Informatica giuridica: tra informatica e diritto
Introduzione all’informatica giuridica a partire dal contesto storico con approfondimento circa la cd. società delle informazioni e temi correlati alla quotidianità
Introduzione storica all’informatica giuridica
Quando si introducono concetti nuovi e poco concreti, come sarà per molti quello dell’informatica giuridica, la prima cosa utile può essere indagarne le radici dal punto di vista storico. Questo approccio, infatti, permette di inquadrare il contesto e cominciare più facilmente ad intuire di cosa si tratti. Ebbene, l’informatica giuridica si colloca storicamente in quella che viene chiamata quarta rivoluzione, la rivoluzione di Alan Turing che segue quelle di Copernico, Darwin e Freud.
Erano gli anni ‘50 del XX secolo, quando Turing gettava le basi dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. Dall’informatica che vedeva la luce in quegli anni come “gestione automatica di dati e informazioni mediante calcolatore”, il passo verso l’informatica giuridica è presto fatto interrogandosi circa l’utilizzo dei calcolatori elettronici nel campo del diritto. Hanno preso avvio, così, teorie sullo sfruttamento dei vantaggi offerti dalle tecniche elettroniche per studiare e risolvere i problemi giuridici.
Diritto dell’informatica e informatica del diritto
L’informatica giuridica, quindi, è quella disciplina che studia gli aspetti giuridici della rivoluzione tecnologica, economica e sociale prodotta dall’elaborazione automatica delle informazioni.
Sul rapporto tra informatica giuridica e diritto dell’informatica, nonché con l’informatica del diritto, si possono leggere differenti opinioni. Per alcuni si tratta di materie da distinguere come si distingue la filosofia del diritto, cui afferisce l’informatica giuridica, dalla scienza del diritto, cui afferirebbe il diritto dell’informatica; così facendo, la prima risponderebbe alla domanda “perché?”, mentre il secondo alla domanda “come?”. Ciò detto, anche secondo questa interpretazione, sostanziali contaminazioni reciproche tra le due materie sarebbero possibili, come nel caso del progetto di insegnare alle macchine a comprendere e decidere in maniera giuridica che prese piede a partire dagli anni ’70 nel settore tributario.
Si ritiene più convincente l’interpretazione secondo cui l’informatica giuridica è una disciplina unitaria il cui spirito è costituito appunto dall’interazione tra diritto e informatica e che si sviluppa in due direzioni:
- una è quella del diritto dell’informatica come disciplina giuridica dell’informatizzazione – es. reati informatici,
- l’altra è quella dell’informatica del diritto per quanto riguarda l’uso dell’informatica nelle attività giuridiche – es. firma digitale.
Le società dell’informazione
Questioni meritevoli di un approccio di informatica giuridica sono sempre più frequenti in quella che può essere definita “società dell’informazione” per la centralità delle informazioni. In tale contesto, lo sviluppo tecnologico propone nuovi problemi alla disciplina giuridica e alla riflessione del giurista sia con riguardo all’organizzazione sociale e politica, sia con riguardo alla vita dei singoli. Più concretamente di quanto si possa pensare, nel campo del diritto, conseguenze dirette sono
- la nascita di nuovi settori del diritto, come il diritto della tutela dei dati e
- la modifica di settori già esistenti, in ogni caso con risonanza anche negli altri ambiti del diritto collegati.
La rivoluzione informazionale, poi, incide sull’attività del giurista che acquista nuovi strumenti di lavoro per l’elaborazione e la comunicazione delle informazioni e con due ordini di cambiamenti: da un lato cambia il modo di svolgere il lavoro, dall’altro l’ambito dei contesti sociali e organizzativi resi possibili dall’informatica, quindi gli ambienti virtuali creati grazie ad essa. Basti appunto pensare ai canali social, luoghi virtuali per eccellenza, nei quali è impensabile comportamenti illeciti possano andare esenti da sanzioni.
Verso il design giuridico
Ora, posta la fattispecie astratta ‘A’ prevista dal legislatore e la sanzione giuridica ‘B’ prevista in conseguenza alla fattispecie astratta, le norme posso essere ricondotte allo schema “Se A allora B”[1]. E si potrebbe discorrere a lungo della logica del linguaggio giuridico ma quel che qui si vuole notare è semplicemente che, ad un certo punto, il quadro sanzionatorio tradizionale è divenuto inefficace nei nuovi ambienti e ambiti scaturiti dall’informatica e dalla tecnologia in generale.
Più sinteticamente: se tutto quello che non è espressamente proibito è lecito, evidentemente apre uno spazio fuori dal normato. Ed è qui che è curioso osservare il legislatore nella sua rincorsa a normare – dai primi anni ’90 – i reati robotici, la riservatezza o privacy e i mercati elettronici, eccetera. Così, negli ultimi decenni, la risposta crescente del legislatore è quella di inserire normatività negli spazi in cui si interagisce. Così facendo, conferisce agli strumenti quello che può dirsi design giuridico nei termini in cui si integrano nello strumento stesso controlli o vincoli legali all’operatività, ma anche comunicazioni più semplici ed efficaci rispetto ad un codice per indirizzare il comportamento degli utilizzatori[2]. Comunemente ne abbiamo esempio in YouTube con i sistemi di rilevazione della possibile violazione del copyright; oppure si pensi al lettore Kindle, progettato per autotutelare i suoi prodotti.
