Cos'è il monitoraggio fiscale?
La disciplina del monitoraggio fiscale tra evoluzione del contesto normativo, definizione, ambito soggettivo e ambito oggettivo di applicazione
Il monitoraggio fiscale: definizione e contesto normativo
Il D.L. n. 167 del 28 giugno 1990, come successivamente modificato dalla L. 6 agosto 2013, n. 97, ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina del monitoraggio fiscale degli investimenti esteri di natura patrimoniale – in sostanza, dei rapporti finanziari con l’estero: tale disciplina è stata introdotta in seguito alla liberalizzazione dei movimenti di capitale tra gli stati membri della CEE (“Comunità Economica Europea”), realizzando così uno dei quattro obiettivi dei Trattati di Roma, ossia il libero trasferimento di capitali[1]. Tale liberalizzazione è stata attuata con l’emanazione della Direttiva UE[2] n. 361 del 24 giugno 1988, la quale ha disposto l’obbligo, per gli Stati membri, di sopprimere entro il 1° luglio 1990 le restrizioni ai movimenti di capitale effettuati tra persone residenti nella Comunità Europea.
Le disposizioni in tema di monitoraggio fiscale permettono all’Amministrazione finanziaria di avere piena conoscenza delle attività detenute all’estero dai contribuenti fiscalmente residenti in Italia e, di conseguenza, di controllare il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria mediante assolvimento dei debiti tributari, in applicazione del principio della world-wide taxation, cioè di tassazione in Italia, in capo a soggetti fiscalmente residenti in Italia, dei redditi dagli stessi ovunque prodotti nel mondo.
L’attenzione del Fisco si concentra, infatti, in particolare su movimenti di capitale e utilizzo del contante nelle transazioni con l’estero effettuate da contribuenti non tenuti alla redazione del bilancio (in quanto più difficilmente controllabili), sostanzialmente al fine di colpire l’evasione fiscale.
La normativa di riferimento del monitoraggio fiscale è contenuta nel citato D.L. 167/1990, il cui art. 1 detta una regola generale e impone agli intermediari bancari e finanziari[3], agli operatori non finanziari[4] e ad altri soggetti[5] – che intervengono, anche attraverso movimentazione di conti, nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento – di trasmettere all’Agenzia delle Entrate:
a) i dati relativi alle citate operazioni[6], effettuate anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000 €,
b) indipendentemente dal fatto che si tratti di un’operazione unica o di più operazioni apparentemente collegate tra loro per realizzare un’operazione frazionata.
L’adempimento richiesto ai soggetti sopracitati riguarda ugualmente operazioni eseguite per conto o a favore di persone fisiche, enti non commerciali, società semplici e associazioni equiparate ex art. 5 del TUIR (D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 – Testo Unico delle Imposte sui Redditi).
I contribuenti obbligati
La disciplina del monitoraggio fiscale impone ai c.d. “soggetti obbligati” l’obbligo, appunto, di compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi; si tratta, in particolare, di un quadro non reddituale della dichiarazione dei redditi previsto:
- per le persone fisiche (Modello Redditi PF),
- per gli enti non commerciali (Modello Redditi ENC), e
- per le società semplici ed enti equiparati (Modello Redditi SP),
che detengono investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria a titolo di proprietà o altro diritto reale[7], indipendentemente dalle modalità di acquisizione degli stessi.
Nel quadro RW delle persone fisiche residenti devono essere liquidate anche le imposte patrimoniali sui beni detenuti all’estero, ossia l’IVIE[8] e l’IVAFE[9].
L’art. 4 del citato D.L. 167/1990 elenca i contribuenti tenuti al rispetto delle norme relative al monitoraggio fiscale; sono, quindi, tenuti alla compilazione del quadro RW:
a) le persone fisiche residenti ai fini fiscali in Italia, comprese le persone fisiche titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo, a prescindere dal tipo di contabilità adottata. Sono esclusi da tale obbligo:
- i frontalieri fiscali – limitatamente a quanto da essi detenuto presso il paese presso il quale esercitano l’attività lavorativa,
- coloro che lavorano all’estero per lo Stato italiano, per sue suddivisioni pubbliche o enti locali, o per organizzazioni internazionali a cui aderisce l’Italia;
b) gli enti non commerciali residenti in Italia, a prescindere dalla circostanza che esercitino o no attività d’impresa, professionale o artistica, e che siano o meno tenuti ad obblighi di contabilità. Tra tali soggetti, inoltre, si ricomprendono anche:
- i trust opachi trasparenti residenti in Italia non fittiziamente interposti[10];
- gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale e gli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR)[11] – residenti nel territorio dello Stato;
- gli enti di previdenza obbligatoria (casse professionali) istituiti nelle forme di associazione e fondazione;
c) le società semplici residenti e le associazioni artistiche e professionali ad esse assimilate ex 5 del TUIR, purché residenti ai fini fiscali in Italia.
Per determinare la residenza in Italia, ai fini fiscali, delle persone fisiche, si deve fare riferimento ai criteri indicati all’art. 2, comma 2 del TUIR, il quale stabilisce che si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta (183 o 184 giorni dell’anno solare):
- risultano iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
- hanno il domicilio[12] in Italia;
- hanno la residenza[13] in Italia.
I tre criteri citati sono alternativi tra loro; se uno di essi sussiste per la maggior parte del periodo d’imposta, il soggetto viene considerato fiscalmente residente in Italia.
Titolarità dei beni oggetto di monitoraggio fiscale
Le disposizioni in materia di monitoraggio fiscale si applicano ai soggetti che siano direttamente titolari di diritti di proprietà e di diritti reali limitati su beni oggetto di monitoraggio[14]. Le stesse, poi, si applicano anche a coloro che hanno disponibilità di movimentazione delle attività oggetto di monitoraggio: infatti, se un soggetto residente ha la delega al prelievo su un conto corrente estero, è tenuto ugualmente alla compilazione del quadro RW, salvo che si tratti di mera delega ad operare per conto dell’intestatario (come avviene nel caso degli amministratori di società).
L’obbligo di compilazione del quadro RW si applica anche ai c.d. “titolari effettivi” dei beni oggetto di monitoraggio fiscale – e questa rappresenta sicuramente una delle maggiori novità introdotte dalla L. n. 97/2013, relativa alla “nuova” disciplina del monitoraggio fiscale.
La nozione di “titolare effettivo” è stata introdotta nel nostro ordinamento con il citato D. Lgs. n. 231/2007[15], contenente la disciplina in materia di antiriciclaggio. L’Agenzia delle Entrate ha mutuato da tale disciplina la definizione di titolare effettivo ai fini del monitoraggio fiscale: infatti, considera titolare effettivo, e quindi obbligato alla compilazione del quadro RW[16]:
- la persona fisica che possiede o controlla un’entità giuridica attraverso il possesso o il controllo diretto o indiretto di una percentuale sufficiente delle partecipazioni al capitale sociale o dei diritti di voto in seno a tale entità giuridica (pari almeno al 25% + 1), anche tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società ammessa alla quotazione su un mercato regolamentato e sottoposta a obblighi di comunicazione conformi alla normativa comunitaria o a standard internazionali equivalenti;
- la persona fisica o le persone fisiche che esercitano in altro modo il controllo sulla direzione dell’entità giuridica.
Nell’ipotesi di entità giuridiche come le fondazioni, e di istituti giuridici come i trust, che amministrano e distribuiscono fondi, per “titolari effettivi” si intendono[17]:
- se i futuri beneficiari sono già stati determinati, la persona fisica o le persone fisiche beneficiarie del 25% o più del patrimonio di un’entità giuridica;
- se le persone che beneficiano dell’entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituita o agisce l’entità giuridica;
- la persona fisica o le persone fisiche che esercitano un controllo del 25% o più del patrimonio di un’entità giuridica.
Investimenti ed attività oggetto di monitoraggio fiscale
L’Agenzia delle Entrate, nella citata Circolare n. 38 del 2013[18], è molto precisa nel descrivere cosa debba intendersi per investimenti all’estero e per attività estere di natura finanziaria. In particolare:
a) gli “investimenti” sono i beni patrimoniali collocati all’estero e suscettibili di produrre reddito imponibile in Italia;
b) le “attività estere di natura finanziaria” sono quelle da cui deriva reddito di capitale; si citano, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, le seguenti:
- partecipazioni: si tratta di partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti non residenti, di obbligazioni estere e titoli similari, di titoli pubblici italiani e titoli equiparati emessi all’estero, di valute estere e depositi e di conti correnti bancari costituiti all’estero;
- contratti di natura finanziaria: si tratta dei contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, come ad esempio finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli[19];
- contratti assicurativi: si tratta dei contratti aventi ad oggetto forme di previdenza complementare organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero, e di attività finanziarie comunque detenute all’estero per il tramite di soggetti localizzati in Paesi diversi da quelli collaborativi;
- stock options: si tratta dei titoli o diritti offerti ai lavoratori dipendenti e assimilati che danno la possibilità di acquistare, ad un determinato prezzo, azioni della società estera con cui quale il contribuente intrattiene il rapporto di lavoro, ovvero delle società controllate o controllanti nei casi in cui, al termine del periodo d’imposta, il prezzo di esercizio sia inferiore al valore corrente del sottostante;
- immobili: si tratta delle unità immobiliari situate all’estero o i relativi diritti reali (nuda proprietà e usufrutto), o di quota parte di essi, nonché degli immobili ubicati in Italia ma posseduti tramite fiduciarie straniere o soggetti esteri interposti;
- altri beni posseduti all’estero: si tratta di oggetti preziosi e opere d’arte che si trovano all’estero, nonché di imbarcazioni o navi da diporto o altri beni mobili registrati all’estero. In particolare, in relazione alle imbarcazioni, se l’imbarcazione è registrata o iscritta nei registri navali esteri, ma ancorata in acque territoriali italiane, si deve procedere alla compilazione del quadro RW, trattandosi di un investimento detenuto all’estero; viceversa, se si tratta di una imbarcazione registrata in Italia ma ancorata all’estero, non devono essere adempiuti gli obblighi di monitoraggio fiscale.
