Abuso del processo

Cos'è l'abuso del processo?

Cos’è l’abuso del processo e quando viene riscontrato a livello nazionale e sovranazionale

 

Dall’abuso del diritto all’abuso del processo

L’abuso del processo ha le sue origini nell’abuso del diritto. In quanto soggetti dell’ordinamento giuridico, siamo tutti titolari di diritti soggettivi. Perciò sia le persone fisiche che quelle giuridiche non possono, per la natura stessa dei loro diritti, di qualsiasi fonte essi siano, abusare degli stessi.  Per questa ragione è nata la nozione abuso del processo che costituisce una forma del abuso del diritto e si configura quando un soggetto, parte di un processo, pone in essere un atto processuale previsto dalla legge come un diritto, abusandone. Ciò avviene per perseguire però uno scopo diverso da quello per cui l’atto o il diritto è stato posto in capo al suo titolare.

Questo atteggiamento dà luogo ad un comportamento che viola il principio di buona fede, strettamente legato al principio costituzionale del giusto processo previsto dall’art. 111 della Costituzione[1].

L’autorevole Dottrina ha più volte sottolineato che ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure di autotutela al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva e distorta. Questo ha portato all’esigenza di individuare limiti agli abusi e la loro estensione anche ai mezzi processuali.

L’uso distorto del diritto, infatti, è ormai univocamente risolto, sia a livello degli ordinamenti interni sia sovranazionali, attraverso il divieto di tutela verso coloro che ne fanno un uso collidente rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto stesso è stato riconosciuto.

 

Abuso del processo nelle pronunce della Cassazione civile

Sulla nozione dell’abuso del processo è importante richiamare soprattutto Cassazione Sezioni Unite civili n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316. Questa ha stabilito che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Un altro esempio di abuso del processo è raffigurato dalla condotta di quei danneggiati che propongono separate domande giudiziali per ottenere prima il risarcimento del danno patrimoniale e poi il ristoro del danno alla salute. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione[2], con cui ha confermato la decisione della Corte d’appello che aveva ritenuto illegittima la condotta processuale del danneggiato che, dopo aver introdotto un’azione civile per ottenere il risarcimento del danno materiale, subito alla propria auto in conseguenza di un incidente stradale, aveva successivamente introdotto un nuovo giudizio per ottenere il risarcimento del danno alla salute. Si è così stabilito che il danneggiato aveva abusato dello strumento processuale attribuitogli perché, quando ha proposto l’azione legale per ottenere il ristoro del danno patrimoniale, conosceva già le conseguenze che l’incidente stradale aveva provocato anche nella sua sfera non patrimoniale.

 

Abuso del processo nelle pronunce della Cassazione penale

L’abuso del processo è stato rilevato anche nelle pronunce della Cassazione penale: “quando viene realizzato uno sviamento o una frode alla funzione, l’imputato che ha abusato dei diritti e delle facoltà che l’ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti”.[3]

In particolare nella sentenza richiamata la Cassazione esamina i diritto di cui all’art. 108 c.p.p.[4] per il particolare caso in cui in pendenza di causa venga nominato un nuovo difensore, quest’ultimo, qualora ne faccia richiesta, ha diritto ad un congruo termine a difesa non inferiore a 7 giorni al fine di poter prendere cognizione degli atti e informarsi sui fatti del procedimento.[5] Questo articolo è espressione del diritto alla difesa[6] dello stesso imputato, che se utilizzato arbitrariamente, si trasforma in una patologia processuale, andando a paralizzare e ritardare la sua attività processuale.

Ciò è in contrasto con l’interesse obiettivo dell’ordinamento e di ciascuna delle parti ad un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli. La Corte ha stabilito che “un reiterato avvicendamento di difensori – posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna reale esigenza difensiva, ma con la sola funzione di ottenere una dilatazione dei tempi processuali con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione” ravvisa un abuso delle facoltà processuali, inidoneo a legittimare successivamente la proposizione di eccezioni di nullità.

Un altro esempio di abuso del processo è stato individuato dalla sentenza Corte di Cassazione n. 11414 della sez. VI 05/03/2018 nella condotta dell’imputato che propone reiteratamente dichiarazioni di ricusazione di tutti o alcuni componenti dei collegi giudicanti che di volta in volta sono designati a trattare procedimenti che lo riguardano, quale che sia la composizione della Sezione o del Collegio e sulla base di deduzioni sempre analoghe, al solo scopo di paralizzare la funzione processuale in contrasto con il principio costituzionale di indefettibilità della giurisdizione[7].

 

Abuso del processo in ambito sovranazionale

Anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo[8] prevede l’abuso del processo quando la condotta ovvero l’obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto.

Ciò sulla base di quanto previsto dall’articolo 35 p.3 (a) che recita:

La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che: (a) il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo; “.

 

Anche l’interpretazione consolidata della Giurisprudenza della Corte di Strasburgo[9] e la Guida Pratica sulla ricevibilità esplica in tal senso:

La nozione di abuso ai sensi dell’art. 35 p. 3 (a) deve essere compresa nel suo senso comune contemplato dalla teoria generale del diritto – ossia il fatto, da parte del titolare di un diritto, di attuarlo al di fuori della sua finalità in modo pregiudizievole.[10].

 

Sul tema si è pronunciata anche la Corte di Lussemburgo al fine di confermare la regola interpretativa secondo la quale: colui che si appelli al tenore letterale di disposizioni dell’ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligge con gli scopi di questo non merita che gli si riconosca quel diritto[11].

Informazioni

Cassazione penale sez. un. 29/09/2011 n. 155

Cassazione penale sez. VI 05/03/2018 n. 11414

Cassazione civile sez. un. 15/11/2007 n. 23726

Cassazione civile sez. III, 28/06/2018 n.17019

Corte Costituzionale 23/01/1997 n. 10

https://www.echr.coe.int/Documents/COURtalks_Inad_Talk_ITA.PDF

https://www.echr.coe.int/documents/convention_ita.pdf

[1] La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione [360 c.p.c.; 606 c.p.p.].

[2] Cassazione civile sez. III, 28/06/2018, n.17019 e tante altre, hanno sancito “l’improponibilità delle domande successive alla prima in ragione del difetto di una situazione giuridica sostanziale tutelabile, per contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che non consente di accordare protezione ad una pretesa caratterizzata dall’uso strumentale del diritto di azione.

[3] Cassazione penale sezioni unite, 29/09/2011 (ud. 29/09/2011, dep. 10/01/2012) n. 155

[4] Art. 108 c.p.p.: “1. Nei casi di rinuncia, di revoca, di incompatibilità, e nel caso di abbandono, il nuovo difensore dell’imputato o quello designato d’ufficio che ne fa richiesta ha diritto a un termine congruo, non inferiore a sette giorni, per prendere cognizione degli atti e per informarsi sui fatti oggetto del procedimento. 2. Il termine di cui al comma 1 può essere inferiore se vi è consenso dell’imputato o del difensore o se vi sono specifiche esigenze processuali che possono determinare la scarcerazione dell’imputato o la prescrizione del reato. In tale caso il termine non può comunque essere inferiore a ventiquattro ore. Il giudice provvede con ordinanza.

[5] Specifica la Corte in più pronunce che il mancato conferimento del termine a difesa, o la concessione di un termine inferiore rispetto a quello previsto dal comma 1 art. 108 c.p.p., non costituisce una causa di nullità, quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.

[6] Per approfondire il tema consiglio la lettura del’articolo Il diritto di difesa dell’indagato di Alice Strada al link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/05/15/diritto-di-difesa-indagato/

[7] Vi è stata la pronuncia della Corte Costituzionale n. 10 del 1997 che aveva stabilito che: “é costituzionalmente illegittimo l’art. 37 comma 2 c.p.p., nella parte in cui, qualora sia riproposta la dichiarazione di ricusazione, fondata sui medesimi motivi, fa divieto al giudice di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione (richiamando quanto già rilevato nella sentenza n. 353 del 1996, la Corte ha osservato che la reiterazione della dichiarazione di ricusazione fondata sui medesimi motivi è idonea a determinare la paralisi della funzione processuale, con conseguente compromissione del bene costituzionale dell’efficienza del processo).

[8] La Convenzione è consultabile al link https://www.echr.coe.int/documents/convention_ita.pdf

[9] Molubovs e altri c. Lettonia p.p. 62 e 65; Petrovic c. Serbia ric. N. 56551/11.

[10] La guida pratica sulla ricevibilità del ricorso è consultabile al seguente link https://www.echr.coe.int/Documents/COURtalks_Inad_Talk_ITA.PDF

[11] Sentenza Corte Edu 20/09/2007 causa C-16/05 Tum e Dari punto 64; Sentenza 21/02/2006 causa C-255/02 Halifaz e a. punto 68.


Informazione antimafia

Cos'è l'informazione antimafia

L’informazione antimafia attesta, oltre alla sussistenza o meno delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del Codice Antimafia, anche l’esistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate

 

Introduzione al Codice antimafia

La legislazione antimafia oggi confluisce nel Codice antimafia (D.lgs. 6 ottobre 2011, n. 159), finalizzato all’aggiornamento e alla semplificazione della documentazione antimafia. Infatti lo stesso codice ha anche istituito, con l’art. 96, una Banca dati nazionale unica presso il Ministero dell’interno, Dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie[1].

Il Codice antimafia contiene la disciplina delle misure di prevenzione e la disciplina della documentazione antimafia, cioè:

  • della comunicazione antimafia e
  • della informazione antimafia.

 

La comunicazione antimafia è regolata dall’art. 84, comma 2, D.lgs. n. 159/2011 e consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 D.lgs. n. 159/2011, e, cioè, l’applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali previste dal libro I, titolo I, capo II, D.lgs. n. 159/2011 e statuite dall’autorità giudiziaria.

Mentre l’informativa antimafia prevista dell’art. 84, comma 3, D.lgs. n. 159/2011, è una misura di prevenzione amministrativa e consiste nell’attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67, nonché nell’attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi della società o delle imprese interessate. L’informazione possiede un contenuto più esteso della comunicazione ed è il frutto di una valutazione della Prefettura. Oltretutto l’informazione antimafia è richiesta solo per operazioni che superano certe soglie di valore, ovvero poste in essere in settori particolarmente sensibili ai sensi dell’art. 91 D.lgs. n. 159/2011.

 

L’informazione antimafia

L’informazione antimafia ha natura cautelare e preventiva. È volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione[2], diretta ad impedire che un imprenditore che sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con la Pubblica Amministrazione.

Il soggetto preposto all’adozione della certificazione è il prefetto che, nell’adottare l’informazione antimafia nei confronti di un soggetto, esprime il suo giudizio basato su una serie di elementi sintomatici che riflettono il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa. L’informazione, dato il suo carattere preventivo, interdice all’impresa l’inizio di qualsivoglia rapporto contrattuale o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione.

Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva sono previsti dal legislatore e sono quindi tipicizzati. Si parla in questo caso dei cosiddetti delitti spia previsti dall’art. 84 comma 4:

a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti[3].

b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione;

c) salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste[4];

d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all’articolo 93 del presente decreto;

e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d);

f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.[5].

 

Altri criteri alla base dell’adozione dell’informativa antimafia sono a condotta libera e sono lasciati infatti al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può» desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata»[6].

A tal proposito il Consiglio di Stato con sentenza n. 383 del 11/01/2021 stabiliva che ai fini della adozione dell’informativa antimafia, “da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri.”.