La sicurezza delle informazioni
Nel contesto descritto, la sicurezza delle informazioni diviene centrale
- sia per un tema di certezza delle informazioni intesa come la necessità che le informazioni che circolano siano certe e affidabili,
- sia per un tema di sicurezza in senso stretto in termini di protezione. E ciò perché le informazioni, o dati, rappresentano un valore anche economico capace – per questo – di attrarre malintenzionati interessati ad ottenere illecitamente un numero di dati e, ad esempio, a chiedere il pagamento di un riscatto. È quello che nel campo della sicurezza informatica prendere il nome di Ransomware[3] ma non è niente di diverso da quello che potrebbe accadere anche con le cartelle cliniche cartacee in un archivio ospedaliero se non per il fatto che il furto avviene tramite un attacco hacker anziché materialmente, se comunque viene chiesto un riscatto per rientrare nella disponibilità dei dati.
Sebbene possa sembrare un tema di esclusivo interesse delle società che si occupano di informatica e simili, la sicurezza delle informazioni interessa anche il giurista e non solo nei termini in cui le informazioni diventano centrali nella società e il diritto necessita di adeguarsi a coprire anche tale ambito, ma anche nei termini in cui il campo del diritto si espande ad includere regolamentazioni e standard provenienti da fuori dei confini nazionali ma capaci di governare ambiti come quello della sicurezza informatica o cybersecurity.
Il riferimento va prima di tutto alla normativa di provenienza europea[4], in secondo luogo va anche a standard tecnici internazionali presi come riferimento da aziende che – di propria iniziativa o su indirizzo proprio dell’appena menzionata normativa di provenienza europea – scelgano di certificarsi come conformi a tali standard riconosciuti a livello mondiale. Si tratta di standard tecnici per definizione vincolanti solo su base volontaria ma molto autorevoli in quanto definiti dall’Organizzazione Internazionale per la Normazione meglio nota con l’acronimo ISO. Tra i vari standard, in materia di sicurezza delle informazioni il riferimento va all’ISO 27001.
Conclusioni
Per concludere, quel che è importante sia trattenuto dei numerosi temi sollevati in questo articolo è un’introduzione all’informatica giuridica quale non più astratto concetto ma molto concreto nella quotidianità. In più, si vuole seminare un’esortazione a non considerare i discorsi inerenti alla certezza e alla sicurezza delle informazioni come esclusivo appannaggio degli esperti di informatica, in quanto sono molto più vicini al comune cittadino di quanto si possa pensare. Infatti, è bene sapere che più dell’80% della protezione delle informazioni dipende dalle abitudini quotidiane di ciascuno.
Informazioni
D. Mula, Lezioni di informatica giuridica e diritto dell’informatica, Università Europea di Roma Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza Informatica Giuridica a.a. 2016/2017
G. Sartor, L’informatica giuridica nella società dell’informazione in N. Palazzolo (a cura di), “L’informatica giuridica oggi. Atti del Convegno ANDIG 2005” Collana ITTIG-CNR, Serie “Studi e documenti”, n. 7, Napoli, ESI, 2007, pp. 35-50
[1] A questo proposito, ai più curiosi si suggerisce di approfondire la teoria della dottrina pure del diritto con cui Kelsen, giurista e filosofo austriaco tra i più importanti teorici del diritto del Novecento, riassunse la tecnica del diritto.
[2] A questo proposito si propone l’interessante lettura dell’articolo “Il Legal Design: la semplificazione del mondo legale” al seguente link: https://www.dirittoconsenso.it/2020/04/22/legal-design/
[3] A questo proposito si suggerisce la lettura dell’articolo “Ransomware: che cosa sono e come prevenirli” contenente anche qualche indicazione per non farsi trovare del tutto impreparati e disponibile al seguente link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/01/20/ransomware-che-cosa-sono-e-come-prevenirli/
[4] Riferimento fondamentale è la Direttiva europea 2016/1148 sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi cd. NIS(D) recepita nell’ordinamento italiano con il d. lgs. 65/2018. Tale normativa è stata successivamente rafforzata a livello nazionale dall’istituzione del cd. PSNC, ovvero Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica, tramite il d.l. 105/2019, poi convertito nella L. 133/2019 e arricchitosi nel tempo di una serie di provvedimenti attuativi.
Il pignoramento: in generale
Introduzione al pignoramento in risposta a domande come: quali beni sono pignorabili? Perché pignorano un mio bene? Come avviene il pignoramento?
Il pignoramento nell’esecuzione forzata
Per inquadrare subito il contesto nel quale ci si colloca, è bene dire che il pignoramento rappresenta la prima fase del procedimento esecutivo per espropriazione forzata[1], anche detto più brevemente di espropriazione e avente il compito di rendere effettiva la garanzia generica di responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.
In altre parole, poiché il Codice civile a tale articolo prescrive che il debitore risponda con tutti i suoi beni presenti e futuri per l’adempimento delle sue obbligazioni, nel momento in cui un creditore rimanga insoddisfatto, l’art. 2910 c.c. prevede che il medesimo possa realizzare il proprio diritto al pagamento di una somma di denaro facendo espropriare i beni del debitore. La procedura con cui ciò deve avvenire è proprio quella che prende il nome di procedimento esecutivo per espropriazione forzata, al cui principio si trova il pignoramento. A seguire vi sono le fasi di vendita forzata o liquidazione e poi di distribuzione del ricavato tra i creditori come riassunto nello schema che segue:
- Pignoramento – i beni vengono sottratti alla libera disponibilità del debitore per essere sottoposti al potere dell’ufficio esecutivo;
- Vendita forzata o liquidazione dell’attivo – i suddetti beni vengono trasformati in una somma di denaro;
- Distribuzione di quanto ricavato, ai creditori.