Conclusioni
Gli obblighi di monitoraggio fiscale sono stati introdotti dal legislatore con lo scopo di arginare il fenomeno dell’evasione fiscale e arginare il riciclaggio di denaro. Obiettivo dell’Amministrazione finanziaria è, quindi, esercitare un controllo – seppur indiretto perché avviene per il tramite di intermediari bancari e finanziari – sulle movimentazioni di denaro poste in essere, da e verso l’estero, da soggetti residenti ai fini fiscali in Italia. In tale meccanismo, però, è richiesto anche un ruolo attivo del contribuente, il quale è obbligato ad indicare in dichiarazione eventuali attività finanziarie e/o investimenti detenuti all’estero, pena l’applicazione di sanzioni.
Informazioni
S. Sanna, “Monitoraggio fiscale. Imposte dirette”, in Eutekne.it;
D. Veraldi, “Regolamenti e direttive dell’UE”, in DirittoConsenso (Regolamenti e direttive dell’UE – DirittoConsenso);
G. Turri, “Quadro RW: la disciplina del monitoraggio fiscale”, in Diritto e pratica tributaria, n. 5/2017,
p. 1991 ss.;
Circolare Agenzia delle Entrate n. 32 del 2006;
Circolare Agenzia delle Entrate n. 43 del 2009;
Circolare Agenzia delle Entrate n. 10 del 2015;
www.agenziaentrate.gov.it – Schede – Ivie – Che cos’è.
[1] Obiettivo che, insieme alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei servizi aveva posto le basi della CEE. Il principio della libera circolazione dei capitali è contenuto nell’art. 63 TFUE, che dispone in via generale il divieto di tutte le restrizioni ai movimenti di capitali fra gli Stati membri dell’Unione Europea nonché fra gli Stati membri ed i Paesi terzi.
[2] Al fine di comprendere la peculiarità delle Direttive dell’Unione Europea, si rinvia al seguente articolo: D. Veraldi, “Regolamenti e direttive dell’UE”, in DirittoConsenso (Regolamenti e direttive dell’UE – DirittoConsenso).
[3] In particolare, si tratta degli intermediari bancari e finanziari elencati all’articolo 3, comma 2 del D. Lgs. n. 231 del 21 novembre 2007 (in attuazione della Direttiva 2005/60/CE in tema di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo), quindi banche, Poste Italiane, società di gestione del risparmio, Cassa Depositi e Prestiti, imprese di assicurazione e altri ancora.
[4] Indicati all’articolo 3, comma 5 del D. Lgs. n. 231/2007 (es. prestatori di servizi relativi a società e trust).
[5] Si tratta di quelli indicati all’articolo 3, comma 3, lettere a) e d) del D. Lgs. n. 231/2007, ossia le società fiduciarie e i c.d. “cambia valuta”.
[6] Tali dati sono elencati all’articolo 31, comma 2 del D. Lgs. n. 231/2007, e sono: la data di instaurazione del rapporto, i dati identificativi del cliente o titolare effettivo, la data, l’importo e la causale dell’operazione, i mezzi di pagamento utilizzati.
[7] Della titolarità dei beni oggetto di monitoraggio si dirà nel dettaglio nel paragrafo successivo.
[8] Per “IVIE” si intende l’imposta sul valore degli immobili situati all’estero, dovuta dalle persone fisiche residenti in Italia che possiedono immobili all’estero, a qualsiasi uso destinati. Per un’analisi più dettagliata, cfr. Schede – Ivie – Che cos’è – Agenzia delle Entrate (agenziaentrate.gov.it).
[9] Per “IVAFE” si intende l’imposta sul valore delle attività e prodotti finanziari detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti all’estero; dal 2020 sono soggetti passivi IVAFE, oltre alle persone fisiche, anche gli enti non commerciali e le società semplici.
[10] Per “interposizione fittizia” si intende quella forma di simulazione intercorrente tra tre soggetti quali l’interposto, l’interponente ed il diretto contraente dell’interposto; sostanzialmente, si ha una fattispecie in cui la persona interposta o prestanome non assume obblighi né acquista diritti, ma presta unicamente il suo nome ad una delle parti con l’accordo dell’altra parte. Al contrario, si è in presenza di “interposizione reale” quando la persona interposta contratta in nome proprio con l’altra parte ed acquista i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto, salvo poi trasmettere i diritti all’interponente. In tema di interposizione ai fini del monitoraggio si vedano, tra gli altri, i seguenti documenti di prassi: Circolare n. 32 del 2006, Circolare n. 43 del 2009, Circolare n. 10 del 2015; in giurisprudenza si vedano, tra le altre, le seguenti pronunce: Cass. n. 8761 del 2011, Cass. n. 13089 del 2012, Cass. n. 25671 del 2013, Cass. n. 21991 del 2014.
[11] Cfr. art. 73, comma 1, lett. c) del TUIR.
[12] La nozione di domicilio a cui si rinvia è quella contenuta nell’art. 43 del Codice civile, cioè il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi. La giurisprudenza prevalente ritiene sostiene che il domicilio prescinda dalla presenza fisica di una persona in un luogo, in quanto consiste principalmente in una situazione giuridica caratterizzata da un elemento soggettivo, cioè dalla volontà del soggetto di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale delle proprie relazioni ed interessi.
[13] Anche per la nozione di residenza si deve far riferimento all’art. 43 del Codice civile, che la definisce come il luogo in cui un soggetto ha la propria dimora abituale. Secondo la giurisprudenza, la residenza è determinata dall’abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto che oggettivo della stabile permanenza in quel luogo, sia l’elemento soggettivo della volontà di rimanervi.
[14] L’Agenzia delle Entrate, nella Circolare n. 38 del 2013, ha evidenziato che nel caso di immobile estero del valore di 500.000 € detenuto in comproprietà da cinque diversi soggetti, ciascun comproprietario (sempreché si tratti di persona fisica, ente non commerciale o società semplice) è tenuto ad indicare nel quadro RW l’intero valore dell’immobile riportando la percentuale di possesso.
[15] La definizione contenuta nella normativa antiriciclaggio richiama la nozione fornita dal GAFI (Gruppo d’Azione Finanziari Internazionale) nelle c.d. “40 Raccomandazioni”.
[16] Cfr. Circolare n. 38 del 2013.
[17] Ibidem.
[18] Così come nelle Istruzioni al Modello Unico.
[19] Sul punto, la giurisprudenza non è concorde, soprattutto se si tratta di attività infruttifere: infatti, ritiene che un finanziamento senza interessi non debba essere dichiarato nel quadro RW dal soggetto che lo concede, e che gli obblighi di monitoraggio riguardino esclusivamente le attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre reddito di fonte estera in Italia – cfr., inter alia, Comm. Trib. Prov. Bolzano, n. 48/2/2014.
La prescrizione dei debiti tributari
Analisi dei termini di prescrizione dei debiti tributari e delle relative sanzioni applicabili, da non confondere con quelli di decadenza
Introduzione alla prescrizione dei debiti tributari
Il quesito da cui partire è: “È possibile non adempiere l’obbligazione tributaria[1] senza avere conseguenze effettive?”. La regola generale è che chi non adempie tale obbligazione commette un reato[2]. Può però anche capitare che l’inadempimento non sia volontario: esistono casi in cui ciò non accade intenzionalmente, come nel caso di dimenticanze od imprevisti. La prescrizione dei debiti tributari può essere considerata una modalità per uscire indenni – quindi senza conseguenze – da situazioni di mancato pagamento.
Secondo la legge, infatti, nel caso di inerzia prolungata da parte del creditore, questo suo comportamento è sintomo della sua volontà di “abbandono” del diritto che ha ad ottenere l’adempimento da parte del debitore (in quanto diritto disponibile).
In termini generali (prescindendo dalle specificità del diritto tributario), la prescrizione è una modalità di estinzione di un diritto che si verifica nel caso in cui il titolare stesso del diritto – il creditore – non lo eserciti per un periodo di tempo predeterminato dalla legge[3]. La prescrizione deve necessariamente essere eccepita dal debitore, non essendo rilevabile d’ufficio dal giudice. Inoltre, una volta effettuato il pagamento del debito – anche se già prescritto – non sussiste il diritto alla restituzione di quanto versato.
Il termine di prescrizione inizia a decorrere nel momento in cui il diritto può essere fatto valere. Ordinariamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso del termine – detto appunto “termine ordinario di prescrizione dei diritti” – di dieci anni[4].
L’articolo 2934 c.c., che detta i termini della prescrizione ordinaria, è generalmente definito “norma di chiusura”, applicabile nel caso in cui non sia stabilito un termine più breve o più lungo di prescrizione. Vi sono però anche casi in cui il legislatore ha previsto termini (più) brevi di prescrizione[5] e casi in cui ha previsto delle prescrizioni c.d. presuntive[6], nelle quali la legge presume che il debito sia stato pagato.
Non confondere prescrizione e decadenza di debiti tributari
Prima di analizzare specificamente la prescrizione dei debiti tributari, pare opportuno soffermarsi su una distinzione che crea spesso confusione: quella tra prescrizione e decadenza di un debito tributario.
Si tratta di due situazioni ben distinte:
- la prescrizione del debito è definita dall’art. 2934 c.c.,
- la decadenza dall’art. 2966 c.c.