 

Ambito di applicazione e validità dell’informazione antimafia

L’informazione antimafia deve essere acquisita dai soggetti indicati all’art. 83 commi 1 e 2, cioè dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, dagli enti e dalle aziende vigilanti dallo Stato o da altro ente pubblico e dalle società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché dai concessionari di lavori o servizi pubblici prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi ai lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti previsti dall’art. 67.

Secondo quanto previsto dall’art. 86 del Codice Antimafia, la validità dell’informazione antimafia acquisita dai soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione è di 12 mesi dalla data di acquisizione, salvo che ricorrano alcune modificazioni previste dal comma 3 dell’art. 86:

I legali rappresentanti degli organismi societari, nel termine di trenta giorni dall’intervenuta modificazione dell’assetto societario o gestionale dell’impresa, hanno l’obbligo di trasmettere al prefetto, che ha rilasciato l’informazione antimafia, copia degli atti dai quali risulta l’intervenuta modificazione relativamente ai soggetti destinatari di verifiche antimafia di cui all’articolo 85[7].

A tal proposito è utile chiarire che nonostante la previsione normativa preveda come termine di valenza di 12 mesi, la giurisprudenza si è più volte dichiarata nel senso che la limitazione temporale di efficacia dell’informativa antimafia prevista dall’art. 86 comma 2 “deve intendersi riferita ai soli casi in cui sia attestata l’assenza di pericolo di infiltrazione mafiosa, e non già ai riscontri indicativi del pericolo”.

Col decorso dell’anno la misura interdittiva non perde efficacia perché “il venir meno delle circostanze rilevanti non dipende dal mero trascorrere del tempo, in sé, ma dal sopraggiungere di obiettivi elementi diversi o contrari che ne facciano venir meno la portata sintomatica. Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è da ricondursi non tanto, quindi, al trascorrere del tempo dall’ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, bensì al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza: ciò secondo la prudente valutazione prognostica sulla persistenza del rischio di permeabilità criminale della società riservata dalla legge all’autorità prefettizia.”[8].

 

Competenza e rilascio dell’informazione

L’informazione antimafia viene conseguita attraverso la consultazione della banca dati nazionale unica da parte di soggetti, che devono essere debitamente autorizzati, previsti dall’art. 97 del Codice Antimafia:

  • Soggetti indicati dall’art. 83 commi 1 e 2;
  • Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
  • Gli ordini professionali;
  • L’autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.

 

Quando dalla consultazione della banca dati nazionale unica emerge la sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84 comma 4, l’informazione antimafia è rilasciata:

  1. dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all’articolo 2508 del codice civile;
  2. dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all’estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato[9].

 

Quanto alla motivazione della informativa, il prefetto procedente deve «scendere nel concreto» cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni e le ragioni in base alle quali gli elementi emersi siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti della «perdita di fiducia» che le istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore.

Il sistema dell’informativa antimafia è completamente estraneo alla logica penalistica del principio che la prova deve essere raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio, questo vanificherebbe la ratio preventiva della informativa antimafia: prevenire un grave pericolo, non quella di punire una condotta penalmente rilevante. Infatti è ormai consolidato il principio in base al quale il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato sul criterio del “più probabile che nonintegrato dai dati di comune esperienza derivati dall’osservazione del fenomeno mafioso.

Informazioni

[1] Art. 96 D.Lgs. 159/2011.

[2] Nell’attività di contrasto da parte della Pubblica Amministrazione dei fenomeni complessi di criminalità bisogna anche considerare dei principi fondamentali. Tra questi si conta il principio di trasparenza, funzionale per la lotta alla corruzione. Per un approfondimento sull’argomento si veda: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/05/principio-della-trasparenza/ .

[3] I delitti di cui agli articoli 353, 353 bis, 603 bis, 629, 640 bis, 644, 648 bis, 648 ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.

[4] Tale circostanza deve emergere dagli indizi a base della richiesta di rinvio a giudizio formulata nei confronti dell’imputato e deve essere comunicata, unitamente alle generalità del soggetto che ha omesso la predetta denuncia, dal procuratore della Repubblica procedente alla prefettura della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede ovvero in cui hanno residenza o sede le persone fisiche, le imprese, le associazioni, le società o i consorzi interessati ai contratti e subcontratti di cui all’articolo 91, comma 1, lettere a) e c) o che siano destinatari degli atti di concessione o erogazione di cui alla lettera b) dello stesso comma 1.

[5] Art. 84 comma 4 D.Lgs 159/2011.

[6] Art. 91 comma 6 D. Lgs. 159/2011 “…Il prefetto può, altresì, desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata, nonché dall’accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all’articolo 3 della legge 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall’articolo 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689. In tali casi, entro il termine di cui all’articolo 92, rilascia l’informazione antimafia interdittiva.”.

[7] La violazione di tale obbligo da parte degli organismi societari è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 20.000 euro a 60.000 euro. Per il procedimento di accertamento e di contestazione dell’infrazione, nonché per quello di applicazione della relativa sanzione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689. La sanzione è irrogata dal prefetto.

[8] In questo senso si è pronunciato il T.A.R. di Salerno, sez. I, 25/05/2020, n.584.

[9] Art. 90 d. L.gs. 159/2011.


Tipologie di bancarotta

Il reato e le tipologie di bancarotta

La bancarotta è un reato previsto dall’ordinamento giuridico italiano e consiste nella insolvenza dell’imprenditore commerciale dichiarato fallito. Le tipologie di bancarotta hanno diverse sfumature, ma si rappresentano in via generale come sottrazione del patrimonio del fallito a discapito dei creditori

 

Introduzione

Le tipologie di bancarotta sono inquadrate tra i reati contro il patrimonio e l’oggetto giuridico della tutela è costituito dal diritto di garanzia che i creditori vantano sul patrimonio del debitore fallito. Tra gli elementi costitutivi del reato vi è la sentenza dichiarativa di fallimento, poiché prima della pronuncia della sentenza non esiste reato perfetto in tutti i suoi elementi.

Le peculiarità assunte da questo reato sono diverse a seconda del variare delle seguenti caratteristiche:

  • il carattere fraudolento o meno della condotta;
  • l’oggetto materiale;
  • la collocazione temporale rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento;
  • il soggetto agente.

 

Bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice

Le tipologie di bancarotta previste dalla Legge Fallimentare sono collocate al titolo VI, capo I nei reati commessi dal fallito della Legge Fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267)[1] e si possono così classificare:

  • la bancarotta fraudolenta, prevista esplicitamente dall’art. 216 comma 1 e 2 della Legge fallimentare:

È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.[2].

 

Questo tipo di bancarotta è richiamato anche dall’art. 223 che prevede che il reato di bancarotta fraudolenta sia applicato anche ai fatti commessi da persone diverse dal fallito:

“Si applicano le pene stabilite nell’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo.

Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell’art. 216, se:

1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633, 2634[3] del codice civile;

2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 216.”[4].

 

 

  • La bancarotta semplice è invece prevista dall’art. 217 della legge fallimentare:

“È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente:

1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;

2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;

3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;

4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa;

5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.

La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale [28 ss. c.p.], la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni.[5].

 

Questa tipologia di bancarotta è richiamata anche dall’art. 224 che prevede che il reato di bancarotta semplice sia applicato anche ai fatti commessi da persone diverse dal fallito:

Si applicano le pene stabilite nell’art. 217 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali:

1) hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo;

2) hanno concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.”[6].

 

Le due fattispecie si differenziano, oltre alle specifiche modalità della condotta, anche per l’elemento soggettivo del reato che, mentre nella prima ipotesi è costituito esclusivamente dal dolo generico, nel caso della bancarotta semplice può essere indifferentemente costituito dal dolo o dalla colpa, ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili.

 

Ulteriori tipologie di bancarotta

Il reato di bancarotta può essere classificato anche in bancarotta patrimoniale e documentale, dove i fatti della prima incidono sul patrimonio dell’impresa e quindi sulle garanzie dei creditori, i fatti della seconda riguardano la tenuta delle scritture contabili, perciò con riferimento alla corretta riformazione del patrimonio dell’impresa e le movimentazioni degli affari dell’impresa.

  • La bancarotta patrimoniale o per distrazione è infatti prevista all’articolo 216 comma 1 n. 1, è poi richiamata dall’art. 223 e dall’art. 217 comma 1 della legge fallimentare:

il fallito oppure gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite compiono fatti di bancarotta patrimoniale attraverso le attività di “distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipamento in tutto o in parte dei beni ovvero, … esposizione o riconoscimento di passività inesistenti”, oppure altre attività di “spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla condizione economica; consumo di una notevole parte del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; aggravamento del proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; mancata soddisfazione delle obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare”.

 

  • La bancarotta documentale è invece prevista all’articolo 216 comma 1, n. 2, art. 223 e 217 comma 2 legge fallimentare:

il fallito oppure gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, compiono atti di bancarotta documentale quando “sottraggono, distruggono o falsificano, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li tengono in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari” oppure quando “non hanno tenuto, nei 3 anni precedenti alla dichiarazione di fallimento, i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li hanno tenuti in maniera irregolare o incompleta”.

Tra le tipologie di bancarotta è possibile evidenziare inoltre la bancarotta pre-fallimentare e la bancarotta post-fallimentare dove la prima si riferisce ai fatti di bancarotta anteriori alla dichiarazione di fallimento[7], mentre la seconda riguarda il momento successivo all’apertura della procedura concorsuale[8].

Ulteriori tipologie di bancarotta si possono ravvisare in bancarotta propria e bancarotta impropria, nel primo caso ci si riferisce alle fattispecie criminose in cui vi è coincidenza tra soggetto attivo del reato e titolare del patrimonio dell’impresa, mentre nel secondo caso c’è la scissione tra il soggetto agente ed il soggetto titolare del patrimonio dell’impresa. Per la bancarotta impropria infatti è possibile individuare il soggetto agente, ad esempio, nel componente del consiglio di amministrazione, per non aver omesso di porre in essere determinati atti.

Alla classificazione è possibile aggiungere inoltre le seguenti tipologie di bancarotta:

  • bancarotta preferenziale[9]con riferimento ai fatti diretti a favorire uno dei creditori in danno degli altri;
  • bancarotta fraudolenta impropria societariain relazione agli gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite che hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo una delle seguenti attività: false comunicazioni sociali, false comunicazioni sociali delle società quotate, indebita restituzione dei conferimenti, illegale ripartizione degli utili e delle riserve, illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante, operazioni in pregiudizio dei creditori, formazione fittizia del capitale, indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, infedeltà patrimoniale[10];
  • bancarotta fraudolenta impropria dolosa in riferimento a persone diverse dal fallito che hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società[11].

 

Le tipologie di bancarotta nel Codice della crisi d’impresa 2021

Ai sensi dell’art. 389 comma 1 del D. Lgs. n.14 del 2019, in data 15 agosto 2020 sarebbe dovuto entrare in vigore il Codice della Crisi d’impresa, fatta eccezione, come previsto dal comma 2 del medesimo articolo, per alcune disposizioni normative[12] che erano già in vigore dal 16 marzo 2019.