Gli atti preliminari
Prima che i beni del debitore possano essere pignorati, tuttavia, sono previste alcune formalità – più tecnicamente, atti prodromici – legate ai requisiti necessari perché si possa procedere con il pignoramento. Infatti, nessuna esecuzione forzata può iniziare in mancanza di un titolo esecutivo e cioè di un documento di provenienza giudiziale (es. sentenza di condanna o altro provvedimento giudiziario) o anche stragiudiziale (es. atto pubblico, scrittura privata autenticata, cambiali e assegni) che dimostri l’esistenza del diritto credito vantato dal creditore.
In particolare, quindi, la legge prescrive abbia luogo notifica al debitore del titolo in forma esecutiva e del cd. atto di precetto con cui il creditore scrive, a pena di nullità, quali sono le parti, qual è il titolo esecutivo sulla base del quale si vuole iniziare l’esecuzione forzata e la data di notifica del titolo esecutivo. Nella stessa sede di notifica devono avere luogo
- l’intimazione al debitore di adempiere nel termine di 10 giorni con l’avvertimento che, diversamente, procederà ad esecuzione forzata
- e l’invito a formulare dichiarazione di residenza o elezione di domicilio nel comune ove ha sede il giudice competente per l’esecuzione.
Non solo, vi sono dei limiti anche con riguardo al diritto riflesso nel titolo esecutivo dovendo questo essere, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.:
- liquido – se si tratta di una somma di denaro, questa deve essere determinata nel suo ammontare o determinabile con un semplice calcolo aritmetico di carattere oggettivo;
- esigibile – quando si inizia l’esecuzione forzata, il termine eventualmente apposto deve essere scaduto o la condizione sospensiva deve essersi verificata;
- certo – la certezza attiene all’esistenza del diritto incorporato dal titolo esecutivo.
Chiariti questi aspetti procedurali, si approfondisca il pignoramento come il vincolo di destinazione nel quale si sostanzia e che rende inefficaci gli atti di disposizione successivi. Lo scopo del pignoramento, infatti, è conservativo dei beni, in modo che non possano fuoriuscire dal patrimonio del debitore.
Il pignoramento e l’individuazione dei beni
Secondo l’art. 492 c.p.c. il pignoramento consiste nell’ingiunzione che l’ufficiale giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre, alla garanzia del credito in questione, i beni che si assoggettano all’espropriazione nonché i frutti dei medesimi. Dal punto di vista giuridico, come già si accennava, quindi, conseguenza è l’inefficacia degli atti compiuti dal debitore dopo il pignoramento e, talvolta, anche di alcuni compiuti prima come previsto dall’art. 2914 c.p.c. Ad esempio, nel caso di beni immobili e beni mobili registrati, sono inefficaci anche le vendite precedenti al pignoramento se trascritte nei pubblici registri dopo il pignoramento.
Ora, sono pignorabili tutti i beni alienabili e aventi valore commerciale, esclusi i beni assolutamente o relativamente impignorabili quali i beni che hanno per il debitore un certo valore religioso, quelli che garantiscono il sostentamento del debitore e delle persone della sua famiglia almeno per un mese (stipendio e pensione non sono pignorabili per l’intero) o, ancora, quelli che gli danno la possibilità di continuare a svolgere la propria attività lavorativa.
Con riguardo ai beni immobili una limitazione è legata al diritto reale di garanzia dell’ipoteca per cui se il creditore ha ipoteca su un determinato immobile non può espropriarne altri se prima non espropria anche l’immobile oggetto d’ipoteca.
Quanto esposto finora in questo articolo è sufficiente per capire che il rischio frequente nell’espropriazione riguarda proprio l’individuazione dei beni da pignorare. Per ovviare a questo problema, il legislatore ha dotato l’ordinamento italiano di due istituti volti a mostrare il patrimonio del debitore:
- invito a indicare ulteriori beni – quando sia stato chiesto un pignoramento e l’ufficiale giudiziario chiamato a compierlo riscontri di non trovare beni utilmente pignorabili o in misura non sufficiente, lo stesso ufficiale giudiziario deve invitare il debitore a dichiarare quali beni abbia e dove si trovino. Inoltre, se il debitore è un imprenditore commerciale, può essere chiamato un perito che ricostruisca il patrimonio attraverso le scritture contabili.
- ricerca con modalità telematiche – questa forma di conoscenza del patrimonio del debitore opera indipendentemente da un pignoramento intentato o eseguito inefficacemente poiché precede il pignoramento. Forte del titolo esecutivo, infatti, il creditore può chiedere all’ufficiale giudiziario che sarebbe competente per il pignoramento autorizzazione per procedere a interrogazione e indagine presso le banche dati pubbliche della Pubblica Amministrazione, degli enti previdenziali (INPS, INAIL) e dell’anagrafe tributaria (anche se non direttamente presso le banche e gli istituti di credito).
Evitare o limitare il pignoramento
In conclusione, per dare contezza non solo dell’istituto del pignoramento ma anche di alcuni rimedi esistenti verso il medesimo dal lato del debitore, si illustrano di seguito tre figure volte ad evitare o a limitare i danni del pignoramento.
- Pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario
Ai sensi dell’art. 494 c.p.c., se in seguito al precetto il debitore non ha ancora pagato, può utilmente farlo all’ufficiale giudiziario. Inoltre, il debitore che paghi nelle mani dell’ufficiale giudiziario può affermare una riserva di ripetizione per cui si riserva di esercitare un’azione che accerti che nulla è dovuto e riceve la somma indietro.
- Pignoramento di una somma di denaro
Al cospetto dell’ufficiale giudiziario, inoltre, il debitore può chiedere di pignorare una somma di denaro (riportata nel precetto aumentata di 2/10) al posto di un determinato bene. Così facendo, il pignoramento non viene evitato – avviene e l’esecuzione prosegue – ma non sarà necessaria la vendita avendo già a disposizione il denaro per la distribuzione ai creditori.
- Conversione del pignoramento
A pignoramento avvenuto e fino all’udienza fissata per la disposizione delle operazioni di vendita, ai sensi dell’art. 495 c.p.c., il debitore può chiedere al giudice dell’esecuzione di sostituire la cosa pignorata con una somma di denaro. La sostituzione deve avvenire depositando subito 1/5, con la possibilità di rateizzare la rimanenza fino ad un massimo di 36 mensilità. Solo con il versamento integrale della somma i beni pignorati sono liberati dall’espropriazione e, qualora il debitore cessasse di pagare le rate, decadrebbe dal beneficio della conversione e il bene inizialmente pignorato rimarrebbe pignorato definitivamente; le somme pagate non gli verrebbero restituite andando ad entrare nella massa delle cose pignorate di cui fa parte anche il bene pignorato.
Informazioni
F. Tedioli, Il pignoramento in generale, Studium Iuris, 2006, fasc. 9, pp. 1037-1048
S. Izzo, Pignoramento in generale, Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile Aggiornamento, pp. 912-938
G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile II: Vol. 3, parte seconda: l’esecuzione forzata, Cacucci Editore, 2019, pp. 93 ss.
[1] A proposito di esecuzione forzata, si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2022/01/12/espropriazione-forzata-e-processo-esecutivo/
L'appalto pubblico: aspetti generali
Introduzione all’appalto pubblico: inquadramento dello strumento giuridico e approfondimento sul bando di gara
Introduzione all’appalto pubblico
Quando una Pubblica Amministrazione (PA) ha necessità quali
- l’esecuzione di lavori – ad esempio la manutenzione in un ospedale
- la fornitura di prodotti – ad esempio l’approvvigionamento di computer per una scuola
- o la prestazione di servizi – ad esempio i servizi funebri per un comune
deve indire una gara di appalto che altro non è che una particolare procedura amministrativa avente lo scopo di individuare chi incaricare dello svolgimento dell’attività di cui ha bisogno.
La procedura prevede, innanzitutto, la pubblicazione di un bando di gara da parte della stazione appaltante, e cioè della PA in questione. Seguirà la presentazione delle offerte da parte dei potenziali appaltatori e l’aggiudicazione all’appaltatore che rispetti, meglio di tutti, i criteri prestabiliti nel bando di gara. A quel punto viene stipulato il contratto di appalto e si potrà dare seguito all’esecuzione del medesimo.
Occorre precisare che, quando si sente parlare di appalto, nella maggior parte dei casi ci si colloca nell’ambito pubblico; tuttavia, è bene sapere che non necessariamente è così, essendo previsto dall’ordinamento prima e più genericamente l’appalto per così dire “privato” o “civile”. Infatti, in quest’ultima accezione, il contratto di appalto non prevede nessuna gara e può essere stipulato direttamente, secondo la disciplina del Codice civile[1], in particolare agli artt. 1655 e ss. Diversamente, l’appalto pubblico è uno strumento giuridico più sofisticato la cui disciplina è di derivazione comunitaria ed è recepita attualmente dal cd. Codice di contratti pubblici o, meglio, d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016 come modificato dal decreto n. 76 del 16 luglio 2020 recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale.”.
In questi termini, l’appalto pubblico è un particolare tipo di contratto di appalto che unisce, ai principi sanciti dal Codice civile, i principi che devono essere rispettati nell’operato amministrativo quali quelli di trasparenza[2], buon andamento, di imparzialità, di ragionevolezza, di proporzionalità. In questo modo sarà consentito il perseguimento dell’interesse pubblico sottostante alla necessità della PA, pur tutelando le aspettative dei privati.
Gli attori dell’appalto pubblico
Si chiarisca meglio, allora, quali sono gli attori in questa procedura.
- Da un lato c’è la pubblica amministrazione presso la quale sorge una delle necessità suddette (lavori, fornitura o servizi). È la cd. stazione appaltante e delle stazioni appaltanti qualificate esiste un apposito elenco presso l’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione). Esempio di stazioni appaltanti sono gli enti pubblici come le Autorità locali, gli Organismi di diritto pubblico ma anche aziende che operano in settori speciali (aziende ospedaliere tra tutte).
- Dall’altro lato c’è l’appaltatore, ovvero l’operatore economico che si candida ad assumere l’obbligazione di compiere un’opera o un servizio per l’appaltante con organizzazione dei mezzi propri e con gestione a proprio rischio verso un compenso in denaro. L’appaltatore può essere sia una piccola impresa, sia un raggruppamento temporaneo di imprese meglio noto come RTI che contente di unirsi nella raccolta dei requisiti di partecipazione e nella presentazione dell’offerta.