Entrambi gli istituti prevedono che il titolare di un diritto può esercitarlo entro un determinato arco temporale, decorso il quale tale diritto perde di validità. La differenza tra i due istituti sta nel fatto che la decadenza non può mai interrompersi ma solo essere sospesa, solo in determinati casi previsti dalla legge, e ha un termine che viene applicato una sola volta; al contrario, il termine di prescrizione può essere interrotto infinite volte in quanto è l’istituto stesso della prescrizione a poter essere sospeso o interrotto.
I termini di prescrizione dei debiti tributari
Per quanto riguarda, nello specifico, i termini di prescrizione dei debiti tributari, è opportuno fare una distinzione a seconda che il debito tributario in sé derivi, oppure no, da una sentenza passata in giudicato:
- qualora il debito tributario nasca da una sentenza passata in giudicato, in virtù dell’applicazione di quanto disposto dall’art. 2953 c.c., il termine ordinario di prescrizione dei debiti tributari è quello di dieci anni, così come previsto dall’art. 2946 c.c.;
- se, invece, il debito tributario non deriva da una sentenza passata in giudicato ma da un qualsiasi atto di riscossione, è necessario verificare la natura dell’obbligazione tributaria e, quindi, l’esistenza o meno di specifiche disposizioni che prevedono una prescrizione più breve rispetto a quella ordinaria.
Il primo articolo del codice civile da prendere in considerazione è l’art. 2948 c.c., relativo alla prescrizione c.d. “breve”, il quale al § 4 prevede il termine di prescrizione breve – rispetto a quello ordinario – di cinque anni per “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. In relazione agli interessi, è opportuno fare riferimento ad una recente ordinanza della Cassazione[7], la quale ha precisato che “gli interessi dovuti per il ritardo nella loro esazione, i quali integrano un’obbligazione autonoma rispetto al debito principale e suscettibile di autonome vicende, sì che il credito relativo a tali accessori rimane sottoposto al proprio termine di prescrizione quinquennale fissato dall’art. 2948, n. 4, c.c.”[8].
Il problema sorge, dunque, nel caso in cui ci si interroghi su cosa si debba far rientrare tra “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, di cui all’art. 2948 c.c., § 4. Se risulta assolutamente pacifico che i pagamenti dei tributi locali hanno cadenza annuale o in termini più brevi (e rientrano quindi nella disposizione di cui sopra), appare più complicato farvi rientrare anche i tributi erariali.
Su questo punto si sono infatti formati due diversi orientamenti giurisprudenziali:
- il primo orientamento, seppur oggi minoritario, ritiene che il credito erariale in dichiarazione annuale debba ricondursi nell’ambito di applicazione dell’art. 2948, § 4, c.c., essendo anch’esso assoggettato al termine di prescrizione del debito tributario breve di cinque anni; ciò in virtù di varie pronunce della Cassazione [9], nelle quale la stessa Corte ha affermato che la disposizione del Codice trova applicazione nelle ipotesi di prestazioni periodiche in relazione ad una “causa debendi continuativa”, ma non anche nell’ipotesi di debito unico [10]. In applicazione di tale principio, poi, alcune corti di merito[11] hanno ritenuto che anche con le imposte erariali si verifica un pagamento periodico annuale: nelle due principali imposte erariali, infatti, il debito d’imposta sorge annualmente, a seguito della dichiarazione che ogni soggetto è tenuto ad effettuare, appunto, annualmente;
- il secondo orientamento, in contrapposizione con quanto appena affermato, ritiene che nel caso di tributi erariali il credito per la riscossione è soggetto non tanto al termine di prescrizione quinquennale, quanto piuttosto a quello “ordinario” decennale di cui all’art. 2946 c.c. E ciò viene affermato in considerazione del fatto che la prestazione tributaria, in virtù dell’autonomia dei singoli periodi di imposta e delle relative obbligazioni, non può considerarsi prestazione periodica in quanto il debito, anno per anno, deriva da una nuova pretesa in ragione della sussistenza dei presupposti impositivi [12].
Termine di prescrizione delle sanzioni tributarie
Il diritto a riscuotere le sanzioni si prescrive ordinariamente nel termine di cinque anni dalla notifica dell’atto – sia esso una cartella esattoriale o un avviso di accertamento esecutivo – che le irroga e le quantifica.
Tale termine ordinario (per le sanzioni) di prescrizione viene stabilito espressamente dalla legge, nello specifico dall’articolo 20 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, decreto recante le disposizioni generali in tema di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie.
Nonostante l’espressa previsione normativa, sul punto è comunque dovuta intervenire la Corte di Cassazione al fine di fare chiarezza.
In materia vi era, infatti, un orientamento dell’Agenzia delle Entrate, la quale riteneva che per le sanzioni relative ad imposte erariali, il termine di prescrizione sia lo stesso di quello previsto per i tributi ai quali le stesse sanzioni si riferiscono – quindi il termine ordinario di prescrizione dei debiti tributari, quello di dieci anni. Differenza, questa, di non poco conto, della quale è necessario avere considerazione. Proprio per tale ragione e tale diverso orientamento del Fisco, si è reso necessario un intervento della Cassazione che dirimesse la questione.
Prima di analizzare il parere della Suprema Corte, è opportuno sottolineare che anche in tema di sanzioni tributarie, quindi, è necessario distinguere il caso in cui queste derivino da una sentenza passata in giudicato, dal caso in cui, invece, non scaturiscano da un provvedimento giurisdizionale definitivo, quindi da sentenza irrevocabile.
Tale distinzione si pone come necessaria dal momento che:
- il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, si prescrive entro il termine ordinario di dieci anni in virtù della diretta applicazione dell’art. 2953 c.c.[13], che disciplina sia specificamente, sia in modo più generale, la c.d. actio iudicati[14];
- nel caso in cui la definitività della sanzione non derivi da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, vale il termine di prescrizione “breve” di cinque anni previsto dall’articolo 20, co. 3, del d.lgs. n. 472 del 1997 [15], “atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario” – così si è espressa la Corte di Cassazione nella recente ordinanza n. 20955 del 1° ottobre 2020[16].
Nella citata ordinanza la Corte ha, in sostanza, stabilito che per le sanzioni tributarie il termine generale di prescrizione è di cinque anni anche qualora il tributo principale soggiaccia al termine “ordinario” di dieci anni, ma con un’importante eccezione: se l’accertamento principale è diventato definitivo – quindi è stato definito da sentenza passata in giudicato – si applica il termine di dieci anni sia per i tributi, sia per le sanzioni.
In tale ipotesi, infatti, titolo esecutivo – cioè la base giuridica per poter riscuotere il tributo – non è più l’atto amministrativo da cui hanno avuto origine le sanzioni, bensì la sentenza: dovrà quindi applicarsi la norma (l’articolo 2953 c.c.) relativa agli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi, che riporta il termine di prescrizione a quello decennale.
In conseguenza di tale orientamento assunto dalla Cassazione, nel caso di ricorso tributario “perso” definitivamente con sentenza passata in giudicato, il contribuente soccombente subirà la conseguenza dell’allungamento del termine di prescrizione delle sanzioni.
Prescrizione dei debiti tributari: un esempio pratico
La prescrizione dei debiti tributari è una situazione che, dal punto di vista pratico, si verifica con una certa diffusione. Sembra opportuno e utile, quindi, trattare – seppur brevemente – un esempio pratico di prescrizione dei debiti e decadenza in ambito tributario.
Si può ipotizzare il caso di un accertamento IVA sull’anno 2020, il quale deve essere notificato, ai sensi di quanto previsto dall’art. 57 del d.P.R. n. 633/1972 (Testo Unico IVA), entro il 31 dicembre 2026. L’atto in questione viene notificato in data 22 dicembre 2025: la decadenza risulta, quindi, rispettata. Qualora non venga presentato ricorso, gli importi dovuti devono essere pagati per l’intero entro 60 giorni (termine previsto per il ricorso), quindi entro il 20 febbraio 2026. Nel caso in cui non ci siano atti interruttivi, la prescrizione per le imposte spira in data 20 febbraio 2026, quella per le sanzioni in data 20 febbraio 2031.
Informazioni
Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, F. Tesauro, XIII ed., 2018, p. 283 ss.;
“La capacità contributiva”, DirittoConsenso, di A. Palmiero;
“La prescrizione dei debiti tributari”, L. Leo, Studio Legale Tributario Leo, 2020;
Actio iudicati – Azione di giudicato – Brocardi.it. Link: https://www.brocardi.it/A/actio-iudicati.html
La prescrizione presuntiva: cos’è e come funziona (laleggepertutti.it). Link: https://www.laleggepertutti.it/200672_la-prescrizione-presuntiva-cose-e-come-funziona
Sanzioni fiscali: quando vanno in prescrizione? (laleggepertutti.it). Link: https://www.laleggepertutti.it/433538_sanzioni-fiscali-quando-vanno-in-prescrizione
Cass. SS. UU., sentenza n. 12332 del 2017;
Cass. SS.UU., sentenza n. 10955 del 2002;
Cass., ordinanza n. 16232 del 19.07.2020;
Cass., ordinanza n. 20955 del 01.10.2020;
Cass., sentenza n. 16611 del 2020;
Cass., sentenza n. 33266 del 2019;
Cass., sentenza n. 5577 del 2019;
Cass., sentenza n. 4283 del 2010;
Cass., sentenza n. 2941 del 2007;
Cass., sentenza n. 4271 del 2003;
CTP Messina, sentenza n. 512 del 2013;
CTP Milano, sentenza n. 207 del 2004;
CTP Reggio Calabria, sentenza n. 2634 del 2014;
Trib. Roma, sentenza n. 981 del 1990.