Infatti, sulla Gazzetta ufficiale n. 143 del 6 giugno 2020 è stata pubblicata la Legge 5 giugno 2020, n. 40 annunciante la “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, recante misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali”. Sempre sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato anche il testo del D.L.[13] 8 aprile 2020, n. 23[14], che, all’art. 5 stabilisce il differimento dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14[15]:

“1. All’articolo 389 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, il comma 1 è sostituito dal seguente: “1. Il presente decreto entra in vigore il 1 settembre 2021, salvo quanto previsto al comma 2.[16]

Per questo motivo, il 1 settembre 2021 entreranno in vigore le nuove tipologie di bancarotta:

  • la nuova bancarotta fraudolenta regolata dall’art. 322:

1. È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato in liquidazione giudiziale, l’imprenditore che:

a) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

b) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

2. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato in liquidazione giudiziale, che, durante la procedura, commette alcuno dei fatti preveduti dalla lettera a) del comma 1, ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

3. È punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore in liquidazione giudiziale che, prima o durante la procedura, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

4. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni.”

 

  • la nuova bancarotta semplice regolata dall’art. 323:

“1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato in liquidazione giudiziale, l’imprenditore che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente:     

a) ha sostenuto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;     

b) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;     

c) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale;     

d) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di apertura della propria liquidazione giudiziale o con altra grave colpa;     

e) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o liquidatorio giudiziale.     

2. La stessa pena si applica all’imprenditore in liquidazione giudiziale che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di liquidazione giudiziale ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.     

3. Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni.”.

Informazioni

La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Renato Bricchetti, Luca Pistorelli, Giuffrè Editore, 2017

Appunti sul processo di fallimento, Massimo Montanari, Giapichelli editore, 2018

Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267

Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14

Decreto legge 8 aprile 2020, n. 23

[1] Legge fallimentare consultabile al link https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:regio.decreto:1942-03-16;267!vig=

[2] Art. 216 Legge Fallimentare comma 1 e 2.

[3] False comunicazioni sociali, false comunicazioni sociali delle società quotate, indebita restituzione dei conferimenti, illegale ripartizione degli utili e delle riserve, illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante, operazioni in pregiudizio dei creditori, formazione fittizia del capitale, indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, infedeltà patrimoniale.

[4] Art. 223 Legge Fallimentare.

[5] Art. 217 Legge Fallimentare.

[6] Art. 224 legge Fallimentare.

[7] In riferimento ai fatti previsti dall’art. 216, comma 1, art. 217, art. 223 e art. 224 della legge fallimentare.

[8] Qui ci si riferisce ai fatti previsti dall’art. 216 comma 2 e art. 223 della legge fallimentare.

[9] È possibile ravvisare tale fattispecie all’art. 216 comma 3: “È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.”

[10] Art. 223 comma 2 n. 1 della legge fallimentare.

[11] Art. 223 comma 2 n. 2 della legge fallimentare.

[12] Si tratta del comma 1 dell’art. 27, art. 350, art. 356, art. 357, art. 363, art. 364, art. 366, art. 375, art. 377, art. 378, art. 379, art. 385, art. 386, art. 387 e art. 388.

[13] Per approfondire il tema del Decreto Legge si consiglia di procedere alla lettura dell’articolo Il decreto legge come strumento emergenziale di Guido Casavecchia al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/16/il-decreto-legge-come-strumento-emergenziale/

[14] Conosciuto come Decreto Liquidità.

[15] Decreto legge 8 aprile 2020 n. 23 consultabile al link https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/08/20G00043/s

[16] Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 consultabile al link https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/02/14/19G00007/sg


Normativa europea sulla qualità dell'aria

La normativa europea sulla qualità dell'aria

Per anni si è sostenuto che la tutela dell’ambiente fosse una prerogativa di competenza degli Stati, oggi invece esiste un’ampia normativa europea sulla qualità dell’aria

 

Excursus storico sulla nascita della normativa europea sulla qualità dell’aria

Nell’ambito della normativa europea sulla qualità dell’aria l’UE ha svolto un importante funzione di raccordo delle politiche nazionali fino ad arrivare ad una disciplina tendenzialmente omogenea nelle legislazioni interne degli Stati membri. Infatti, a partire dal 1987, con l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo sono stati introdotti i primi articoli a tutela dell’ambiente[1]. Queste previsioni normative sono state poi riconfermate nel Trattato di Maastricht nel 1992, nel Trattato di Nizza nel 2000 e nel TFUE dove l’azione si trasformava in una vera e propria politica comunitaria[2].

Nel 1979 è stata stipulata a Ginevra la Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza (Convention on long-range transboundary air pollution, CLRTAP)[3] della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE), entrata in vigore nel 1983[4]. La Convenzione comprende otto protocolli concernenti la riduzione delle sostanze nocive. Con la Convenzione è nato il programma EMEP (European Monitoring & Evaluation Programme)[5] con lo scopo di sorvegliare e valutare il trasporto a grande distanza delle sostanze inquinanti attraverso l’atmosfera in Europa, le sue principali azioni sono:

  • raccolta di dati sulle emissioni;
  • misurazione di inquinanti atmosferici nell’atmosfera e nelle precipitazioni;
  • modellizzazione dello spostamento e della deposizione di inquinanti atmosferici;

La normativa europea in materia della qualità dell’aria è suddivisa in quattro aree:

  • in materia di emissioni dei veicoli a motore con particolare riferimento ai clorofluorocarburi;
  • in materia di riduzione delle emissioni di gas fluorurati a effetto serra;
  • in materia di inquinanti atmosferici con particolare precisazione dei limiti massimi annui;
  • in materia di inquinamento atmosferico da impianti industriali.

 

La riduzione delle emissioni: un obiettivo fondamentale per la qualità dell’aria

Un importante passo nella tutela dell’ambiente, e in particolare della normativa europea sulla qualità dell’aria, è stata l’emanazione del Regolamento CEE n. 3952/1992 del Consiglio, del 30 dicembre 1992[6], che modificava il regolamento CEE n. 594/1991[7]. Tale disciplina riguardava l’accelerazione del ritmo di eliminazione di sostanze che riducono lo strato di ozono. Il Regolamento è stato successivamente sostituito dal Regolamento CE n. 1005 del 2009 il quale “stabilisce le norme in materia di produzione, importazione, esportazione, immissione sul mercato, uso, recupero, riciclo, rigenerazione e distruzione delle sostanze che riducono lo strato di ozono, in materia di comunicazione delle informazioni relative a tali sostanze e all’importazione, esportazione, immissione sul mercato e uso di prodotti e apparecchiature che contengono o dipendono da tali sostanze.”[8].

In materia di riduzione delle emissioni di gas fluorurati a effetto serra è stato adottato il Regolamento UE n. 517/2014 che abroga il Regolamento CE n. 842/2006[9] il quale aveva come obiettivo quello di “contenere, prevenire e quindi ridurre le emissioni di gas fluorurati ad effetto serra contemplati dal protocollo di Kyoto[10]. Anche il nuovo Regolamento aveva come obiettivo “quello di proteggere l’ambiente mediante la riduzione delle emissioni di gas fluorurati a effetto serra stabilendo: a) le disposizioni in tema di contenimento, uso, recupero e distruzione dei gas fluorurati a effetto serra e di provvedimenti accessori connessi; b) le condizioni per l’immissione in commercio di prodotti e apparecchiature specifici che contengono o il cui funzionamento dipende da gas fluorurati a effetto serra; c) le condizioni per particolari usi di gas fluorurati a effetto serra; e d) i limiti quantitativi per l’immissione in commercio di idrofluorocarburi.”

Per migliorare la qualità dell’aria l’Unione europea è intervenuta anche nel settore degli impianti industriali i quali provocano un forte inquinamento. La prima direttiva in materia risale al 1984,[11] modificata poi nel 2008 dalla Direttiva UE n.1 e successivamente dalla Direttiva UE n. 75/2010[12]  che stabilisce norme riguardanti la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento proveniente da attività industriali. Questa normativa si applica alle attività industriali che causano inquinamento e fissa norme intese a evitare oppure, qualora non sia possibile, ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel terreno e ad impedire la produzione di rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso.

 

Normativa europea sulla qualità dell’aria in riferimento ai limiti delle emissioni annue

Sono stati previsti anche i limiti massimi per le emissioni annue da parte degli Stati Membri di determinati inquinanti atmosferici in primis dalla Direttiva CE n. 81/2001, successivamente sostituita dalla Direttiva n. 35/2003 per arrivare alla Direttiva UE n. 2284/2016 che sostituisce e abroga le altre due. La nuova Direttiva Ue in materia di qualità dell’aria, al fine di tendere al conseguimento di livelli di qualità dell’aria che non comportino significativi impatti negativi e rischi significativi per la salute umana e l’ambiente, “stabilisce gli impegni di riduzione delle emissioni per le emissioni atmosferiche antropogeniche degli Stati membri di biossido di zolfo (SO2), ossidi di azoto (NOx), composti organici volatili non metanici (COVNM), ammoniaca (NH3), e particolato fine (PM2,5) e impone l’elaborazione, l’adozione e l’attuazione di programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico e il monitoraggio e la comunicazione in merito ai suddetti inquinanti e agli altri inquinanti indicati all’allegato I[13] della direttiva stessa.

La necessità di combattere alla fonte l’emissione di sostanze inquinanti ha comportato l’emanazione di una ulteriore Direttiva europea che, grazie alle sue misure, mira a ridurre l’inquinamento a livello locale, nazionale e comunitario. Si tratta della Direttiva CE n.50 del 2008[14] relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, successivamente modificata dalla Direttiva UE n. 1480 del 2014.

Questa disciplina istituisce misure volte a:

  1. definire e stabilire obiettivi di qualità dell’aria ambiente al fine di evitare, prevenire o ridurre gli effetti nocivi per la salute umana e per l’ambiente nel suo complesso;
  2. valutare la qualità dell’aria ambiente negli Stati membri sulla base di metodi e criteri comuni;
  3. ottenere informazioni sulla qualità dell’aria ambiente per contribuire alla lotta contro l’inquinamento dell’aria e gli effetti nocivi e per monitorare le tendenze a lungo termine e i miglioramenti ottenuti con l’applicazione delle misure nazionali e comunitarie;
  4. garantire che le informazioni sulla qualità dell’aria ambiente siano messe a disposizione del pubblico;
  5. mantenere la qualità dell’aria ambiente, laddove sia buona, e migliorarla negli altri casi;
  6. promuovere una maggiore cooperazione tra gli Stati membri nella lotta contro l’inquinamento atmosferico.

 

Gli Stati membri sono tenuti ad attuare tale disciplina e prevedere sanzioni da comminare in caso di violazione di tali disposizioni.

Nel settore della normativa europea sulla qualità dell’aria, l’Europa si sta mobilitando verso l’inquinamento zero con lo scopo di ridurre sempre di più l’inquinamento e, nel quadro del Green Deal europeo, la Commissione ha ideato l’ambizioso progetto “Towards a Zero Pollution Ambition for air, water and soil – building a Healthier Planet for Healthier People[15] che delinea i piani dell’UE finalizzati a raggiungere l’obiettivo di azzerare l’inquinamento tramite migliori azioni di prevenzione, correzione, monitoraggio e rendicontazione in materia[16].