Le procedure di appalto
La platea di candidati appaltatori può essere circoscritta a seconda della procedura d’appalto scelta dalla stazione appaltante; ai sensi dell’art. 59 Codice dei contratti pubblici, nell’aggiudicazione di appalti pubblici, infatti, le stazioni appaltanti possono utilizzare le seguenti procedure:
- procedure aperte o ristrette – nel primo caso qualsiasi operatore economico dotato dei requisiti di partecipazione può presentare un’offerta in risposta al bando di gara mentre nel secondo caso solo gli operatori economici che ricevono invito possono presentare un’offerta in risposta ad un avviso di indizione di gara;
- partenariato per l’innovazione – nelle ipotesi in cui l’esigenza di sviluppare prodotti, servizi o lavori innovativi e di acquistare successivamente le forniture, i servizi o i lavori che ne risultano non possa essere soddisfatta ricorrendo a soluzioni già disponibili sul mercato;
- procedura competitiva con negoziazione – funziona come una procedura ristretta ma l’offerta vincente fungerà da base per la successiva negoziazione;
- dialogo competitivo – le stazioni appaltanti avviano con i partecipanti selezionati un dialogo finalizzato all’individuazione e alla definizione dei mezzi più idonei a soddisfare le proprie necessità, discutendo con i partecipanti selezionati di tutti gli aspetti dell’appalto;
- procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara – quando non sia stata presentata alcuna offerta o alcuna offerta appropriata, né alcuna domanda di partecipazione o alcuna domanda di partecipazione appropriata in esito all’esperimento di una procedura aperta o ristretta, quando i lavori, le forniture o i servizi possono essere forniti unicamente da un determinato operatore economico o in ragione di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice, come meglio previsto dall’art. 63.
Il bando di gara
Salvo qualche eccezione, ogni procedura di selezione è indetta mediante un bando di gara. Si tratta dell’atto amministrativo che – insieme agli altri documenti predisposti dalla stazione appaltante quali disciplinare, capitolato ed eventuali allegati – disciplina l’intero procedimento della gara di appalto ed è predisposto basandosi su modelli, detti anche bandi tipo, approvati dall’ANAC.
Il contenuto del bando di gara è dettagliato nell’allegato XIV, Parte I, lettera C Codice dei contratti pubblici in un ricco elenco di 30 voci. Così, tra gli elementi essenziali che non possono mancare in un bando di gara, oltre a tutte le informazioni relative all’opera richiesta e alla stazione appaltante, nonché le principali condizioni del contratto da concludersi, si trovano i requisiti di partecipazione e i criteri di aggiudicazione sui quali ci si soffermerà nel prosieguo.
Innanzitutto, i requisiti di partecipazione si dividono in:
- requisiti di ordine generale – concernono l’affidabilità morale e professionale del concorrente e sono previsti dal Codice dei contratti pubblici; la loro mancanza è causa di esclusione dalla gara, a prescindere dal loro richiamo nel bando di gara.
- requisiti di ordine speciale – concernono l’esperienza e la capacità professionale del concorrente a svolgere l’appalto sul piano sia economico che tecnico e, a discrezione della stazione appaltante, sono necessari solo se inseriti nel bando e nel limite della pertinenza alle caratteristiche dell’appalto.
Come si accennava con riguardo agli attori in causa, i requisiti possono essere rispettati mettendo in comune aspetti economici e tecnici costituendo RTI o servendosi dell’avvalimento.
In tutti i bandi di gara sono presenti, inoltre, i criteri di aggiudicazione la cui determinazione ha lo scopo di garantire la concorrenza effettiva tra operatori economici. Di seguito i criteri di aggiudicazione previsti dal Codice dei contratti pubblici:
- Criterio di aggiudicazione del minor prezzo – La stazione appaltante confronta le offerte con riguardo al maggior ribasso di prezzo rispetto alla base d’asta. Trattandosi di criterio in deroga a quello generalmente previsto dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le stazioni appaltanti che dispongono l’aggiudicazione mediante il criterio del minor prezzo devono darne adeguata motivazione e comunque nei soli casi di servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni siano definite dal mercato.
- Criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa – Questo è il criterio prescritto dal Codice dei contratti pubblici nella maggior parte dei casi e si declina in due alternative:
- costo efficacia – la stazione appaltante confronta prezzi e costi delle offerte con riguardo al miglior rapporto costo/efficacia in relazione al ciclo di vita del prodotto, servizio o lavoro
- qualità prezzo – la stazione appaltante attribuisce punteggi prestabiliti per la qualità e per il prezzo dei lavori, servizi o forniture per un punteggio massimo complessivo di 100.
Secondo il criterio di aggiudicazione prescritto dalla legge e/o indicato nel bando di gara, quindi, sarà individuato il candidato aggiudicatario dell’appalto.
Conclusioni
Per concludere sembra utile riassumere brevemente della collocazione, nel contesto dell’appalto pubblico, del bando di gara quale atto amministrativo disciplinante la procedura di selezione dell’operatore economico cui affidare l’appalto: il bando di gara si colloca tra l’insorgere dell’esigenza della PA di una fornitura, della prestazione di un servizio o della realizzazione di un’opera e l’aggiudicazione dell’appalto con conseguente conclusione ed esecuzione del contratto. Da qui il legame indissolubile tra il bando di gara e l’appalto pubblico, qui approfonditi.