[1] L’obbligazione tributaria nasce ogniqualvolta un soggetto compia un atto o un fatto manifestazione della sua capacità contributiva, in virtù della quale è tenuto al pagamento dei tributi. In tema di capacità contributiva si rinvia all’articolo “La capacità contributiva”, di A. Palmiero, su DirittoConsenso (http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/30/capacita-contributiva/ ).
[2] In via generale, si ha inadempimento di un’obbligazione quando la prestazione non è eseguita al momento dovuto, o adempiuta nel luogo e nelle modalità stabilite. L’adempimento dell’obbligazione tributaria è affidato allo stesso contribuente, al quale sono imposti obblighi molteplici di attuazione dei tributi: il tributo, infatti, deve trovare piena e compiuta attuazione senza interventi dell’Amministrazione finanziaria; se il contribuente non dichiara integralmente il tributo, o non versa, è compito dell’Amministrazione finanziaria emettere un avviso di accertamento, entro termini previsti e a pena di decadenza, per determinare il tributo e irrogare le dovute sanzioni amministrative. Il mancato adempimento dell’obbligazione tributaria può avvenire, quindi, secondo diverse modalità: il contribuente potrebbe, infatti, non presentare la dichiarazione dei redditi (in questo caso si configura il reato di omessa dichiarazione), oppure potrebbe presentare la dichiarazione delle relative imposte dovute ma indicare costi fittizi sulla base di fatture o documenti inesistenti (e allora si configura il reato di dichiarazione fraudolenta) o, ancora, presentare la dichiarazione ma indicare nella stessa elementi attivi inferiori a quelli reali (in tale ipotesi si configura il reato di dichiarazione infedele), e adempiere l’obbligazione tributaria in base ai dati – infedeli – indicati in dichiarazione.
[3] Sul punto si veda l’art. 2934 c.c., titolato “Estinzione dei diritti”, il quale prevede espressamente che “Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. Non sono soggetti a prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge”.
[4] Cfr. art. 2946 c.c., titolato “Prescrizione ordinaria”, il quale stabilisce che “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.
[5] Si vedano al riguardo gli articoli dal 2947 al 2952 del Codice civile.
[6] Cfr. articoli dal 2954 al 2961 del Codice civile. La prescrizione presuntiva si fonda sulla presunzione che un determinato credito sia stato pagato o sia, comunque, estinto per effetto di qualche altra causa; a differenza della prescrizione ordinaria, però, è sempre ammessa la prova contraria, anche se si tratta di una prova molto difficile da raggiungere.
[7] Cfr. ordinanza n. 20955 del 01.10.2020.
[8] Cfr. ordinanza n. 20955 del 01.10.2020.
[9] Si vedano: Cass. sent. n. 4283/2010, n. 2941/2007, n. 4271 del 2003 e Cass. SS.UU. n. 10955/2002.
[10] Ad esempio, nel caso di imposta di registro in relazioni allo specifico atto su cui vi grava.
[11] Si vedano: CTP Reggio Calabria sent. 2634/2014, CTP Messina, sent. n. 512/2013, CTP Milano, sent. n. 207/2004, Trib. Roma, sent. n. 981/1990.
[12] Cfr. Cass. ordinanza n. 16232 del 19/07/2020. In tal senso si vedano anche: Cass. sent. n. 16611/2020, 33266/2019.
[13] L’articolo 2953 c.c., titolato “Effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi”, dispone che: “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”.
[14] L’espressione latina “actio iudicati”, tradotta in italiano significa letteralmente “azione di giudicato”: si intende, con questa, quell’azione diretta all’esecuzione di una sentenza passata in giudicato. Il nostro ordinamento prevede che i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni. L’espressione veniva utilizzata nel diritto romano con riferimento all’azione concessa all’attore vittorioso in un giudizio risoltosi con sentenza di condanna (condemnatio), contro il damnatus o il confessus: dal momento della sentenza, infatti, su quest’ultimo gravava l’obbligazione di eseguire la condanna.
[15] Il co. 3 dell’articolo 20 del d.lgs. n. 472 del 1997 prevede espressamente che: “Il diritto alla riscossione della sanzione irrogata si prescrive nel termine di cinque anni. L’impugnazione del provvedimento di irrogazione interrompe la prescrizione, che non corre fino alla definizione del procedimento”.
[16] Nello stesso senso si vedano anche: Cass. n. 5577/2019; Cass. SS. UU. 12332/2017.
Il Private Equity
Uno sguardo generale al mondo degli investimenti di c.d. private equity e sulle loro caratteristiche principali
Introduzione generale: cosa si intende per private equity?
L’espressione inglese private equity può essere tradotta in italiano con “investimento privato, patrimonio privato”. Tale espressione si utilizza per indicare un’attività finanziaria con cui un soggetto rileva le quote di una società – società target[1] – comprando da soggetti terzi azioni già esistenti oppure sottoscrivendone di nuova emissione.
Il soggetto che svolge questo tipo di attività è solitamente un investitore istituzionale. Questo è un operatore economico – intermediario – che effettua investimenti di considerevole natura in maniera sistematica e cumulativa avendo come base ingenti possibilità finanziarie proprie oppure che affidategli da altri. In gergo più tecnico, tale soggetto viene definito come quell’intermediario finanziario la cui attività caratteristica consiste nell’investire un patrimonio per conto di un (altro) soggetto che si trova in surplus – in eccedenza, in sovrappiù sia di finanze, che di merci o prodotti[2] – finanziario[3].
In termini più concreti, il private equity si sostanzia in una forma di investimento alternativa attraverso la quale si investe in capitale non quotato in un mercato finanziario regolamentato – non quotato in borsa[4].
Quando si parla di private equity si intende, quindi, un’operazione finanziaria – generalmente di medio-lungo termine – realizzata da soggetti specializzati e che ha come scopo principale quello di apportare capitale di rischio in una società, in base ad una serie di valutazioni effettuate in relazione all’attitudine di crescita della società stessa, valutazioni che devono aver avuto esito positivo perché possa intraprendersi un’operazione di questo tipo. Le società alle quali si vuole, con tali operazioni, apportare capitale di rischio sono solitamente società non quotate in borsa: per questo motivo, in gergo si parla di investimenti in società extraborsa.
Gli investimenti di private equity, quindi, richiedono normalmente un periodo di tempo medio-lungo per la loro realizzazione. Solo in questo modo, infatti, è possibile assicurare un risanamento, una inversione di tendenza – c.d. turnaround[5] – per le imprese in crisi, oppure anche permettere un c.d. evento di liquidità[6] quale un’offerta pubblica iniziale (IPO[7]) o la vendita ad una società pubblica.
Più nello specifico, la tipologia di attività appena descritta viene generalmente detta private equity financing, mentre gli investitori che svolgono tale attività vengono chiamati private equity investors. La società di private equity viene invece chiamata private equity fund – o firm – e normalmente riveste la forma giuridica di società in accomandita per azioni[8].
Da ultimo, bisogna dire che l’attività di private equity non si sostanzia esclusivamente nell’apporto di capitale di rischio, ma può riguardare anche una serie di attività connesse e strumentali alla realizzazione dell’idea imprenditoriale di base; fondamentale, per ciò, è sicuramente l’apporto professionale che lo stesso investitore istituzionale dà all’attività della società: in concreto, l’investitore istituzionale partecipa alle decisioni strategiche della società, mettendo a disposizione di questa le proprie conoscenze ed esperienze professionali. Lo scopo che si persegue è meramente lucrativo in quanto l’operazione è finalizzata da un lato ad aumentare il valore dell’impresa, dall’altro a garantire al soggetto investitore un ingente guadagno nel momento in cui esce dal capitale.
Breve storia del private equity
Nonostante le operazioni di private equity abbiano iniziato ad avere successo “solo” negli ultimi trent’anni, le tattiche e strategie utilizzate in questo settore hanno iniziato ad essere affinate e praticate già a partire dall’inizio dell’ultimo secolo.
A tal proposito, si dice infatti che il primo c.d. leveraged buyout[9] sia stato portato a termine proprio da J.P. Morgan[10] nel 1901, per un ammontare pari a 480 milioni di dollari: l’operazione consisteva nella fusione tra la Carnegie Steel Corporation – all’epoca una tra i principali produttori di acciaio del paese – e altre due importanti compagnie produttrici di acciaio dell’epoca – la Federal Steel Company e la National Tube – al fine di creare la United States Steel, la compagnia più potente di quei tempi[11].
Le società di private equity rimasero ai margini del sistema finanziario dopo la Seconda Guerra Mondiale, fino agli anni ’70 quando attraverso il capitale di rischio si è iniziato a finanziare la rivoluzione tecnologica americana. Verso gli anni ’80, le società di private equity iniziarono a diventare un mezzo molto utilizzato dalle imprese in crisi per raccogliere fondi e capitale in modo diverso dal mercato pubblico.
Gli anni del boom, per gli investimenti di private equity, si ebbero prima della crisi economica e finanziaria del 2007-2008[12].
Vantaggi e svantaggi di questa forma di investimento
Per quanto riguarda i vantaggi e gli svantaggi di tale forma di investimento, il private equity offre una serie di vantaggi non indifferenti per imprese e startups[13]:
- è preferito dalle imprese in quanto permette a queste accesso alla liquidità in modi diversi ed alternativi ai classici meccanismi finanziari;
- alcune forme di private equity come i venture capital[14] permettono anche di “finanziare idee” ed imprese nella loro fase iniziale. Nello specifico, gli investimenti di private equity appaiono vantaggiosi per gli imprenditori in quanto, attraverso questi, è possibile agevolare la crescita delle piccole e medie imprese, contribuire al rafforzamento della struttura manageriale e favorire l’accesso ai mercati finanziari.