Informazioni

Convenzione sull’inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza

Programma EMEP (European Monitoring & Evaluation Programme)

Regolamento CEE n. 3952/1992 del Consiglio, del 30 dicembre 1992

Regolamento CE n. 1005 del 2009

Regolamento UE n. 517/2014

Direttiva CE n. 81/2001

Direttiva UE n. 2284/2016

Direttiva UE n. 75/2010

Direttiva UE n. 1480 del 2014

https://www.eea.europa.eu/it/highlights/verso-un-inquinamento-zero-in-europa

AMBIENTOPOLI: Ambiente svenduto, Antonio Giangrande, 29 ago 2020

Ambiente 2020, Wolters Kluwer Italia, Erica Blasizza, 2020

Compendio di diritto dell’ambiente, Edizioni giuridiche Simone, Eugenio Benacci, 2019

[1] La prima normativa europea a tutela dell’ambiente era formata dall’articolo 130R, S e T dove erano definiti gli obiettivi, i principi e gli strumenti dell’UE.

[2] Il Trattato di Lisbona ha apportato una grande modifica del TCE e del Trattato di Maastricht, una delle conseguenze di ciò è stato l’inserimento della materia ambientale tra le competenze concorrenti tra gli Stati membri e l’Unione.

[3] Per consultare il testo completo della Convenzione è consigliato di procedere al seguente link https://unece.org/fileadmin/DAM//env/lrtap/full%20text/1979.CLRTAP.e.pdf

[4] Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura dell’articolo “I soggetti e le fonti della tutela internazionale dell’ambiente tra prassi e buona volontà” di Deborah Veraldi al link  http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/12/la-tutela-internazionale-ambiente/

[5] È possibile consultare tutte le informazioni inerenti al programma EMEP al link https://www.emep.int/

[6] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A31992R3952

[7] Il vecchio regolamento è consultabile al link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A31991R0594

[8] Articolo 1 del Regolamento (CE) n. 1005/2009 del Parlamento e del Consiglio del 16  settembre 2009 sulle sostanze che riducono lo strato di ozono.

[9] Il Regolamento è consultabile al link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014R0517&from=NL

[10] Articolo 1 del Regolamento (CE) n. 842/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 su taluni gas fluorurati ad effetto serra, consultabile al link https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CONSLEG:2006R0842:20081211:IT:PDF

[11] Si tratta della Direttiva CEE n. 360 del 1984 https://eur-lex.europa.eu/eli/dir/1984/360/oj?locale=it

[12] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32010L0075

[13] Come stabilito tra gli obiettivi e oggetto all’articolo 1 della Direttiva n. 2284/2016, consultabile al link  https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32016L2284&from=RO

[14] Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, consultabile al seguente link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=celex%3A32008L0050

[15] https://ec.europa.eu/environment/news/commission-outlines-road-zero-pollution-action-plan-2020-10-01_en

[16] https://www.eea.europa.eu/it/highlights/verso-un-inquinamento-zero-in-europa


Diritto di sciopero

Il diritto di sciopero

Il diritto di sciopero rappresenta l’astensione collettiva dal lavoro da parte di dipendenti a tutela dei propri interessi

 

Il contesto storico del diritto di sciopero

Nel periodo in cui era in vigore il Codice penale Zanardelli del 1889 lo sciopero non era vietato, era infatti considerato una libertà. Erano eccezioni le violenze e minacce commesse durante il suo esercizio. Per quanto riguarda il codice civile, lo sciopero dell’epoca era considerato come illecito civile dato che era un vero e proprio inadempimento contrattuale.

Successivamente, in epoca fascista, con l’entrata in vigore del Codice penale Rocco lo sciopero venne bandito e considerato un reato. Il codice Rocco lo inseriva, insieme alla serrata, tra i reati contro l’economia nazionale. Il codice Rocco raffigurava lo sciopero in diverse fattispecie di reato tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria ed il commercio, come ad esempio: sciopero per fini contrattuali (art. 502), sciopero per fini non contrattuali, detto anche sciopero per fini politici (art. 503), coazione alla pubblica autorità mediante serrata o sciopero (art. 504), coazione o sciopero a scopo di solidarietà e di protesta (art. 505) e altre tipologie di reato[1].

 

Il rango costituzionale di questo diritto

Con l’entrata in vigore della Costituzione italiana nel 1948, lo sciopero viene riconosciuto come un diritto. Questo vuol dire che da una parte non può essere represso penalmente, e dall’altra che non sarà più considerato nemmeno come un inadempimento contrattuale.

Il diritto di sciopero è una autotutela, garantita dall’articolo 40 della Costituzione che così recita:

“Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.

 

La ratio di tale previsione è quella da un lato di riconoscere il valore fondamentale al diritto di sciopero, e dall’altro stabilire che esso non può essere esercitato in modo indiscriminato, in quanto è compito del legislatore ordinario disciplinarne le modalità dello svolgimento. Nonostante la previsione dell’art. 40 Cost. in Italia non è stata adottata una disciplina inerente alle modalità di svolgimento del diritto di sciopero, ma il suo concreto esercizio è stato in realtà disciplinato con modalità differenti: in via unilaterale dalle Organizzazioni Sindacali e tramite accordi con la controparte datoriale.

L’entrata in vigore della Costituzione e la mancata attivazione da parte del legislatore italiano nella materia del diritto di sciopero ha portato la giurisprudenza della Corte Costituzionale a pronunciarsi più volte sulla legittimità delle norme del codice Rocco. Nel 1960 venne dichiarato incostituzionale il diritto di sciopero per fini contrattuali[2]. Successivamente la Suprema Corte si è pronunciata più volte nel valutare la legittimità costituzionale delle norme del Codice Rocco fino a stabilire i cosiddetti limiti del diritto di sciopero.

 

La definizione del diritto di sciopero

Anche la Cassazione si è più volte pronunciata nell’ambito stabilendo, per esempio, come potesse essere definito lo sciopero nelle sue varie sfumature. Lo sciopero venne all’inizio definito come astensione concreta, contestuale e continuativa, di tutti i lavoratori dell’impresa. In questo modo però, lo sciopero a singhiozzo (rappresentato dai brevi periodi di astensione dal lavoro seguiti da brevi periodi di svolgimento di attività lavorativa) e lo sciopero a scacchiera (rappresentato dall’astensione da lavoro di differenti gruppi di lavoratori interconnessi tra di loro nella produzione in tempi diversi) non rientravano nella nozione data dalla Cassazione rientrando tra le forme del diritto di sciopero civilmente illecite.

Ci sono poi altre tipologie dello sciopero come sciopero bianco, caratterizzato dalla presenza degli scioperanti sul luogo di lavoro, oppure lo sciopero dello straordinario caratterizzato dal rifiuto di fare gli straordinari. Ma ci sono anche forme atipiche di sciopero che non possono considerarsi rientranti nell’art. 40 Costituzione e sono: la non collaborazione, cioè il rifiuto delle prestazioni accessorie, l’ostruzionismo caratterizzato dall’applicazione pignola delle disposizioni dell’imprenditore, in modo da paralizzare l’attività lavorativa, lo sciopero delle mansioni, cioè il rifiuto di svolgere determinate mansioni e lo sciopero del cottimo nonché il rifiuto di osservare i ritmi produttivi necessari per conseguire il supplemento di cottimo.

 

I limiti interni e esterni del diritto di sciopero

La prima definizione data dalla Cassazione ha subito varie critiche della dottrina. Così, la giurisprudenza ha ammesso di non poterne dare una e, in mancanza di una definizione legislativa, si attribuì alla parola sciopero il significato che essa aveva nel comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale. Fu così che nel 1980 la Corte ha raggiunto una nuova dizione di scioperoun’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune[3] rimanendo estranea a tale nozione qualsiasi delimitazione attinente all’ampiezza dell’astensione[4]. Questa definizione rappresenta i cosiddetti limiti interni del diritto di sciopero. Dal momento in cui venne adottata la nuova definizione dello sciopero, tutte le forme di lotta sindacale che non rappresentano una astensione collettiva dal lavoro non possono essere così qualificate e non rientreranno sotto lo spettro dell’articolo 40 della Costituzione.

La teoria dei limiti esterni del diritto di sciopero è stata elaborata dalla Corte Costituzionale ed è stata la base da cui è partita la legislazione del 1990 del settore dei servizi pubblici essenziali[5]. I limiti esterni del diritto di sciopero sono quelli che derivano dal necessario bilanciamento di tale diritto con altri diritti costituzionalmente garantiti, soprattutto con i diritti sovraordinati e che non possono essere perciò essere danneggiati. Se non si pongono problemi per quanto riguarda il diritto alla vita o all’integrità fisica, è necessario fare un confronto con i diritti come quello della iniziativa economica privata, tutelato dall’art. 41 della Costituzione[6].

 

La titolarità del diritto di sciopero

Il diritto di sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo: la proclamazione dello sciopero stesso da parte del sindacato di appartenenza non è una condizione necessaria per riconoscere tale diritto che è già tutelato dalla Costituzione. Per quanto riguarda la proclamazione dello sciopero, essa è un atto interno dell’associazione sindacale.[7]

L’iniziativa dello sciopero però scaturire infatti in due modi:

  • tramite proclamazione sindacale (dove il sindacato è un ente stabilmente costituito) oppure
  • tramite associazione di più soggetti, da qui deriva l’esercizio collettivo del diritto di sciopero).

 

Ad esercitare il diritto di sciopero proclamato saranno i soggetti che condividono un interesse collettivo: nel caso di proclamazione da parte del sindacato l’interesse collettivo è già alla base dello stesso, nel caso di sciopero proclamato da parte di più soggetti associati spontaneamente bisognerà verificarne la sussistenza. La titolarità del diritto di sciopero sotto l’aspetto pratico è dei lavoratori subordinati[8] e parasubordinati[9].

Informazioni

M. Magnani “Il Conflitto collettivo” in Diritto Sindacale, 2016;

M. Magnani “Diritto del lavoro”, 2019;

L. Lorello “Diritto di sciopero e servizi pubblici essenziali”, 2015;

Codice penale Rocco del 1930 http://www.davite.it/leggi%20per%20sito/Codici/Codice%20penale.pdf

Legge n. 146 del 1990 https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/06/14/0090G190/sg

Legge n. 83 del 2000 https://www.camera.it/parlam/leggi/00083l.htm

[1] Codice penale Rocco del 1930, consultabile qui http://www.davite.it/leggi%20per%20sito/Codici/Codice%20penale.pdf

[2] Sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 1960 che dichiara: “1) la illegittimità costituzionale dell’art. 502, primo comma, del Codice penale, in riferimento agli artt. 39 e 40 della Costituzione;

2) e in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara altresì la illegittimità costituzionale del secondo comma dello stesso art. 502 del Codice penale.” Sentenza consultabile al link  https://www.giurcost.org/decisioni/1960/0029s-60.html

[3] Sentenza della Corte di Cassazione n. 711 del 30 gennaio 1980.

[4] Grazie a tale definizione sia lo sciopero a singhiozzo, sia la forma di sciopero a scacchiera divennero lecite.

[5] Legge n. 146 del 1990, Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Ha istituito la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge. Legge consultabile al link https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/06/14/0090G190/sg . La legge venne successivamente modificata nel 2000 dalla legge n. 83. Le modifiche e le integrazioni apportate sono consultabili al link https://www.camera.it/parlam/leggi/00083l.htm

[6]L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” Art. 41 Cost.

[7] Si consiglia la lettura dell’articolo La libertà sindacale di Beatrice Alba, in Diritto Consenso, consultabile al link http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/21/la-liberta-sindacale/

[8] Dove per lavoratore subordinato si intende lavoratore dipendente, il quale cede il proprio lavoro (tempo ed energie) ad un datore di lavoro in modo continuativo, in cambio di una retribuzione monetaria, di garanzie di continuità e di una parziale copertura previdenziale.

