11 gennaio 2005, causa C-26/0, EU:C:2005:5. https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?docid=49805&doclang=IT
[11] Garofoli R., Compendio di diritto amministrativo, NelDiritto Editore, 2021, pagg. 170 e ss.
[12] Per una panoramica sul diritto dell’Unione Europea, v. http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/07/regolamenti-e-direttive-ue/
[13] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0024
[14] Ordinanza del 6 febbraio 2020, cause riunite C‑89/19 a C‑91/19, EU:C:2020:87. https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=223401&doclang=it
[15] https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=100
[16] Come da giurisprudenza consolidata a partire da Cassazione, Sez. Un., 25 novembre 2013, n. 26283. http://www.ius-publicum.com/servPub/giuri/ITA/house/SEZ.UN_2013_26283.PDF_ns.pdf