In relazione, invece, agli svantaggi del private equity, questo sicuramente presenta una serie di problematiche specifiche:
- per prima cosa, potrebbe risultare complicato liquidare società di private equity perché, a differenza di quanto accade in un mercato pubblico regolamentato, qui non sempre è possibile avere una perfetta corrispondenza delle esigenze di venditori e acquirenti; infatti, una società di private equity deve sempre e necessariamente intraprendere a tutti gli effetti la “ricerca” di un venditore per poter vendere i propri investimenti;
- in secondo luogo, il prezzo delle azioni di una società di private equity è determinato dall’andamento delle negoziazioni che avvengono tra venditori e acquirenti e non dalle c.d. forze del mercato (domanda e offerta), come invece normalmente accade in un mercato pubblico regolamentato;
- infine, anche i diritti degli azionisti di una società di private equity vengono generalmente stabiliti sulla base delle negoziazioni.
L’investimento di private equity è, dunque, un investimento nell’economia reale (cioè come già più volte specificato, in società non quotate): proprio per questo motivo, tali società risultano del tutto slegate dal mercato di capitali e dal loro andamento – mercati che sono sicuramente più esposti alla volatilità e alla dinamica delle variabili finanziarie.
Per tutte queste ragioni, quindi, è sempre bene effettuare un’attenta analisi e un ragionato bilanciamento dei vantaggi e degli svantaggi che un’operazione di questo tipo può comportare.
Come funzionano, in linea di massima, gli investimenti di private equity?
Le società di private equity raccolgono fondi da investitori istituzionali e da investitori accreditati per fondi che investono in diverse tipologie di attività.
I fondi di private equity, quindi, si caratterizzano proprio per le operazioni d’investimento che realizzano, nell’ambito delle quali i soggetti privati sono chiamati a valutare le diverse opportunità del mercato e ad acquistare le quote societarie in un lasso di tempo di cinque anni.
La fase successiva è una fase di disinvestimento (che dura sempre cinque anni) nel corso della quale si valorizzano le aziende in portafoglio e si procede con la loro liquidazione. Generalmente, un fondo di private equity individua tramite i propri gestori e comitati d’investimento le opportunità (o meno) in cui investire i capitali ricevuti da un investitore istituzionale.
Esistono diverse tipologie di finanziamenti di private equity; tra i principali si ricordano:
- Leverage buy-out (acquisizione attraverso debito): consiste nell’acquisizione di una società principalmente tramite il ricorso all’indebitamento; il debito che si genera viene poi compensato attraverso gli utili futuri, oppure con la vendita di una parte dell’attivo patrimoniale della società acquisita. L’operazione si realizza costituendo una nuova società (detta newco) caratterizzata da forte indebitamento, e procedendo poi all’acquisto di un’altra società detta target; si procede poi alla fusione per incorporazione tra le due società, ottenendo uno spostamento del debito sulla società acquisita. In tal caso, si parla di fusione e acquisizione[15].
- Venture capital: si tratta di una forma di investimento a medio-lungo termine in imprese non quotate caratterizzate da un alto potenziale di sviluppo e crescita (si parla infatti di high grow companies) che sono in fase di startup. Tale tipologia di investimento viene generalmente realizzata da investitori istituzionali con l’obiettivo principale di ottenere un ingente guadagno in conto capitale, generato dalla vendita delle partecipazioni o dalla quotazione in borsa. Se, poi, la società nella quale si è investito ha successo, l’uscita dell’investitore istituzionale si avrà nel momento in cui la stessa società ha raggiunto lo sviluppo previsto; nel caso, invece, di insuccesso, l’investitore abbandona l’operazione quando comprende che la situazione di crisi è irreversibile. In tale tipologia di operazioni, però, si parla di private equity quando l’investitore istituzionale subentra in una società high growth solo in una fase successiva allo startup[16].
In conclusione, bisogna sottolineare che oltre a queste due tipologie, nella pratica le operazioni di private equity si possono realizzare anche seguendo altre modalità. A titolo esemplificativo, si parla di:
- expansion financing quando l’operazione finanziaria fornisce il capitale necessario a consentirne la sua espansione interna od esterna; e di
- bridge financing quando l’operazione è volta a portare l’impresa alla quotazione in borsa.
Informazioni
https://www.treccani.it/enciclopedia/surplus;
https://www.borsaitaliana.it/borsa/glossario/investitore-istituzionale;
https://www.treccani.it/enciclopedia/societa-in-accomandita-per-azioni;
https://www.economia-italia.com/jp-morgan-banchiere-piu-ricco-del-mondo;
https://www.americanheritage.com/deal-century;
https://www.informazionefiscale.it/Start-up-significato-requisiti-finanziamenti;
https://www.borsaitaliana.it/borsa/glossario/leveraged-buy-out.
[1] Il termine inglese target, che in italiano può essere tradotto con il termine “obiettivo”, viene generalmente utilizzato in economia per indicare un obiettivo posto come traguardo da raggiungere per una determinata strategia finanziaria, aziendale, commerciale o di marketing.
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/surplus_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/.
[3] Si veda, per ulteriori approfondimenti https://www.borsaitaliana.it/borsa/glossario/investitore-istituzionale.
[4] La borsa valori – nota in inglese con l’espressione stock exchange – è un mercato finanziario regolamentato dove vengono scambiati valori mobiliari e valute estere; siccome è un mercato mobiliare regolamentato, si dice che è un mercato pubblico (c.d. public market).
[5] Si ha un c.d. turnaround quando una società che ha sperimentato un periodo di bassa performance, di crisi, entra in un periodo di risanamento e riequilibrio finanziario.
[6] Nella finanza aziendale, un evento di liquidità consiste in una transazione che permette ai titolari della società di realizzare il valore del loro investimento; esempi di eventi di liquidità sono le fusioni, le acquisizioni o le offerte pubbliche iniziali.
[7] Un’offerta pubblica iniziale (o, in inglese, IPO – Initial Public Offering) consiste in un’offerta al pubblico dei titoli di una società che vuole quotarsi per la prima volta su un mercato regolamentato. Per un approfondimento si rimanda a: http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/01/offerta-pubblica-acquisto/
[8] La società in accomandita per azioni – o S.a.p.a. – è una tipologia di società che costituisce una “normale” società per azioni connotata però da un regime speciale rispetto a quello previsto per una S.p.A.; per un approfondimento in relazione alla società in accomandita per azioni, si veda: https://www.treccani.it/enciclopedia/societa-in-accomandita-per-azioni.
[9] Leveraged buy-out (L.B.O.) significa acquisizione attraverso debito, e consiste in una complessa serie di operazioni finanziarie volte all’acquisto di una società (il tema verrà trattato in seguito).
[10] Per una conoscenza approfondita sulla vita di J.P. Morgan, si veda https://www.economia-italia.com/jp-morgan-banchiere-piu-ricco-del-mondo.
[11] Sul punto si veda https://www.americanheritage.com/deal-century.
[12] Per una visuale più ampia circa la storia del private equity, si veda https://www.investopedia.com/privateequity.
[13] Per una definizione di startup, si veda https://www.informazionefiscale.it/Start-up-significato-requisiti-finanziamenti.
[14] A tale forma si farà riferimento nel paragrafo successivo.
[15] https://www.borsaitaliana.it/borsa/glossario/leveraged-buy-out.
[16] https://www.borsaitaliana.it/borsa/glossario/venture-capital.
Il Fiscal Compact
Gli sviluppi che hanno portato all’attuazione del Fiscal Compact, il suo contenuto normativo e gli obiettivi con esso perseguiti
Cos’è il Fiscal Compact?
L’espressione inglese Fiscal Compact sta genericamente ad indicare quello che è noto come Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria: si intende, con questo, un trattato stipulato dalla maggior parte degli Stati Membri dell’Unione Europea (ad esclusione di Gran Bretagna e Repubblica Ceca) nel marzo 2012 – più precisamente il 2 marzo – con l’obiettivo di andare a rafforzare la disciplina e coordinare le diverse politiche di bilancio ed economiche e la governance[1] dell’area dell’euro[2].
È poi necessario soffermarsi – seppur brevemente – sul significato delle parole che compongono tale espressione: il sostantivo inglese compact, nella sua traduzione italiana, non fa sorgere particolari problemi in quanto indica chiaramente un accordo, un patto tra due o più parti. Al contrario, più controversa sembra essere la traduzione del secondo termine, cioè fiscal, che nella lingua inglese indica ciò che è relativo all’attività finanziaria di uno stato o, più in generale, viene inteso nel significato di “finanziario, economico”; in italiano, invece, il termine fiscal viene erroneamente tradotto con l’aggettivo “fiscale”, che significa invece “tributario”. In sostanza, si può affermare che quando si parla di Fiscal Compact si intende quello che, in Italia, è noto come Patto di bilancio europeo, uno dei più importanti trattati firmati dai paesi europei, relativo alla politica economica e monetaria.
A livello formale, dunque, il Fiscal Compact è a tutti gli effetti un accordo che interessa e coinvolge tutti i paesi firmatari del trattato e che impone, a questi, di inserire nella loro legislazione fondamentale, preferibilmente in Costituzione, il principio dell’equilibrio (o pareggio) di bilancio. Tale accordo contiene una serie di norme – meglio note come “regole d’oro” – e di vincoli di natura economica, i quali hanno il principale obiettivo di contenere e controllare il debito pubblico nazionale di ogni paese.
Con tale trattato, quindi, si è cercato di intervenire direttamente sulla politica fiscale di ogni paese, cosicché ognuno di questi potesse arrivare a cedere, simbolicamente ma anche materialmente, parte della propria sovranità economica ad un ente sovranazionale quale è l’Unione Europea.