[9] Dove per lavoratore parasubordinato si intende il lavoratore che si impegna a compiere un’opera o un servizio a favore del committente, senza alcun vincolo di subordinazione proprio come il lavoratore autonomo ma, a differenza di quest’ultimo, beneficia delle prestazioni e delle tutele tipiche dei lavoratori subordinati.


Termine per proporre ricorso per Cassazione

Il termine per proporre ricorso per Cassazione nel processo civile

Uno dei mezzi di impugnazione del processo civile è quello di adire la Suprema Corte. È un ricorso attraverso il quale è possibile ottenere la cassazione di una sentenza, vediamo qual è il termine per proporre il ricorso per Cassazione

 

La Corte di Cassazione ed il ricorso per Cassazione

La Corte di cassazione è l’unico supremo organo della giurisdizione ordinaria con sede a Roma, deve assicurare la certezza della legge attraverso l’esatta osservanza e l’uniformità di interpretazione da parte dei giudici: la sua è una funzione c.d. nomofilattica[1]. Per perseguire questo obiettivo, per questioni di particolare rilevanza è previsto che la Cassazione decida a Sezioni Unite, come quelle concernenti la giurisdizione o questioni già decise in senso difforme dalle sezioni semplici.

E’ un mezzo costituzionalmente garantito[2] avverso tutte le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale[3]. Si tratta di un giudizio a critica vincolata, ciò vuol dire che vi si possono far valere solo i motivi tassativamente stabiliti dalla legge, che consistono in:

  • errori in procedendo[4] o
  • errori in iudicando[5].

 

La Corte di cassazione, se reputa ammissibile il ricorso o non lo rigetta, dichiara l’annullamento della sentenza, che può essere con o senza rinvio.

 

Termine per proporre ricorso per Cassazione

Il termine per proporre ricorso per Cassazione è regolato dall’articolo 325 c.p.c., il quale recita:

“Il termine per proporre l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo di cui all’articolo 404, secondo comma, è di trenta giorni. È anche di trenta giorni il termine per proporre la revocazione e l’opposizione di terzo sopra menzionata contro la sentenza delle corti d’appello.

Il termine per proporre il ricorso per cassazione è di giorni sessanta.”

 

La disposizione, pertanto, stabilisce che il termine per proporre ricorso per cassazione è di sessanta giorni, si tratta del cosiddetto termine breve. Il termine breve ha il fine di non lasciare troppo a lungo in una situazione d’incertezza i rapporti giuridici sui quali si pronuncia la sentenza.

La legge prevede, soltanto per le impugnazioni di tipo ordinario, un ulteriore termine per proporre ricorso per Cassazione, il cosiddetto termine lungo, che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza. Questa possibilità è prevista dall’articolo 327 c.p.c. che disciplina la decadenza dall’impugnazione[6].

Ci sono però estremi e rari casi in cui il termine del ricorso per Cassazione supera i sei mesi, ma in tal caso devono ricorrere cumulativamente tre condizioni:

  • che sia nulla la citazione iniziale o la sua notificazione;
  • che sia nulla anche la notifica degli altri atti notificati al contumace;
  • che tali nullità abbiano impedito al contumace di avere conoscenza del processo.

 

Decorrenza e computo del termine per proporre ricorso per Cassazione

Il termine indicato all’articolo 325 c.p.c. è di tipo perentorio[7].

Vediamo come si calcola questo termine e, quindi, la sua decorrenza, regolata dalla norma all’articolo 326 c.p.c.:

I termini stabiliti nell’articolo precedente sono perentori e decorrono dalla notificazione della sentenza, tranne per i casi previsti nei numeri 1, 2, 3 e 6 dell’articolo 395 e negli articoli 397 e 404 secondo comma, riguardo ai quali il termine decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o la collusione o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6 dell’articolo 395, o il pubblico ministero ha avuto conoscenza della sentenza.

Nel caso previsto nell’articolo 332, l’impugnazione proposta contro una parte fa decorrere nei confronti dello stesso soccombente il termine per proporla contro le altre parti.”

 

Il codice di procedura civile disciplina le modalità di computo dei termini processuali. Queste modalità sono diverse a seconda che i termini siano a giorni o a ore, a mesi o ad anni.

Nel nostro caso, per calcolare la decorrenza del termine per il ricorso in Cassazione:

  • il computo è a giorni, infatti, si esclude dal calcolo il giorno iniziale;
  • per quanto riguarda i giorni festivi, l’articolo 155 c.p.c. sancisce che essi vanno comunque computati nel termine;
  • può capitare che il giorno di scadenza sia festivo, in tal caso la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo;
  • è utile precisare che durante il periodo estivo, i termini processuali si sospendono di diritto dal 1º al 31 agosto di ciascun anno e anche l’eventuale avvio della decorrenza proprio durante tale periodo è differito al primo settembre[8].

 

Ipotesi particolari di ricorso per Cassazione

Il codice di procedura civile all’articolo 362 prevede i casi particolari di ricorso per cassazione. In base alla disposizione le decisioni in grado d’appello oppure quelle in unico grado pronunciate da giudici speciali[9] sono ricorribili in Cassazione entro il termine di 60 giorni dalla notifica della sentenza[10].

Il termine per fare ricorso in Cassazione non è prescritto nel caso di:

  • conflitto positivo o negativo di giurisdizione tra diversi giudici speciali oppure tra giudice speciale e giudice ordinario: questo avviene quando più giudici hanno affermato o negato la propria giurisdizione sulla medesima controversia;
  • conflitto negativo di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario[11];
  • ricorso per Cassazione nell’interesse della legge.

 

Quest’ultima è un’ipotesi speciale di ricorso per Cassazione prevista dall’articolo 363 c.p.c.[12] con cui il procuratore generale presso la Corte di Cassazione chiede che la stessa si pronunci nell’interesse della legge. La corte decide nell’interesse della legge pronunciando i principi di diritto ai quali i giudici di merito devono attenersi.

Informazioni

G. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, volume secondo, quarta edizione, 2015

G. AMOROSO, L’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione: il presente che guarda al passato per pensare al futuro, Corte di Cassazione 12 aprile 2017

http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/

[1] Alla Corte di Cassazione è assegnato, dal’art. 65 dell’ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, il compito di porre in essere un sindacato di legittimità che, nel corso del tempo, concretizza la nomofilachia e crea quell’inveramento della norma generale ed astratta in principi di diritto espressi dalla giurisprudenza, i quali in ragione della loro ripetuta affermazione creano quello che viene chiamato il diritto vivente. Questa funzione è garantita costituzionalmente dal settimo comma dell’art. 111 Cost. “Nomifilachia e Massimario” di Giovanni Amoroso, L’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione: il presente che guarda al passato per pensare al futuro, Corte di Cassazione 12 aprile 2017.

[2] “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione [360 c.p.c.; 606 c.p.p.].” Art. 111 Costituzione comma 6 e 7.

[3] Per approfondire sui diritti costituzionalmente garantiti si consiglia la lettura dell’articolo al link http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/20/i-diritti-costituzionali/

[4] 1. Motivi attenenti alla giurisdizione; 2. Violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza; 3. Nullità della sentenza o del procedimento; 4. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

[5] Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

[6] “Indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’articolo 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza [124 secondo comma, 129 terzo comma, disp. att.].

Questa disposizione non si applica quando la parte contumace [291 c.p.c. ss.] dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione [164] o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’articolo 292.” Articolo 327 cpc Decadenza dall’impugnazione

[7] È tale il termine, imposto dalla legge, che impone il compimento di un atto entro un determinato momento, a pena di decadenza, con esclusione della possibilità di essere prorogati, nemmeno con l’accordo delle parti.

[8] Articolo 1 Legge n. 742 del 1969

[9] Sono giudici speciali il Consiglio di Stato, i Tribunali amministrativi regionali, la Corte dei conti, il Tribunale superiore delle acque pubbliche, i Commissari regionali liquidatori di usi civici, i Tribunali militari e le Commissioni tributarie.

[10] Oppure entro il termine lungo di 6 mesi dalla pubblicazione in caso di mancata notifica della sentenza.

[11] I casi di conflitto positivo di attribuzione tra la pubblica amministrazione e l’autorità giudiziaria devono essere risolti dalla Corte Costituzionale, come previsto dall’articolo 134 Costituzione.

[12] “Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza.

Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.

La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito.” Articolo 363 cpc


Nichel

La normativa nichel: sulla quantità massima ai fini della protezione della salute umana

La normativa nichel contiene un’ampia serie di disposizioni sulla tutela della salute e dell’ambiente. Vediamo più nel dettaglio questa disciplina

 

Cos’è il nichel

Prima di passare alla normativa sul nichel, dobbiamo comprendere cos’è questa sostanza e dove è presente. Noto anche come nickel, è un metallo che appartiene alla categoria dei metalli pesanti dalla colorazione bianco-argento.

È un metallo duro diffuso in tantissimi elementi in natura, tra cui molti alimenti, sia di origine animale che vegetale, in acqua e in molti oggetti di uso comune. La principale fonte di esposizione al nickel è il consumo per via orale, poiché esso è presente come elemento contaminante.

Il nichel si trova, di conseguenza, anche nei cosmetici, non è considerato come ingrediente, ma una sostanza presente come impurezza, derivata da materie prime come i pigmenti e come residuo di lavorazione dei prodotti. Per queste ragioni non è possibile evitare in maniera assoluta il contatto con questo elemento. Tale metallo è tra i primi responsabili di reazioni allergiche da contatto[1].

 

La normativa europea relativa al nichel

Con l’introduzione, nel 2007, del Regolamento Europeo “Reach”[2] è stata adottata la disciplina per migliorare la protezione della salute umana[3] e dell’ambiente dai rischi che possono derivare dalle sostanze chimiche, aumentando la competitività dell’industria chimica dell’UE.

È stata, a livello europeo, la prima normativa riguardante il nichel.

L’adozione del Regolamento “Reach”[4] ha attribuito alle aziende l’onere della prova, pertanto queste ultime, da quel momento, devono indicare e gestire i rischi collegati alle sostanze che avrebbero prodotto e commercializzato nell’UE. Dall’entrata in vigore del Regolamento, le aziende devono dimostrare all’ECHA[5] come utilizzano le sostanze chimiche, evitare di correre rischi e comunicare le misure di gestione dei rischi degli utilizzatori.

L’articolo 67[6] del Regolamento Reach riguarda le restrizioni, che possono essere stabilite quando la fabbricazione, l’uso o l’immissione sul mercato di una sostanza comporta un rischio inaccettabile per la salute o per l’ambiente che richiede un’azione a livello comunitario. Le disposizioni della direttiva 76/769/CE[7] per l’armonizzazione delle restrizioni sono trasposte nel Regolamento REACH e sono elencate nell’allegato XVII al Regolamento. Per quanto concernente normativa nichel sono individuate delle restrizioni nel punto n. 27 e stabiliscono in particolare che la sostanza nichel (e i suoi composti) non può essere utilizzato:

  1. in tutti gli oggetti metallici che vengono inseriti negli orecchi perforati e in altre parti perforate del corpo umano, a meno che il tasso di cessione di nichel da tali oggetti sia inferiore a 0,2 μg / cm² / settimana (limite di migrazione);
  2. in articoli destinati ad entrare in contatto diretto e prolungato con la pelle, quali:
    1. orecchini,
    2. collane, bracciali e catenelle, braccialetti da caviglia, anelli,
    3. casse di orologi da polso, cinturini e chiusure di orologi,
    4. bottoni automatici, fermagli, rivetti, cerniere lampo e marchi metallici, se sono applicati agli indumenti,
    5. se il tasso di cessione di nichel dalle parti di questi articoli che vengono a contatto diretto e prolungato con la pelle è superiore a 0,5 μ / cm² / settimana;
  3. in articoli come quelli elencati alla lettera b), se hanno un rivestimento senza nichel, a meno che tale rivestimento sia sufficiente a garantire che il tasso di cessione di nichel dalle parti di tali articoli che sono a contatto diretto e prolungato con la pelle non superi 0,5 μg / cm² / settimana per un periodo di almeno due anni di uso normale dell’articolo.