Informazioni
F. G. Scoca, Diritto amministrativo, Giappichelli editore, 2015
Come funziona una gara d’appalto: Definizione, Normativa, procedura, bando, requisiti, https://www.pedago.it/blog/gara-appalto-come-funziona.htm
Criteri di aggiudicazione, https://contrattipubblici.org/glossario/criterio-di-aggiudicazione
[1] Di seguito due articoli inerenti proprio il contratto di appalto privato: http://www.dirittoconsenso.it/2019/06/18/responsabilita-mista-appalto-art-1669-cc/ , http://www.dirittoconsenso.it/2019/06/21/responsabilita-contrattuale-appalto-art-1667-cc/
[2] Per un approfondimento sul principio di trasparenza, si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/05/principio-della-trasparenza/
Introduzione al contratto di locazione
Trattazione del contratto di locazione nell’ambito del diritto privato a partire dalla disciplina codicistica di cui agli artt. 1571 e ss. c.c.
Inquadramento del contratto di locazione
Quando si prende in “affitto” un appartamento quello che si conclude con il proprietario è un contratto di locazione, in particolare locazione di immobile ad uso abitativo. Tuttavia, quello ad uso abitativo e di immobile non è l’unico contratto di locazione possibile; basti pensare alla locazione sempre di immobile ma ad uso commerciale. O, ancora, si pensi alla locazione di un bene diverso da un appartamento o da una villetta potendosi locare anche beni mobili (ad esempio, un macchinario industriale o un’automobile).
Per cominciare, allora, si abbandoni subito l’uso improprio della parola “affitto” che, sebbene molto diffuso nel parlare comune, farebbe riferimento ad un contratto diverso quale un particolare contratto di locazione avente ad oggetto un bene mobile o immobile caratterizzato da produttività[1].
Quello di cui si vuole qui approfondire, invece, è il contratto di locazione disciplinato dall’art. 1571 e ss. c.c. e con cui il locatore si obbliga a far godere al conduttore o locatario una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo.
Gli elementi del contratto di locazione
Il contenuto dei contratti di locazione varia a seconda del bene oggetto del contratto. Ad esempio, la legislazione speciale prevede una disciplina particolare per la locazione di case di abitazione e di immobili urbani adibiti ad uso diverso dall’abitazione e, in queste ipotesi, la disciplina del codice è destinata ad avere un’applicazione residuale e marginale. In ogni caso, vi sono alcuni elementi sempre fondamentali.
Innanzitutto, è indispensabile vi sia indicazione dettagliata delle generalità delle parti, quindi dei soggetti che stipulano il contratto. Anche il bene del cui godimento si dispone deve essere identificato in maniera dettagliata. Occorre sia chiara la data di stipula del contratto che generalmente corrisponde al momento a partire dal quale ha inizio la locazione. Non possono mancare, poi, la durata della locazione, il prezzo del canone e la relativa modalità di corresponsione.
Il canone, quale corrispettivo in denaro dovuto dal conduttore, fa del contratto di locazione un contratto a titolo oneroso e lo distingue dal contratto di comodato d’uso gratuito. Non solo, nel caso del contratto di locazione, il denaro è versato al solo titolo di canone e ciò distingue tale contratto da quello di rent to buy, nel quale il denaro viene versato – oltre che a titolo di canone di locazione – anche come anticipo sul prezzo finale di vendita concordato[2].
Circa la durata si aggiunga che il Codice civile prescrive non possa superare i trent’anni ma non individua una durata minima, rimettendo la pattuizione alle parti. Tuttavia, come si accennava, la legislazione speciale può prevedere diversamente e così accade ai sensi della L. 431/1998 sia con riguardo alla durata, sia con riguardo alla forma. Infatti, il Codice civile lascia libera la forma ma legislazione speciale deroga a tali prescrizioni e richiede, per il caso di contratto di locazione di immobile ad uso abitativo, la forma scritta a pena di nullità del contratto.
Infine, è bene sapere che il contratto di locazione è un contratto consensuale e ad effetti obbligatori:
- per il fatto di essere consensuale si ritiene raggiunto l’accordo e concluso il contratto a seguito dell’espresso consenso delle parti senza che sia necessaria la consegna del bene;
- per il fatto di essere ad effetti obbligatori si intende che non ha luogo alcun trasferimento di diritto reale e in capo alle parti sorgono le obbligazioni di cui segue.
Le obbligazioni del locatore
Prima fra tutte le obbligazioni a carico del locatore è quella consistente nell’obbligo di consegnare al conduttore la cosa locata e di consegnarla in buono stato di manutenzione, oltreché di mantenerla in stato da servire all’uso convenuto. A prescriverlo, è l’art. 1575 c.c.; più specificamente, dagli articoli seguenti del Codice civile discendono anche l’obbligo del locatore di consegnare la cosa senza vizi e di compiere tutte le riparazioni necessarie, fatte salve quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore. Il locatore, dunque, dovrà sostenere tutte le spese di carattere straordinario. In secondo luogo, sul locatore grava il divieto di compiere sulla cosa innovazioni che diminuiscano il godimento e l’obbligo di assicurare al conduttore il pacifico godimento della cosa durante la locazione astenendosi anche dal porre in essere turbative nei suoi confronti.
Si proceda con ordine per alcune necessarie precisazioni inerenti alle responsabilità del locatore in conseguenza delle obbligazioni a suo carico.