La storia e gli sviluppi preparatori
La prima tappa che ha portato all’adozione del Fiscal Compact, e su cui ci si deve soffermare, è l’anno 1997, durante il quale i Paesi dell’UE hanno adottato una serie di regole – contenute nel c.d. Patto di Stabilità e Crescita[3] – con lo scopo di disciplinare criteri e politiche di bilancio pubblico in seguito all’introduzione dell’euro. Tale Patto era necessario fondamentalmente per due ragioni:
- con questo, i Paesi parte della nuova area monetaria avrebbero potuto finanziare con più facilità i disavanzi pubblici, andando quindi ad indebolire gli incentivi a limitarli;
- inoltre, tali deficit, se eccessivi, avrebbero potuto minare la stabilità dell’Eurozona.
Il PSC, dunque, introduceva norme per contenere i livelli del disavanzo (entro il 3% del PIL[4]) e del debito (che doveva convergere al 60% del PIL), ma anche sanzioni in caso di inosservanza.
L’inefficacia del Patto divenne evidente nel 2010, quando la crisi finanziaria globale iniziata nel 2007[5] si trasformò in crisi del debito sovrano europeo[6].
Con l’aggravarsi della crisi del debito sovrano, gli Stati dell’UE hanno deciso di predisporre e seguire diverse linee di azione:
- nel maggio 2010 è stata predisposta una linea di credito[7] per i Paesi dell’Eurozona al fine di tutelare la stabilità finanziaria di ognuno: si parla, al proposito, di European Financial Stability Facility[8] (EFSF);
- nel marzo 2011 è stata proposta una riforma del PSC al fine di rendere automatiche le sanzioni per coloro che violano i parametri del 3% nel rapporto deficit/PIL e del 60% nel rapporto debito/PIL. Nello stesso periodo, inoltre, il coordinamento è stato ampliato ed esteso anche alle politiche strutturali attraverso il c.d. Euro Plus[9];
- nel dicembre 2011 i 17 stati parte dell’Eurozona hanno concordato le linee fondamentali del “nuovo” trattato sulla stabilità, irrigidendo i parametri relativi ai rapporti deficit/PIL e debito/PIL. Inoltre, questi erano d’accordo nel ritenere che la nuova governance[10] dell’euro dovesse avere natura costituzionale, presentandosi così la necessità di modificare il Trattato di Lisbona[11]: tale modifica ha però incontrato il veto del Regno Unito, che si è quindi rifiutato di modificare il Trattato di Lisbona a tal fine;
- il 30 gennaio 2012, dopo alcuni mesi di trattative, i rappresentanti degli esecutivi degli Stati dell’UE (che formano il Consiglio Europeo), ad esclusione di Regno Unito e Repubblica Ceca, hanno approvato il nuovo Patto di bilancio, denominato appunto Fiscal Compact, entrato in vigore il 1° gennaio 2013.
Finalità e contenuti
Lo scopo principale del Fiscal Compact è sicuramente quello di andare a rafforzare la disciplina di bilancio degli Stati parte dell’Eurozona in seguito alla crisi del debito sovrano del 2010. Dunque, tale trattato è stato concepito con la finalità di contenere il debito pubblico di ogni paese (si dice che sia diventato sinonimo dell’austerità).
Tale trattato si compone di 16 articoli che dettano una serie di principi e regole fondamentali ai quali devono attenersi gli Stati che lo hanno ratificato. Tra questi, i punti principali:
- l’articolo 3, comma 1, prevede il principio cardine del trattato, cioè il principio dell’equilibrio (o pareggio) di bilancio: in economia, si intende generalmente quella condizione di un ente economico che si verifica quando, nel corso di un anno, le uscite finanziarie sostenute da questo sono uguali (appunto, pareggiano) le entrate conseguite nello stesso periodo, evitando quindi che si verifichino situazioni di deficit. Nello specifico, l’articolo di riferimento, alla lett. a) dispone che “la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo”: stabilisce, quindi, che i Paesi interessati da tale disposizione devono impegnarsi ad avere bilanci pubblici in positivo, o perlomeno in equilibrio, al netto del ciclo economico[12]. Inoltre, il trattato obbliga gli stati ad inserire tale principio in “disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale”: in Italia è stato inserito nella Costituzione con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, che ha apportato modifiche all’articolo 81 della carta costituzionale[13];
- è previsto, poi, l’obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale[14] superiore allo 0,5% del PIL – e superiore all’1% per i paesi che abbiano debito pubblico inferiore al 60% del PIL: si pone, quindi, il vincolo dello 0,5% di deficit strutturale (quindi che non sia legato a situazioni emergenziali) rispetto al PIL;
- altro principio dettato dal Fiscal Compact è quello che prevede, per quei paesi che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% (limite, questo, già previsto dal PSC), l’obbligo di ridurre tale rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, così da poter raggiungere la percentuale “sana” del 60%;
- ancora, il trattato conferma poi un altro principio già previsto dal PSC e contenuto anche nel Trattato di Maastricht: esso riafferma l’obbligo di mantenere al massimo al 3% il rapporto deficit/PIL;
- obiettivo, poi, che si pone il trattato è quello di far crescere l’impatto delle raccomandazioni formulate dalla Commissione Europea qualora i deficit dei Paesi dell’Eurozona diventino troppo grandi.
Infine, il Fiscal Compact stabilisce che in caso di mancato rispetto dei principi in esso contenuti e di significativo scostamento dai limiti percentuali, i meccanismi di correzione previsti devono attivarsi automaticamente, senza necessari interventi discrezionali da parte delle autorità nazionali.
Ratifica, critiche ed effetti sull’economia
Il Fiscal Compact è entrato in vigore – come si è detto – il 1° gennaio 2013, dopo che è stata soddisfatta la condizione dallo stesso prevista, cioè la ratifica del Trattato da parte di almeno 12 Paesi da esso interessati[15].
Ad ogni Stato, dopo che ha ratificato il Trattato, è stato dato tempo fino al 1° gennaio 2014 – quindi, un anno esatto di tempo – per introdurre, nelle leggi del proprio ordinamento nazionale, il principio cardine del Fiscal Compact, cioè quello di pareggio del bilancio; inoltre, solo per gli Stati che lo hanno introdotto entro il 1° marzo 2014 è possibile ottenere eventuali prestiti da parte del MES – Meccanismo Europeo di Stabilità.
Obiettivo ulteriore, dopo l’entrata in vigore del Trattato, era quello di inserirlo nella legislazione europea attuale e vigente: la proposta di direttiva, avanzata in tal senso nel dicembre 2017, però, è ancora in corso d’opera[16].
Diverse, poi, sono state le critiche che i più noti tra gli economisti hanno riservato al Fiscal Compact: infatti, non tutti concordano sui rigidi vincoli imposti da quest’ultimo, arrivando addirittura ad affermare che inserire, nelle Costituzioni dei singoli Stati, il principio di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica del tutto sconsiderata, anzi andrebbe solo a peggiorare la situazione, portando addirittura ad effetti perversi in caso di recessione[17]. Fortemente criticato, poi, è stato anche l’inserimento, nel Trattato, del concetto di deficit strutturale: nello specifico, si critica la sostenibilità teorica e pratica di tale concetto in relazione al suo collegamento con il c.d. output gap[18].
Da ultimo, per quanto riguarda gli effetti che il Fiscal Compact può avere sull’economia, alla base di questo vi è l’idea – generalmente condivisa anche da economisti e Commissione Europea – che deficit e debiti fiscali possano tradursi in una riduzione degli investimenti da parte di privati, potendo anche avere un generale effetto negativo sulle possibilità di crescita dei sistemi economici. Al contrario, il punto di vista keynesiano[19] ritiene che in quelle economie che funzionano comunque ben al di sotto dei propri livelli di piena occupazione, solitamente la spesa pubblica produce un effetto espansivo e positivo sul reddito, sia in modo diretto, che per effetto dell’aumento degli investimenti privati determinati dall’aumento di spesa pubblica[20].
Non volendo addentrarsi nei dettagli più economici, è sufficiente affermare, in conclusione, che una politica fiscale restrittiva che segua alla lettera le regole previste dal Fiscal Compact non determinerà per forza, quindi come conseguenza necessaria, una riduzione netta del rapporto debito pubblico/PIL[21].
Informazioni
Fiscal compact, di I. Angeloni, in Dizionario di Economia e Finanza (Treccani On Line);
https://www.bancaditalia.it/media/fact/2019/mes_riforma/index.html;
https://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/pil.htm;
https://www.consob.it/crisi-finanziaria-del-2007-2009;
https://www.consob.it/web/investor-education/crisi-debito-sovrano-2010-2011;
http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/14/differenza-tra-firma-e-ratifica-trattato/;
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A52017PC0824;
https://www.europarl.europa.eu/governance-economica;
https://www.europarl.europa.eu/il-trattato-di-lisbona;
https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/fiscal-compact/;
[1] In tema di governance si rinvia a quanto specificato alla nota 13.
[2] Generalmente, quando si parla di “area dell’euro” (o di “zona euro”) si intende l’insieme degli Stati Membri dell’Unione Europea che adottano l’euro come valuta ufficiale, ovvero che formano la c.d. Unione economica e monetaria dell’Unione Europea. Il riferimento è alla voce “Fiscal compact”, di I. Angeloni, in Dizionario di Economia e Finanza (Treccani On Line)
[3] Il Patto di Stabilità e Crescita, noto anche con la sigla PSC, è un accordo internazionale sottoscritto e stipulato nel 1997 dagli Stati Membri dell’UE, relativo al controllo delle politiche pubbliche di bilancio di ogni Stato, con l’obiettivo i mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione economica e monetaria dell’UE e, al tempo stesso, di rafforzare il percorso di integrazione monetaria intrapreso nel 1992 attraverso il Trattato di Maastricht – https://eur-lex.europa.eu/summary/glossary/stability_growth_pact.