 

Questi articoli non possono essere immessi sul mercato se non sono conformi alle prescrizioni di tali lettere.

Per quanto riguarda gli oggetti di bigiotteria e oreficeria, è stata adottata (più di una) normativa riguardante il nichel che specifica un metodo per simulare il rilascio di nichel da tutte le parti del corpo umano e da articoli destinati a venire in contatto diretto e prolungato con la pelle al fine di determinare se tali articoli sono conformi all’allegato XVII, N° 27 del Regolamento N° 1907/2006 (REACH). La prima normativa era del 2008 ma è stata rinnovata nel 2011, e poi nel 2015, si tratta della NORMA UNI EN 1811:2015, in vigore dal 15 gennaio del 2016.

Il nuovo emendamento EN 1811:2011 + A1:2015 include una interpretazione dei risultati che è diversa dalla versione originale della norma, e in cui i risultati precedentemente giudicati come inconclusivi, possono ora essere valutati. Le nuove regole prevedono:

  • Eliminazione dei valori di migrazione misurati nella categoria “inconcludente”;
  • Un articolo che non penetra il corpo, è tenuto a rispettare il limite di migrazione di 0,5 μg / cm² / settimana ed è considerato conforme se il valore di migrazione misurato è inferiore a 0,88 μg / cm² / settimana;
  • Un articolo di body piercing è tenuto a rispettare il limite di migrazione di 0,2 μg / cm² / settimana ed è considerato conforme se il valore di migrazione misurato è inferiore a 0,35 μg / cm² / settimana[8].

 

 

Normativa europea riguardante il nichel presente nei cosmetici

Fino a qualche anno fa, quando non era ancora stato regolato in alcun modo il controllo della sostanza nei cosmetici, era facile trovare nel mercato prodotti certificati dalla dicitura “Nichel Free”, ossia senza nichel, oppure “Nichel tested”.

Tale dicitura, però, metteva in confusione i consumatori, soprattutto quelli che presentavano i sintomi di allergia da contatto con la sostanza. Poiché gli studi scientifici hanno dimostrato che l’elemento non può essere eliminato completamente, la normativa nichel vigente ne ammette la presenza in tracce tecnicamente inevitabili.

La normativa cosmetica in vigore, cioè il Regolamento europeo n. 1223/2009[9] inserisce il nichel ed i suoi derivati nell’allegato II[10]. Nello stesso regolamento l’articolo 17 è intitolato “Tracce di sostanze vietate” e recita: «La presenza involontaria di una quantità ridotta di una sostanza vietata, derivante da impurezze degli ingredienti naturali o sintetici, dal procedimento di fabbricazione, dall’immagazzinamento, dalla migrazione dall’imballaggio e che è tecnicamente inevitabile nonostante l’osservanza di buone pratiche di fabbricazione, è consentita a condizione che tale presenza sia in conformità dell’articolo 3»[11].

Sostanzialmente, per le tracce tecnicamente inevitabili che possono essere presenti nei cosmetici non vengono definiti dei limiti.

Spesso nei prodotti cosmetici troviamo le diciture “Nichel Free” e “Nichel tested”, ma secondo la comunità scientifica non esiste un metodo che certifichi la completa assenza del nichel in un prodotto. Per questa ragione le diciture “Nichel free” nei prodotti cosmetici vengono definite fuorvianti e scorrette.

Per quanto riguarda la dicitura “Nickel tested” è da considerare corretta in quanto garantisce al consumatore che il lotto al quale appartiene il prodotto cosmetico è stato in precedenza testato al Nickel. Solitamente affianco alla dicitura si trova anche il valore numerico che rappresenta la quantità di nickel presente nel cosmetico.

Ma quindi qual è la soglia di nichel che può essere considerata sicura in un cosmetico? L’Istituto Superiore di Sanità ha fissato la soglia a 10 ppm, ma è da considerare che «anche su pelle irritata di soggetti sensibilizzati, con test occlusivo di 48H, oltre il 90% dei soggetti non reagisce a concentrazioni inferiori a 1ppm.»[12].

 

Normativa italiana a proposito del nichel

Nello stesso periodo in entra in vigore il Regolamento REACH, in Italia, viene approvato il Decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206[13], in materia di diritti del consumatore, il cosiddetto Codice del Consumo. Il Codice dà voce ad una serie di direttive dell’Unione Europea a tutela del consumatore. All’articolo 6 del Codice del Consumo sono stabilite le informazioni minime che devono essere fornite al consumatore:

“I prodotti o le confezioni dei prodotti destinati al consumatore, commercializzati sul territorio nazionale, riportano, chiaramente visibili e leggibili, almeno le indicazioni relative:

  1. alla denominazione legale o merceologica del prodotto;
  2. al nome o ragione sociale o marchio e alla sede legale del produttore o di un importatore stabilito nell’Unione europea;
  3. al Paese di origine se situato fuori dell’Unione europea;
  4. all’eventuale presenza di materiali o sostanze che possono arrecare danno all’uomo, alle cose o all’ambiente;
  5. ai materiali impiegati ed ai metodi di lavorazione ove questi siano determinanti per la qualità o le caratteristiche merceologiche del prodotto;
  6. alle istruzioni, alle eventuali precauzioni e alla destinazione d’uso, ove utili ai fini di fruizione e sicurezza del prodotto”

 

In base a quanto stabilito alla lettera d) il produttore deve indicare l’eventuale presenza di nichel, in questa evenienza la quantità della sostanza deve essere anche conforme alla legge. A tal proposito si ricorda che la quantità legittimamente contenibile è quella della normativa nickel europea.

In questo senso si è espressa più volte anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato stabilendo che:

La frequente esposizione ai metalli tra cui il nickel, che sono presenti in modo ampio e generalizzato nell’ambiente, ha prodotto un aumento dei fenomeni di allergie e sensibilizzazioni ai metalli stessi; sebbene, pertanto, rispetto ai prodotti cosmetici non siano stati codificati né i limiti di tracce di nickel tollerabili, né la metodologia da applicare per titolare la presenza di questo metallo, deve escludersi l’ingannevolezza del claim “nickel tested” utilizzato nella presentazione di un cosmetico testata rispetto alla presenza di tracce di nickel e al quantitativo effettivamente assorbibile dalla cute, ancorché utilizzando la metodica analitica e limiti di riferimento mutuati dalla direttiva n. 94/27/Ce in materia di concentrazioni di nickel consentite nella composizione di oggetti metallici destinati a venire a contatto prolungato con la pelle.”[14].

Informazioni

[1] La cosiddetta DAC, dermatite allergica da contatto. Per approfondire di più si consiglia la lettura al link http://www.allergicamente.it/allergie/cutanee/

[2] Regolamento Europeo n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH), che istituisce un’Agenzia europea per le sostanze chimiche, che modifica la direttiva 1999/45/CE e che abroga il regolamento (CEE) n. 793/93 del Consiglio e il regolamento (CE) n. 1488/94 della Commissione, nonché la direttiva 76/769/CEE del Consiglio e le direttive della Commissione 91/155/CEE, 93/67/CEE, 93/105/CE e 2000/21/CE.

[3] Sul tema si veda anche un’altra sostanza pericolosa per la salute: l’amianto. Roberto Giuliani ne ha parlato per DirittoConsenso qui: http://www.dirittoconsenso.it/2018/07/02/amianto-inquadramento-generale/

[4] La sigla sta per “Registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals”

[5] European Chemicals Agency, agenzia europea per le sostanze chimiche, istituita nel 2007 con il Regolamento REACH, ha sede a Helsinki, Finlandia. L’attività dell’ECHA intende favorire l’uso sicuro delle sostanze chimiche, il suo compito maggiore è infatti quello di aiutare le imprese a rispettare la legislazione specifica dell’UE sulle sostanze chimiche o i biocidi. https://echa.europa.eu/it/about-us/who-we-are/mission

[6] «1. Una sostanza, in quanto tale o in quanto componente di un preparato o di un articolo, per la quale l’allegato XVII prevede una restrizione non è fabbricata, immessa sul mercato o utilizzata se non ottempera alle condizioni di tale restrizione. Questa disposizione non si applica alla fabbricazione, all’immissione sul mercato e all’uso di una sostanza nell’ambito di attività di ricerca e sviluppo scientifici. L’allegato XVII specifica se la restrizione non si applica ad attività di ricerca e sviluppo orientate ai prodotti e ai processi, nonché il quantitativo massimo soggetto ad esenzione. 2. Il paragrafo 1 non si applica all’uso delle sostanze in prodotti cosmetici quali definiti nella direttiva 76/768/CEE, in relazione alle restrizioni destinate a controllare i rischi per la salute umana contemplati da detta direttiva. 3. Fino al 1o giugno 2013, uno Stato membro può mantenere in vigore eventuali restrizioni esistenti più rigorose in relazione all’allegato XVII in materia di fabbricazione, immissione sul mercato o uso di una sostanza, a condizione che esse siano state notificate conformemente al trattato. La Commissione compila e pubblica un inventario di tali restrizioni entro il 1o giugno 2009.» Articolo 67 Regolamento REACH

[7] Concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri relative alle restrizioni in materia di immissione sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi

[8] La EN 1811:2011 + A1:2015

[9]Stabilisce norme che ogni prodotto cosmetico immesso sul mercato deve rispettare, al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato interno ed un livello elevato di tutela della salute umana.

[10] Elenco delle sostanze vietate nei prodotti cosmetici.

[11] «I prodotti cosmetici messi a disposizione sul mercato sono sicuri per la salute umana se utilizzati in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili, tenuto conto in particolare di quanto segue: presentazione, compresa la conformità alla direttiva87/357/CEE, etichettatura, istruzioni per l’uso e l’eliminazione, qualsiasi altra indicazione o informazione da parte della persona responsabile definita dall’articolo 4. La presenza di avvertenze non dispensa le persone definite agli articoli 2 e 4 dal rispetto degli altri obblighi previsti dal presente regolamento.» Art. 3 Regolamento europeo n. 1223/2009

[12] http://www.nononsensecosmethic.org/cosmetici-nickel-tested-fear-mongering-o-reale-riduzione-del-rischio/

[13] https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/05206dl.htm

[14] Garante concorr. e mercato, 15/10/2014, n.25149 dalla Rassegna di diritto farmaceutico 2014, 6, 1479.


Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare

L'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare

L’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) con sede a Parma ha il compito di effettuare la valutazione del rischio connesso all’alimentazione

 

Contesto storico della nascita dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare

Da molto tempo l’istituzione di un’Autorità nel settore alimentare costituisce una necessità nell’Unione Europea: basti pensare alla nascita dei vari Comitati scientifici negli anni ’70. Uno fra questi è stato il Comitato scientifico dell’alimentazione umana disciplinato dalla Decisione 74/234/CEE del 16/04/1974, il cui scopo era quello di esprimersi sulle problematiche relative alla salute ed alla vita delle persone in conseguenza del consumo di alimenti. Prima di questo, il panorama comunitario non prevedeva alcuna disciplina riguardante la filiera alimentare, se non per alcune eccezioni rappresentate dal settore delle carni fresche[1].