Nel concludere il contratto, locatore e conduttore convengono circa la destinazione e l’uso del bene locato. È responsabilità del locatore la regolarità del bene come, ad esempio nel caso dell’immobile, l’abitabilità o la regolarità edilizia ed urbanistica. In questi termini, l’eventuale impossibilità di destinare il bene all’uso pattuito potrebbe portare legittimamente il conduttore a richiedere lo scioglimento del contratto; si pensi alla situazione in cui, appunto, nel caso di un bene immobile ad uso abitativo sia privo dell’abitabilità.
Parimenti responsabile è il locatore dei vizi e dei difetti del bene locato, nonché dei danni che derivino da questi e della ridotta utilità del bene, salvo riesca a dimostrare di averli senza colpa né dolo ignorati al momento della consegna. Il conduttore potrà legittimamente domandare da una mera riduzione del canone fino alla risoluzione del contratto, passando per l’eventuale risarcimento del danno.
Prima di proseguire, sembra utile riassumere schematicamente le obbligazioni del locatario come segue:
- obbligo di consegna del bene e in buono stato;
- obbligo di mantenere il bene in condizioni tali da servire all’uso convenuto nel contratto;
- obbligo di garantire il pacifico godimento del bene.
Le obbligazioni del conduttore
Obbligazione per eccellenza del locatario o conduttore è quella di versare il canone secondo quanto convenuto. Tuttavia, questo non è l’unico obbligo facente capo al conduttore.
In sostanziale relazione corrispettiva con le obbligazioni principali del locatore, l’art. 1587 c.c. stabilisce che il conduttore è tenuto a prendere in consegna dal locatore il bene locato, a servirsene nei limiti di quanto convenuto e osservando la diligenza del buon padre di famiglia. Si tratta, per il vero, di ribadire quello che nel Codice civile è il principio generale sull’adempimento e che, nel caso della locazione, opera per tutta la durata del contratto; infatti, il locatore può esigerne l’osservanza in ogni momento. Ad esempio, in conseguenza al mancato versamento per due mensilità o alla mutazione della destinazione d’uso contraria a quanto pattuito, configurandosi inadempimento, il locatore potrebbe dar luogo ad un procedimento in sede civile.
Terminato il periodo della locazione, il conduttore ha l’obbligo di restituire il bene nello stato in cui l’ha ricevuto. Se vi ha apportato miglioramenti oltre alle riparazioni di manutenzione ordinaria, nulla gli è dovuto a meno che il locatore non abbia preliminarmente acconsentito concordando un rimborso.
Sembra utile riassumere schematicamente anche le obbligazioni del conduttore come segue:
- obbligo di prendere in consegna il bene;
- obbligo di pagare il canone;
- obbligo di servirsi del bene nei limiti dell’uso convenuto e con la diligenza del buon padre di famiglia;
- obbligo di restituire il bene al termine della locazione nello stato in cui l’ha ricevuto.
Informazioni
M. Signorelli, Contratto di locazione e giurisprudenza: Obbligazioni, prestazioni e responsabilità in Responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2015, p. 410-450
B. Bellato, Il contratto di locazione: una guida rapida, https://www.consulenzalegaleitalia.it/locazione/
M. Ferrari, Locazioni: la guida completa alle regole generali, https://www.altalex.com/documents/news/2019/09/12/locazioni-guida-completa-regole-generali , 12/09/2019
[1] Il riferimento normativo è l’art. 1615 c.c.
[2] Per un approfondimento sul tema, si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: Il rent to buy nell’ordinamento italiano – DirittoConsenso
Il risarcimento del danno tanatologico
Gli eredi hanno diritto al risarcimento del danno tanatologico, quindi per la perdita della vita, con sofferenza, a causa dell’illecito altrui?
Cosa si intende per danno tanatologico
Il danno tanatologico è il danno conseguente alla sofferenza patita dal defunto prima di morire a causa delle lesioni fisiche derivanti da un’azione illecita compiuta da terzi. Con le parole delle Sezioni Unite della Cassazione, è il “danno da violazione del diritto alla vita fatto valere (…) dagli eredi della vittima primaria dell’illecito”[1]. Questa è la definizione per così dire tecnica per comprendere la quale è utile passare, a contrario, attraverso quelle ulteriori nozioni di danno legate al momento della morte che più pacificamente appartengono all’ordinamento e che occorre tenere distinte dal danno tanatologico.
Il riferimento è alle categorie del danno biologico terminale[2] e del danno morale, detto anche danno catastrofale o da lucida agonia. Il primo è risarcibile quando, a seguito delle lesioni dell’integrità fisica con esito letale, il decesso sia sopraggiunto dopo un apprezzabile lasso di tempo, potendosi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso che sia anche medicalmente accertabile. In altri termini, il danno biologico terminale è quello seguente alla lesione del bene salute come danno conseguenza consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato, nella fase tra la lesione e la morte. Il secondo, il danno morale, è rappresentato dalla sofferenza patita dalla vittima che, rimasta lucida all’esito della lesione, abbia vissuto l’angosciosa e consapevole attesa della propria fine imminente ed ineluttabile.
Queste due categorie di danno hanno in comune con il danno tanatologico il fatto di essere frutto di costruzioni giurisprudenziali ma le prime sono riconosciute come risarcibili su richiesta degli eredi della vittima deceduta ad opera del fatto illecito altrui, a differenza del qui esaminato danno tanatologico il cui risarcimento è molto discusso sia in giurisprudenza che in dottrina.
La giurisprudenza e le origini
In assenza di previsioni normative, il danno tanatologico nasce da una costruzione giurisprudenziale come accade sempre più spesso con particolare riguardo ai diritti della personalità[3].