[4] La sigla PIL indica il c.d. prodotto interno lordo, cioè il valore di prodotti e servizi realizzati all’interno di uno Stato sovrano in un determinato arco di tempo; tale valore risulta da un processo di scambio, ovvero dalla vendita di prodotti e servizi, escludendo quindi da tale calcolo quei prodotti e servizi realizzati per autoconsumo e quelli resi a titolo gratuito – https://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/pil.htm.
[5] Per un approfondimento in merito alla crisi finanziaria del 2007-2008, si veda: https://www.consob.it/web/investor-education/crisi-finanziaria-del-2007-2009.
[6] Nota anche come “crisi della zona euro”; per una spiegazione dettagliata si faccia riferimento a: https://www.consob.it/web/investor-education/crisi-debito-sovrano-2010-2011.
[7] In via generale, una linea di credito è una somma di denaro che viene messa a disposizione di un privato o di un’azienda, concessa da un operatore economico (solitamente si tratta di una banca, ma può trattarsi anche di una finanziaria).
[8] In italiano si parla di Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, riferendosi – in via generale – allo strumento costituito appositamente dagli Stati parte dell’Eurozona al fine di aiutare, dal punto di vista finanziario, gli Stati Membri, preservando così la stabilità finanziaria dell’Eurozona nell’ipotesi di difficoltà economica. Si deve però sottolineare che dal luglio 2012 questo strumento è stato sostituito dal c.d. MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Per approfondimenti in relazione al MES si veda: https://www.bancaditalia.it/media/fact/2019/mes_riforma/index.html.
[9] L’Euro Plus, noto anche come Patto Euro+, è un piano attraverso il quale alcuni stati membri dell’UE si sono impegnati ad attuare riforme politiche al fine di migliorare la propria solidità fiscale e la propria competitività.
[10] In via generale, con il termine governance si intende l’insieme dei principi, delle regole e delle procedure relative alla gestione e al governo di una società o di una istituzione. Nello specifico, in tema di governance economica dell’euro, si veda: https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/87/governance-economica.
[11] Per approfondire, si faccia riferimento a: https://www.europarl.europa.eu/italy/it/scoprire-l-europa/il-trattato-di-lisbona.
[12] https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-02/ecco-regole-fiscal-compact.
[13] https://leg16.camera.it/.
[14] In tema di deficit strutturale italiano e rapporto con il PIL, si veda: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/11/12/deficit-strutturale-italiano-una-questione-di-stime-e-di-stima.
[15] I Paesi firmatari del Trattato sono, invece, 25 in totale: inizialmente è stato firmato da tutti i 17 Paesi che all’epoca facevano parte dell’Eurozona – quindi Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna – ai quali si è aggiunta, nel 2014, la Lettonia. In seguito, è stato firmato anche da altri 7 Stati Membri dell’UE, non appartenenti però all’Eurozona, cioè Bulgaria, Danimarca, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia. In tema di differenza che sussiste tra firma e ratifica di un trattato, si rinvia ad un articolo di DirittoConsenso, intitolato “La differenza tra firma e ratifica di trattato”, di L. Venezia – http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/14/differenza-tra-firma-e-ratifica-trattato/.
[16] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A52017PC0824.
[17] Così affermano i Premi Nobel per l’Economia K. Arrow, P. Diamond, W. Sharpe, E. Maskin, R. Solow in un appello che hanno rivolto al Presidente Obama – https://scenarieconomici.it/letteraappello-al-presidente-usa-barack-obama-da-parte-dei-premi-nobel-per-leconomia-contro-la-norma-costituzionale-del-pareggio-di-bilancio-parallelismi-con-lue-e-litalia/.
[18] L’output gap è ciò che misura la differenza che sussiste tra il PIL reale di uno stato e il PIL potenziale, cioè quello che si avrebbe nel caso di pieno utilizzo dei fattori produttivi.
[19] Termine utilizzato per descrivere le teorie formulate dall’economista inglese John Maynard Keynes; per approfondire tali teorie, si veda la voce omonima in Treccani Enciclopedia On Line – https://www.treccani.it/enciclopedia/john-maynard-keynes/.
[20] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/30/fiscal-compact-quali-sono-gli-effetti-macroeconomici/5206983/.
[21] Qualora si decida di ammettere che l’andamento del reddito dipende dalle variazioni che si verificano nelle componenti autonome della domanda aggregata (dove per domanda aggregata, o effettiva, si intende la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico complessivo in un certo periodo di tempo) – https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/fiscal-compact/.
L'elusione fiscale
L’ambito di applicazione, le condizioni e le caratteristiche dell’elusione fiscale
L’elusione fiscale: definizione e contesto normativo
La definizione di elusione fiscale – o abuso del diritto – si trova all’articolo 10 bis, comma 1, del D.L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), il quale prevede che “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Si ha dunque elusione fiscale qualora si vadano ad aggirare i principi fiscali, pur nel loro rispetto formale; infatti, in caso di operazioni elusive non si ha violazione di dette norme poiché la condotta tenuta dal soggetto è formalmente conforme a quanto previsto da queste. Ciò a cui tale condotta non è conforme è, invece, la ratio[1] delle norme. Attraverso le condotte elusive il soggetto mira ad ottenere dei vantaggi fiscali: questi, proprio perché realizzati aggirando norme fiscali, saranno vantaggi indebiti[2].
È importante, poi, distinguere l’elusione fiscale dall’evasione: quest’ultima, al contrario della prima, comporta una vera e propria violazione delle norme fiscali; nello specifico, l’evasione rappresenta il comportamento antigiuridico per eccellenza in quanto consiste nell’occultamento, da parte del contribuente, della materia imponibile, occultamento che può avvenire attraverso la semplice adozione di comportamenti omissivi o commissivi, oppure anche attraverso la realizzazione di artifici tipici della frode[3].
Oggi l’elusione fiscale è quindi oggetto di una disciplina lineare raccolta nell’articolo 10 bis dello Statuto, ma così non era in passato: infatti, si aveva una disciplina molto meno uniforme, e ciò era dovuto in particolare al fatto che coesistevano una norma specifica in tema di elusione fiscale – l’articolo 37 bis[4] del d.P.R. 600/1973, oggi abrogato – e una clausola generale antielusiva, non scritta, consistente in un generale divieto di abuso del diritto fiscale, la cui esistenza è stata postulata dalla giurisprudenza; in ciò la nostra giurisprudenza è stata sicuramente influenzata dalla Corte di Giustizia che aveva affermato il principio generale per cui i singoli non possono avvalersi, in modo fraudolento, del diritto comunitario[5]. Sul punto è poi più volte intervenuta la Cassazione, ritenendo applicabile tale principio anche alle imposte dirette[6] (nonostante le sentenze dell’UE siano generalmente vincolanti solo per le imposte armonizzate[7]); inoltre, noncurante delle forti critiche della dottrina[8], la Cassazione aveva più volte ribadito che tale clausola generale trovasse diretto fondamento nel principio di capacità contributiva[9].
Nel nostro ordinamento convivevano, quindi, da un lato la disciplina specifica dell’elusione fiscale ex articolo 37 bis del d.P.R. 600/1973, dall’altro la clausola generale applicata dalla giurisprudenza: la situazione è stata poi armonizzata grazie all’introduzione dell’articolo 10 bis dello Statuto[10].
I requisiti che qualificano un’operazione come elusiva ex articolo 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente
L’articolo 10 bis dello Statuto racchiude la disciplina dell’elusione fiscale e, al comma 1, ne detta la definizione. Da questa si evince che tre sono i requisiti che devono sussistere affinché si configuri una situazione di abuso del diritto:
- le operazioni realizzate dal soggetto devono essere prive di sostanza economica;
- ci deve essere rispetto formale delle norme fiscali;
- tali operazioni devono portare a vantaggi fiscali indebiti.
Il primo requisito viene specificato al comma 2, lett. a), che chiarisce cosa sono le operazioni prive di sostanza economica: si tratta generalmente di operazioni consistenti in atti, fatti, contratti di per sé “inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”[11]. Lo stesso comma prosegue poi specificando alcuni indici di mancanza di sostanza economica: in particolare, si fa riferimento alle ipotesi in cui non vi sia coerenza tra la qualificazione delle operazioni e il loro fondamento giuridico, ovvero qualora gli strumenti giuridici vengano utilizzati in modo non conforme alle normali logiche di mercato[12].
Il secondo requisito che deve sussistere affinché vi sia abuso del diritto è il rispetto formale delle norme fiscali: ciò implica quindi che l’operazione elusiva sia conforme alla norma ma non alla sua ratio. È proprio la mancanza di violazione della disposizione fiscale a distinguere l’elusione fiscale dall’evasione; e su questo si sofferma anche lo stesso legislatore, il quale ribadisce, al comma 12, che l’abuso del diritto può configurarsi solo se “i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Terzo ed ultimo requisito che qualifica un’operazione come elusiva è il fatto che da questa il soggetto ottenga vantaggi fiscali indebiti: a specificare quali vantaggi possano qualificarsi come indebiti subentra il comma 2, lett. b), che dispone che sono indebiti quei vantaggi che vengono realizzati “in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”; sostanzialmente, se il soggetto che realizza l’operazione ottiene vantaggi contrari ai principi tributari, detta operazione sarà elusiva.
Infine, l’ordinamento non considera elusive, come specifica il comma 3, quelle operazioni giustificate da “valide ragioni extrafiscali” con finalità di “miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. Si rende però necessario chiarire la portata di tale disposizione e il suo rapporto con la definizione di elusione fiscale ex commi 1 e 2: secondo la dottrina, il comma 3 consiste in nient’altro che un’ulteriore specificazione, seppur con altre parole, del concetto generale già espresso dai commi precedenti[13].