Negli anni ’90 si sono succedute varie crisi alimentari (come la Bovine Spongiform Encephalopathy, cosiddetta ‘Mucca Pazza’) che hanno comportato la necessità di una risposta scientifica unificata alle crisi a livello europeo. Per questa ragione nel gennaio 2000, la Commissione Europea ha pubblicato un Libro Bianco sulla sicurezza alimentare che segnava una tappa fondamentale nella trasformazione della legislazione europea in materia. Insieme al documento, la Commissione aveva allegato un piano d’azione di 84 proposte legislative, che portasse all’adozione di un quadro giuridico che potesse coprire l’insieme della filiera alimentare “dai campi alla tavola”. Il Libro Bianco proponeva di istituire una autorità alimentare europea indipendente con compiti riguardanti la valutazione del rischio, la comunicazione del rischio e competenze in materia di sicurezza alimentare[2].

In attuazione delle proposte legislative previste dal Libro Bianco è stato adottato il Regolamento 178/2002, che istituiva l’Autorità europea per la sicurezza alimentare a cui vengono attribuiti i compiti che in precedenza spettavano ai comitati scientifici europei. Con la disciplina veniva introdotta non solo l’attività di pronta reazione, ma soprattutto, la necessità di prevenzione delle crisi di sicurezza alimentare attraverso le decisioni di una sola autorità tecnico-scientifica e indipendente a livello europeo.

 

Il ruolo dell’EFSA

L’EFSA, come già detto, è stata istituita dal Regolamento 178/2002[3] dove viene richiamata al considerando n. 33: per «rafforzare l’attuale sistema di assistenza scientifica e tecnica che non è più in grado di soddisfare le crescenti esigenze». L’autorità, in base al considerando n. 34 dovrebbe «fungere da punto di riferimento scientifico indipendente nella valutazione del rischio e contribuire in tal modo a garantire il regolare funzionamento del mercato interno»[4].

La funzione principale dell’EFSA, infatti, è quella di garantire una consulenza tecnica e un’assistenza scientifica competenti ed indipendenti in materia di sicurezza alimentare, attraverso la raccolta e l’analisi dei dati sottoposti alla sua attenzione.[5] I suoi compiti, invece, sono elencati all’art. 23 del Regolamento dove si stabilisce che l’EFSA nei settori di sua competenza debba fornire pareri, ricercare, confrontare analizzare e sintetizzare dati scientifici e pareri tecnici, contribuire alla collaborazione tra le organizzazioni operanti nei settori di sua competenza e promuovere una rete europea, individuare e comunicare il rischio.

 

Organizzazione

EFSA si compone di quattro organi principali ognuno dei quali ha i suoi compiti e funzioni specifiche: un consiglio di amministrazione, un direttore esecutivo, un foro consultivo, un comitato scientifico e gruppi di esperti scientifici.

Il primo fra tutti è il consiglio di amministrazione che garantisce che l’EFSA assolva le proprie funzioni e svolga i compiti che le sono assegnati secondo le modalità stabilite dal Regolamento che l’ha istituita. Il consiglio è composto da quattordici membri e garantiscono i più alti livelli di competenza, una vasta gamma di pertinenti conoscenze specialistiche e la distribuzione geografica più ampia possibile nell’ambito dell’Unione. Il loro mandato è quadriennale ed è rinnovabile una volta, anche se per il primo mandato questo periodo è di sei anni per la metà dei membri. Il consiglio di amministrazione adotta il regolamento interno dell’Autorità, sulla base di una proposta del direttore esecutivo, ed è reso pubblico.

Per quanto riguarda il direttore esecutivo, egli è nominato, per un periodo di cinque anni, dal consiglio di amministrazione, che lo sceglie da un elenco di candidati proposto dalla Commissione. Il direttore esecutivo è il rappresentante legale dell’EFSA. Egli ha il compito di: elaborare la proposta relativa ai programmi di lavoro dell’Autorità in consultazione con la Commissione; attuare i programmi di lavoro e le decisioni del consiglio di amministrazione; garantire che venga fornito un adeguato sostegno scientifico, tecnico e amministrativo al comitato scientifico e ai gruppi di esperti scientifici; garantire che l’Autorità svolga i propri compiti secondo le esigenze degli utenti, con particolare riguardo all’adeguatezza dei servizi forniti e al tempo impiegato; preparare il progetto dello stato di previsione delle entrate e delle spese ed esecuzione del bilancio dell’Autorità; gestire tutte le questioni relative al personale; sviluppare e mantenere i contatti con il Parlamento europeo e garantire un dialogo regolare con le sue commissioni competenti.

Il foro consultivo in base all’art. 27 del Regolamento 178/2002 è composto da rappresentanti degli organi competenti che svolgono negli Stati membri funzioni analoghe a quelle dell’Autorità, in ragione di un rappresentante per Stato membro. Il foro consultivo dell’EFSA consiglia il direttore esecutivo nello svolgimento dei suoi compiti, in particolare in sede di elaborazione di una proposta relativa al programma di lavoro dell’Autorità. Questo organo rappresenta un meccanismo di scambio di informazioni sui rischi potenziali e di concentrazione delle conoscenze. Il foro è presieduto dal direttore esecutivo e garantisce piena collaborazione tra l’EFSA e gli organi competenti degli Stati membri.[6]

Il comitato scientifico e i gruppi di esperti scientifici sono regolati dall’articolo 28 del Regolamento e il loro ruolo è quello di formulare i pareri scientifici dell’Autorità. Il comitato scientifico garantisce la coerenza della procedura di formulazione dei pareri scientifici, con particolare riguardo all’adozione delle procedure operative e all’armonizzazione dei metodi di lavoro. Esso formula pareri su questioni multisettoriali che investono le competenze di più gruppi di esperti scientifici e sulle questioni che non rientrano nelle competenze di alcun gruppo. In quest’ultimo caso, il comitato scientifico crea gruppi di lavoro. Per quanto riguarda la composizione, il comitato scientifico è costituito dai presidenti dei gruppi di esperti scientifici e da sei esperti indipendenti non appartenenti ad alcun gruppo. Mentre i gruppi di esperti scientifici sono costituiti da esperti indipendenti.

 

Funzionamento

Come detto poco fa, il compito generale del comitato scientifico e dei gruppi di esperti scientifici è quello di formulare pareri. Questi costituiscono lo strumento principale attraverso i quali l’EFSA esprime la valutazione del rischio. L’autorità formula i suoi pareri di propria iniziativa o su richiesta della Commissione, del Parlamento europeo o degli Stati membri[7]. Qualora la legislazione europea lo imponga, la Commissione è obbligata a chiedere un parere all’EFSA, allegando alla richiesta tutta la documentazione necessaria alla valutazione.

All’articolo 30 del Regolamento 178/2002 è prevista l’eventualità in cui l’EFSA riscontri l’esistenza di pareri scientifici discordanti espressi da altri istituti scientifici come un’agenzia comunitaria o uno dei comitati scientifici della Commissione. In questa evenienza, l’Autorità e l’organo interessato collaborano allo scopo di rettificare la discordanza o formulare un documento congiunto che chiarisca le questioni scientifiche oggetto di controversia e individui nei dati le fonti d’incertezza. Il documento viene poi reso pubblico.

Un altro strumento attraverso il quale opera l’EFSA è quello dell’assistenza scientifica e tecnica. Questo di solito avviene su richiesta della Commissione con lo scopo di assisterla nell’istituzione o nella valutazione di criteri tecnici oppure per l’elaborazione di orientamenti tecnici. Nel suo operato l’Autorità può avvalersi delle migliori risorse scientifiche indipendenti disponibili, commissionando studi scientifici necessari all’adempimento delle sue funzioni. Tale attività deve essere svolta in maniera trasparente e aperta, evitando ogni inutile sovrapposizione con i programmi di ricerca degli Stati membri o della Comunità. Oltre a questo è importante, secondo il Regolamento 178/2002, che l’EFSA ricerchi, raccolga, confronti, analizzi e sintetizzi dati scientifici che rientrano nella sua competenza: nell’ambito del consumo degli alimenti, nel rischio biologico, nella contaminazione degli alimenti e dei mangimi. Per favorire tale lavoro l’Autorità ha il compito di promuovere il collegamento tra agenzie europee che lavorano in questo ambito affinché venga creata una rete di cooperazione scientifica europea[8].

Si è già detto di quanto fosse importante nei primi anni 2000 prevedere un sistema di sicurezza alimentare che permettesse di rilevare il rischio per permettere di prevenire le crisi. Dunque la nuova disciplina del 2002 introduceva il cosiddetto «rischio demergente». All’articolo 34 è previsto che l’EFSA stabilisca le procedure di sorveglianza ai fini dell’individuazione dei rischi emergenti nei settori di sua competenza. L’autorità può richiedere ulteriori informazioni agli Stati membri e ad altre agenzie della Comunità e della Commissione in base alle quali viene individuato un eventuale rischio emergente. Queste informazioni e valutazioni devono essere trasmesse al Parlamento europeo, alla Commissione e agli Stati membri.

Dal 2002 il lavoro dell’EFSA è cresciuto a dismisura: sono aumentati gli stati membri, sono intervenute discipline che le attribuivano nuovi compiti, grazie alla globalizzazione del mercato alimentare sono aumentate anche le tematiche riguardanti la produzione alimentare[9]. L’EFSA deve occuparsi della valutazione del rischio di nuove tematiche come OGM, nuovi alimenti, additivi alimentari, pesticidi, ecc[10]. Ciò ha comportato la necessità di aumentare le risorse finanziarie per ricoprire lo sforzo al quale l’Autorità viene sottoposta, ma soprattutto per garantire ai consumatori europei un alto livello di sicurezza alimentare.

Informazioni

G. Rusconi, “L’autorità europea per la sicurezza alimentare”, in Diritto alimentare, 2017;

M. Holle, “Pre-market approval and its impact on food innovation: The novel foods example” in H. Bremmers, K. Purnhagen, Regulating and managing food safety in the EU, 2018;

F. Capelli, V. Silano, B. Klaus, Nuova disciplina del settore alimentare e Autorità europea per la sicurezza alimentare, 2006;

V. Paganizza, “L’Autorità europea per la sicurezza alimentare” in L. Costato, P. Borghi, S. Rizzoli, V. Paganizza, L. Salvi, Compendio di diritto alimentare, 2019;

https://www.efsa.europa.eu/it/aboutefsa

[1] https://www.alimenti-salute.it/notizia/diritto-informazione-as-9

[2] Libro Bianco sulla sicurezza alimentare 2000 consultabile al link https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:1999:0719:FIN:IT:PDF

[3] Regolamento CE 178/2002 consultabile al link https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CONSLEG:2002R0178:20060428:IT:PDF

[4] Il Mercato unico dell’Unione europea.

[5] Considerando n. 35 del Regolamento CE 178/2002

[6] In Italia, dal 31 ottobre 2018, l’organo competente è istituito presso la Direzione Generale degli Organi Collegiali per la Tutela della Salute (DGOCTS) del Ministero della salute

[7] Come previsto dal Regolamento CE 1304/2003 della Commissione europea sulla procedura applicata dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare alle richieste di pareri scientifici di cui è investita

[8] La cooperazione scientifica è disciplinata dal Regolamento CE  2230/2004 della Commissione recante modalità di applicazione del regolamento CE 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto concerne la rete di organismi operanti nell’ambito di competenza dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Consultabile al link http://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/renderNormsanPdf?anno=0&codLeg=47180&parte=1%20&serie=

[9] Rimando qui al mio articolo “Insetti cibo del futuro, dalla normativa europea a quella italiana” http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/06/insetti-cibo-del-futuro-dalla-normativa-europea-a-quella-italiana/

[10]http://www.salute.gov.it/portale/rischioAlimentare/dettaglioContenutiRischioAlimentare.jsp?lingua=italiano&id=4850&area=Valutazione%20rischio%20catena%20alimentare&menu=autorita


insetti

Insetti: cibo del futuro. La normativa europea e italiana

Contemplare gli insetti come alimento umano negli ultimi anni non costituisce più una novità, mangiarli è un’idea che ripugna, ma incuriosisce. Ma possiamo coltivarli e consumarli liberamente?

 

L’esigenza di consumare gli insetti

Nel mondo esistono tante famiglie di insetti edibili come per esempio Coleotteri (maggiolini e scarafaggi), Ortotteri (locuste, grilli, cavallette), Aracnidi (ragli e scorpioni), Omotteri (cicale), ecc. Molti di questi sono consumati per lo più nei paesi in via di sviluppo come la Cina dove è consuetudine cibarsi di baco da seta, cicale, grilli; in Thailandia non mancano mai gli insetti fritti, bolliti o alla griglia; la larva del lepidottero, proposta come fresca o essiccata, in salamoia, stufata con salsa di pomodoro, è l’insetto più consumato in Africa.

In Italia è dal 2015 che, mentre all’EXPO di Milano si introduceva lo slogan Nutrire il pianeta, Energia per la vita, si proponevano idee innovative in campo alimentare. Prima dell’EXPO pero, è stata la Food Agricultural Organisation, un’agenzia delle Nazioni Unite, creata con la missione Fame Zero, ad incitare all’entomofagia (dal greco éntomos, “insetto”, e phăgein, “mangiare”)[1]. Uno dei compiti principali dell’Organizzazione è combattere la fame[2] e, dato che la popolazione mondiale è in continua crescita (maggio 2019 la popolazione mondiale ammonta a circa 7,7 miliardi di persone), la FAO sollecita all’entomofagia, per conciliare crescita economica, diffusione del benessere e tutela dell’ambiante.

Gli insetti, infatti, rappresentano nuove soluzioni alimentari altamente proteiche e nutrienti, fonti in grado di “sfamare” il pianeta e sono più sostenibili in termini di sfruttamento del suolo e delle acque. Indubbiamente fungono da originalità nel mondo occidentale, dove non sono ancora considerati come pietanze consuetudinarie, ma se guardiamo all’estremo oriente, troveremmo gli insetti commestibili ben inseriti nella dieta umana anche di tutti i giorni.

Ma allora perché di recente sentiamo parlare sempre di più di queste pietanze in Europa e in Italia, e soprattutto, in che maniera vengono disciplinate dal legislatore? È per la necessità di rispondere ad una crescente domanda di cibo che gli operatori del settore alimentare da anni cercano di introdurre nuovi alimenti nel consumo. Nuovi alimenti che siano rispettosi dell’ambiente, che rispondano a esigenze nutrizionali dell’uomo e che siano di agevole reperibilità. La risposta a queste richieste deve essere, ovviamente, accompagnata da una adeguata legislazione in ambito alimentare, per consentire, da una parte, la circolazione di nuovi alimenti sul mercato e, dall’altra parte, garantire la food safety.

 

Gli insetti nella normativa europea

Il legislatore europeo già negli anni ’90 aveva previsto la necessità di regolare i nuovi alimenti, ovvero i Novel Food. Tra questi, l’intenzione primaria comprendeva la necessità di far rientrare anche gli animali interi e ovviamente anche gli insetti. Era infatti con il Regolamento UE n. 258 del 1997[3], che venivano regolati gli alimenti e gli ingredienti alimentari nuovi, nato dalla esigenza di uniformare a livello europeo le discipline nazionali in materia. Il primo regolamento prevedeva delle procedure di autorizzazione preventive all’introduzione sul mercato dei prodotti e ingredienti alimentari non ancora utilizzati in misura significativa per il consumo umano nella Comunità europea, tali prodotti dovevano rientrare, inoltre, in una delle categorie previste all’art. 1.

Nonostante le prime proposte in materia fossero indirizzate ad includere gli insetti nelle categorie dei Novel Food, alla fine è stata approvata una definizione più conservativa e tradizionalista, che non comprendeva animali interi. Nell’incertezza dell’interpretazione della definizione i paesi come Belgio e Regno Unito avevano autorizzato il commercio degli alimenti a base di insetti, mentre altri ne hanno impedito la circolazione applicando agli stessi la disciplina sui Novel Food. In questa maniera si era creata una disparità di trattamento nei confronti degli operatori del settore alimentare all’interno del mercato europeo.

Il legislatore era da tempo consapevole della continua evoluzione nel campo alimentare e già tra gli ultimi articoli del Regolamento UE 258/97, evidenziava la necessità di trasmettere, al Parlamento e al Consiglio, una relazione sull’attuazione dello stesso affiancata ad eventuali proposte. Oltretutto, le norme dell’Unione Europea in materia dei Novel Food stabilite nel Regolamento UE 258/97 erano diventate obsolete, occorreva aggiornarle per semplificare le procedure di autorizzazione e tenere conto degli ultimi sviluppi del diritto e dei nuovi processi tecnologici.

Per stare al passo con lo sviluppo della tecnologia, era necessario rinnovare anche lo scenario giuridico per consentire ai soggetti operanti nell’ambito alimentare a svolgere in maniera costante e agevole la loro missione. Ragion per cui il Regolamento UE 258/97 non era più idoneo a svolgere il suo compito, era inevitabile una riforma. Per questi motivi nel 2015 venne introdotto un nuovo regolamento in materia dei Novel Food, il Regolamento UE 2283/2015[4].

Con la nuova disciplina entrata in vigore il legislatore risponde all’esigenza di rinnovare la regolamentazione, delucidare e aggiornare la definizione dei nuovi alimenti e, soprattutto, inserire nella stessa insetti interi e le loro parti. La nuova espressione stabilisce che sono Novel Food:

qualunque alimento non utilizzato in misura significativa per il consumo umano nell’Unione prima del 15 maggio 1997, a prescindere dalla data di adesione all’Unione degli Stati membri, che rientra in almeno una delle categorie.” Tra le categorie, quella che ci interessa maggiormente recita “v) alimenti costituiti, isolati od ottenuti a partire da animali o da parti dei medesimi, ad eccezione degli animali ottenuti mediante pratiche tradizionali di riproduzione utilizzate per la produzione alimentare nell’Unione prima del 15 maggio 1997 qualora tali alimenti ottenuti da detti animali vantino una storia di uso sicuro come alimento nell’Unione.”

 

È stato proprio grazie alla categoria v) dell’articolo 3, comma 2, lettera a) del regolamento sui Novel Food che oggi, gli insetti possono essere introdotti nel mercato europeo dopo una preventiva procedura di valutazione e di autorizzazione centralizzata. Grazie alla nuova disciplina, dal 2018 la Commissione europea è l’istituzione europea responsabile dell’autorizzazione e può chiedere all’EFSA (European Food Safety Authority[5] con sede a Parma) una valutazione scientifica dei rischi.

Per facilitare gli operatori del settore alimentare è stato previsto anche un catalogo dei Novel Food[6] dove vengono elencati in ordine alfabetico gli alimenti autorizzati. Per ciascuno di essi, si indica il nome scientifico, l’anno in cui sono entrati in uso oppure se sono ancora in corso di procedura di autorizzazione.

Occorre evidenziare che, gli insetti, prima di essere visti come alimenti, devono essere allevati o cacciati. È necessario escludere a prescindere la caccia di insetti edibili poiché, nella legislazione alimentare europea, non viene riscontrata alcuna previsione a riguardo, soprattutto perché non sarebbe facile dimostrarne la sicurezza. Si può comunque includere questi mangimi nella definizione prevista dal Regolamento UE n. 1069/2009[7] che, nonostante riguardi i sottoprodotti di origine animale, come scopo finale ha quello di definire cosa si intende per animale da allevamento.

Per questa ragione, qualora un insetto fosse cresciuto e curato per tutta la durata della sua vita da un operatore specializzato, con la finalità di diventare un alimento, sarebbe potuto rientrare nella categoria degli animali da allevamento. Da questo punto di vista anche tutti i prodotti ottenuti dagli insetti sarebbero rientrati nella previsione normativa suesposta. Conferma di ciò viene fornita dal Regolamento UE n. 893/2017[8] sulle disposizioni inerenti proteine di animali, dove tra i considerando si specifica:

secondo la definizione di «animale d’allevamento» di cui all’articolo 3, paragrafo 6, del regolamento UE n. 1069/2009, gli insetti allevati per la produzione di proteine animali trasformate derivate da insetti sono da considerare animali d’allevamento, e sono quindi soggetti alle norme sul divieto concernente i mangimi di cui all’articolo 7 e all’allegato IV del regolamento UE  n. 999/2001 nonché alle norme in materia di alimentazione degli animali stabilite dal regolamento UE n. 1069/2009.

 

La normativa italiana

Per quanto riguarda il diritto italiano, l’allevamento di animali è ricompreso nel Codice Civile, in particolare all’articolo 2135, 1 comma che così recita “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura[9], allevamento di animali e attività connesse.”

È utile sottolineare che questa definizione di imprenditore agricolo è stata modificata dalla riforma del 2001 (decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 sull’orientamento e ammodernamento del settore agricolo).

Con il rinnovo della disciplina il legislatore ha apportato importanti novità in questo ambito, dando la possibilità oggi di includere tra le attività agrarie anche gli insetti. È stato infatti con l’innovazione della precedente formulazione che, in origine prevedeva come oggetto dell’attività di allevamento il bestiame, mentre oggi riguarda gli animali in generale. Nella definizione di “allevamento” è incluso il processo inerente alla cura e sviluppo dell’intero ciclo biologico degli animali e delle piante. Grazie alla lungimiranza del legislatore, oggi in Italia gli insetti possono essere allevati sia a scopo alimentare, sia per essere destinati al mangime, che ad altri prodotti contenenti ingredienti derivanti dagli stessi.

Negli ultimi anni però, nel nostro paese, sono state diffuse notizie inerenti agli insetti in tavola. I canali di informazione, intenti a colpire la sensibilità del lettore, hanno omesso di specificare che gli stessi, prima di comparire nei supermercati e ristoranti, sarebbero dovuti essere sottoposti alle procedure preventive di autorizzazione.

Dato il clamore nato a causa di questa mal’informazione, il Ministero della salute italiano è intervenuto con una nota del 29 ottobre 2013 che gli insetti non avendo una storia di utilizzo sicuro, non erano affidabili e, per questa ragione, dovevano essere sottoposti alle procedure stabilite dal Regolamento UE n. 258/1997 e che era in capo all’operatore del settore dimostrare  il contrario.

Successivamente, dopo l’introduzione del nuovo regolamento in materia, il Ministero della salute ha pubblicato in una nota dell’8 gennaio 2018 dichiarava che gli insetti ed i loro derivati sono considerati novel food e che, al momento, nessuna specie è stata ancora autorizzata per l’utilizzo nella alimentazione.