Conseguenze, sanzioni e accertamento delle operazioni elusive
La principale conseguenza delle operazioni elusive è la loro inopponibilità all’amministrazione finanziaria: all’avviso di accertamento emesso verso il contribuente, egli non può opporre di non dovere l’imposta perché la condotta che ha tenuto è diversa da quella da cui origina la pretesa fiscale. L’inopponibilità implica quindi che l’amministrazione neghi i vantaggi ottenuti attraverso l’operazione elusiva, determinando i tributi in base alle norme e ai principi elusi[14].
Ai negozi che eludono norme fiscali, poi, non si applica l’articolo 1344 c.c.[15] in quanto si ritiene che le norme imperative a cui questo fa riferimento siano solo le norme civilistiche proibitive, cioè quelle che vietano il compimento di determinati negozi, e non quelle fiscali[16]. Tale impostazione trova conferma anche nel comma 3 dell’articolo 10 bis, che dispone che “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”.
Relativamente, poi, alle sanzioni previste per l’elusione fiscale, il riferimento è al comma 13 che stabilisce che “le operazioni elusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”: la norma, se da un lato sancisce l’irrilevanza penale delle condotte elusive[17], dall’altro ha permesso di abbandonare quell’orientamento, sviluppato in passato dalla giurisprudenza, che ravvisava il reato di dichiarazione infedele nelle condotte elusive: tale orientamento oggi non è più condivisibile poiché, in relazione a tali condotte, si è verificata una vera e propria ipotesi di abolitio criminis[18]. Come aggiunge poi il comma 13, “resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative” qualora vi sia differenza tra imposta dichiarata ed imposta accertata.
L’articolo 10 bis si preoccupa anche di disciplinare l’iter di accertamento della condotta elusiva: esso stabilisce che l’avviso di accertamento con cui si accerta l’imposta elusa deve essere preceduto da una fase di interlocuzione tra contribuente e amministrazione finalizzata ad ottenere chiarimenti circa le operazioni sottoposte a controllo; solo nel caso di mancata risposta del contribuente l’amministrazione può procedere all’emanazione dell’atto impositivo. Nella redazione di tale atto, pena la nullità dello stesso, sull’amministrazione grava un preciso e ampio onere di motivazione “in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente”, come specifica il comma 8 della norma.
Da ultimo bisogna specificare che, siccome può esservi dubbio circa l’elusività di una condotta, al contribuente viene data la possibilità di rivolgersi agli uffici competenti per “conoscere se le operazioni costituiscano fattispecie di abuso del diritto”, come prevede il comma 5, disciplinando quello che è chiamato “interpello antiabuso”.
Le norme con ratio antielusiva e la loro eventuale disapplicazione
Il legislatore tributario provvede a contrastare l’elusione fiscale sia con norme di portata generale, come l’articolo 10 bis dello Statuto (quindi norme espressamente antielusive), sia con la previsione di una serie di norme implicitamente antielusive: si tratta, in quest’ultima ipotesi, di norme il cui carattere antielusivo non è esplicito, ma risiede nella ratio della norma stessa. Sono, generalmente, norme che appartengono alla disciplina sostanziale di un tributo e che rispondono alla finalità di impedire, ai contribuenti, di porre in essere pratiche elusive[19].
Alcuni esempi di norme antielusive specifiche, quindi aventi ratio antielusiva, sono:
- la norma relativa al transfer pricing [20] ai sensi dell’articolo 110, comma 7, del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, d.P.R. 917/1986), la quale prevede che, in relazione a trasferimenti infragruppo, rileva il valore nominale e non il prezzo pattuito: è questa una regola che ha come obiettivo quello di evitare che, tra le società di uno stesso gruppo, si pattuiscano prezzi dei beni difformi dal valore nominale, al fine di eludere le imposte dovute in Italia;
- la legislazione CFC (controlled foreign companies[21]), secondo quanto previsto dall’articolo 167 TUIR, che disciplina la tassazione degli utili che derivano dalla partecipazione in società estere controllate che hanno sede in stati a fiscalità privilegiata: la legislazione CFC prevede quindi che tali utili siano tassati secondo il principio di trasparenza[22].
Le norme con ratio antielusiva sostanzialmente negano l’ottenimento di determinati benefici: per ciò, però, il legislatore prevede un correttivo consistente nella possibilità, offerta al contribuente, di chiedere la disapplicazione di una norma con ratio antielusiva.
L’articolo 1, comma 3, del d.lgs. 128/2015 dispone infatti che possono essere disapplicate “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario”, qualora non possano verificarsi effetti elusivi; spetta infatti al contribuente, per poter ottenere la disapplicazione di una norma con ratio antielusiva, provare che tali effetti (elusivi) non possono verificarsi. La ratio antielusiva di una norma, quindi, è di per sé giuridicamente rilevante per poter ottenere la disapplicazione della stessa.
Informazioni
Cass. 3 settembre 2001, n. 11351
Cass. 26 ottobre 2005, n. 20816
Cass. 29 settembre 2006, n. 21221
Cass. 23 dicembre 2008, n. 30055
Cass. penale 7 ottobre 2015, n. 40272
Abuso del diritto (diritto tributario), di I. Caraccioli, in Enciclopedia del diritto, Annali X, 2017
F. Tesauro, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. it., 2008
F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, in Diritto e pratica tributaria, 2012
F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, XIV ed., 2020
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A62002CJ0255
https://temi.camera.it/leg17/post/app_labuso_del_diritto
http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/28/transfer-pricing
https://www.treccani.it/enciclopedia/armonizzazione-fiscale
https://www.treccani.it/enciclopedia/evasione
https://www.treccani.it/enciclopedia/trasparenza-dir-trib_(Diritto-on-line)/
[1] Il termine ratio deriva dal latino ed è l’abbreviazione dell’espressione “ratio legis” che, letteralmente, significa “ragione della legge”: nel linguaggio giuridico viene spesso usata per indicare il criterio ispiratore, l’intenzione che sta alla base di una determinata norma.
[2] F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, XIV ed., 2020.
[3] Si veda sul punto la voce “Evasione”, in Enciclopedia Treccani Online (https://www.treccani.it/enciclopedia/evasione).
[4] Tale articolo disponeva che “Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, e a ottenere riduzioni d’imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.
[5] Il leading case di riferimento è la sentenza Halifax (Corte di giustizia CE, causa C-255/02 del 21.02.2006 – https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A62002CJ0255).
[6] Cass. 29 settembre 2006, n. 21221. Sono imposte dirette quelle che colpiscono manifestazioni dirette di capacità contributiva, quali il reddito o il patrimonio del soggetto.
[7] In via generale, si definisce “armonizzazione fiscale” quel procedimento attraverso il quale si cerca di rendere tra loro conformi le discipline di diversi tributi comuni agli stati europei, così da eliminare diverse interpretazioni di origine fiscale che potrebbero ostacolare la libera concorrenza nel mercato unico (https://www.treccani.it/enciclopedia/armonizzazione-fiscale).
[8] Nello specifico, si veda la critica di F. Tesauro, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. it., 2008, p. 1025 ss.
[9] Cass. 23 dicembre 2008, n. 30055.
[10] Si è quindi reso necessario un riordino, al quale ha provveduto l’articolo 5 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, che ha previsto una generale disciplina dell’abuso del diritto in materia fiscale e ha quindi appoggiato l’orientamento giurisprudenziale, anche tenendo conto della Raccomandazione della Commissione Europea relativa al tema della pianificazione fiscale aggressiva (Raccomandazione n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012). La legge delega
n. 23/2014 è stata poi attuata attraverso il d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che ha introdotto l’articolo 10 bis nello Statuto.
[11] Un esempio di operazione priva di sostanza economica potrebbe essere la costituzione, in un paradiso fiscale, di una società che non svolge alcun tipo di attività, al solo scopo di avere partecipazioni i cui proventi non siano tassati oppure lo siano ma in misura blanda.
[12] F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, XIV ed., 2020.
[13] Ci si rifà, quindi, alla definizione generale di abuso del diritto, in base alla quale non può aversi elusione qualora i vantaggi fiscali ottenuti dall’operazione non siano indebiti e, comunque, non costituiscano gli effetti essenziali dell’operazione posta in essere. Sul punto si veda la voce “Abuso del diritto (diritto tributario)” di I. Caraccioli, in Enciclopedia del diritto, Annali X, 2017.
[14] https://temi.camera.it/leg17/post/app_labuso_del_diritto.
[15] Il quale prevede che è nullo, per illiceità della causa, quel contratto che “costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.
[16] Si vedano sul punto anche alcune pronunce della Cassazione: Cass. 3 settembre 2001, n. 11351; Cass. 26 ottobre 2005, n. 20816.
[17] In tema di irrilevanza penale delle condotte abusive, si veda in giurisprudenza: Cass. penale 7 ottobre 2015, n. 40272, nella quale si afferma che si devono “ritenere non più penalmente rilevanti le condotte fiscalmente elusive integranti mero abuso del diritto”.
[18] L’espressione latina abolitio criminis letteralmente significa “abolizione di un crimine” e sta ad indicare, in via generale, l’abrogazione di una fattispecie di reato ad opera del legislatore.
[19] F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, in Diritto e pratica tributaria, 2012.
[20] Per un’analisi dettagliata della disciplina in materia di transfer pricing si rinvia ad un articolo di DirittoConsenso, intitolato “Transfer pricing”, scritto da S. Micoli – http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/28/transfer-pricing.
[21] Tale espressione significa “società estere controllate”, come poi afferma la disciplina; la legislazione CFC è di per sé uno strumento utilizzato dagli ordinamenti UE al fine di evitare possibili fattispecie di elusione fiscale.
[22] Per una spiegazione dettagliata del principio di trasparenza si rinvia a: https://www.treccani.it/enciclopedia/trasparenza-dir-trib_(Diritto-on-line)/.