L’interesse per la questione è remoto: risale al 1925, quando la giurisprudenza di legittimità ha inaugurato quello che si è poi consolidato come orientamento maggioritario. Da questo primo approccio di categorico diniego del risarcimento del danno da lesione del diritto alla vita di per sè, gradualmente la giurisprudenza si è aperta al risarcimento agli eredi dapprima – negli anni 90 – con riguardo al danno biologico terminale e poi – a partire dal 2008 – con riguardo al danno morale. Ciononostante, il risarcimento del danno tanatologico è stato negato per circa novanta anni prima di trovare riconoscimento e accoglimento, sebbene non ancora definitivi, in giurisprudenza.
Si vedano brevemente nel prosieguo i due orientamenti opposti in giurisprudenza non trascurando di rilevare i seppur non risolutivi interventi delle Sezioni Unite della Cassazione.
L’orientamento maggioritario
Dal 1925 la giurisprudenza ha sempre negato il risarcimento del danno tanatologico adducendo, di volta in volta a sostegno della sua tesi, uno o più argomenti. Primo fra tutti è l’argomento della mancanza di capacità giuridica per il quale si ritiene il diritto al risarcimento del danno c.d. tanatologico sia adespota, privo cioè di legittimo titolare, perché il momento in cui si concretizza il pregiudizio è anche quello in cui l’unico legittimo titolare viene a mancare[4].
In altri termini, si ritiene la mancanza di capacità giuridica osti all’acquisizione di un diritto risarcitorio e alla conseguente trasmissione in eredità. Alcuni autori, a questa tesi oppongono l’obiezione per cui è già presente nell’ordinamento un’altra ipotesi in cui la morte di una persona fa acquistare agli eredi diritti di credito aventi fonte nel decesso: è il caso delle indennità dovute dal datore di lavoro al lavoratore per la cessazione del rapporto lavorativo senza preavviso.
Ulteriore argomento è quello per cui si ritiene impossibile che il danno da morte sia eccezionalmente risarcibile di per sè come danno evento in quanto ciò introdurrebbe un’eccezione di portata così ampia da scardinare l’intero sistema della responsabilità civile basato sul danno conseguenza ex art. 2043 c.c. A questo proposito occorre qualche precisazione, utile a dar luce anche a espressioni utilizzate più su: ai sensi dell’art. 2043 c.c. nell’ordinamento risarcibile è non già la lesione in sé di un interesse giuridicamente tutelato (danno evento), quanto piuttosto solo il pregiudizio concretamente sofferto dalla vittima in conseguenza di detta lesione (danno conseguenza).
Questi sono i principali gli argomenti anche delle Sezioni Unite della Cassazione civile del 2015 chiamate a decidere sul contrasto giurisprudenziale sorto a seguito della coraggiosa sentenza cd. Scarano di cui tra breve.
L’orientamento minoritario
L’orientamento minoritario trova condivisione in alcune sentenze di merito e soprattutto in dottrina.
Rappresentativa dell’orientamento minoritario, quindi favorevole al risarcimento del danno tanatologico, è la poc’anzi menzionata sentenza Scarano. Prendendo le distanze dalle argomentazioni sopra riportate, tale pronuncia fonda la propria tesi sulla questione dell’identità ontologica della vita e della salute, quindi della coincidenza dell’integrità e dell’incolumità della persona. In questo senso la compromissione totale dell’integrità psico-fisica fa sorgere il diritto di credito al risarcimento e ciò senza che rilevi il fattore temporale rispetto al sopraggiungere della morte ai fini della trasmissibilità di detto credito.
Ora, in tale occasione la Corte di Cassazione per la prima volta ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da morte della vittima trasmissibile agli eredi, ai quali spetterà la liquidazione dei danni.
Tuttavia, lo spirito che si vuole qui celebrare è stato annebbiato dalla su menzionata sentenza delle S.U. del 2015 per poi trovare epifania nel 2018 quando la sentenza della Cassazione n. 26727/2018 ha riconosciuto il risarcimento del danno tanatologico, sia sotto il profilo biologico, che psicologico-morale, agli eredi della vittima sopravvissuta per “brevissimo tempo”.
Conclusioni
Per concludere è bene rendere esplicita e nota la necessità, ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno tanatologico, di qualificare il diritto alla vita come un vero e proprio diritto soggettivo (al pari del diritto di proprietà) facente parte del patrimonio del danneggiato e la cui lesione legittima il risarcimento e la sua trasmissione agli eredi. Solo così non avrà importanza che sia decorso “un brevissimo tempo” o che la fine sia stata meno celere.
Informazioni
M. Intagliata, “Danno tanatologico: il dibattito sulla risarcibilità del danno da perdita della vita” in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. IX – N. 3 – Settembre-Dicembre 2015, p. 27
R. Mugavero, “Le Sezioni Unite sul danno tanatologico: “molto rumore per nulla”.” in Riv. Cammino Diritto, Fasc. 08/2015
M.E. Bagnato, “Danno tanatologico va riconosciuto se vittima era lucida prima di morire”, Cassazione civile, sez. III, sentenza 23/10/2018 n° 26727
1 Cass. Civ., S.U., 11/11/2008 n. 26972
2 N.B.: da non sovrapporre con il mero danno biologico non necessariamente legato ad eventi di morte quanto piuttosto, nell’ambito della responsabilità medica, a situazioni nelle quali il danno sia immediatamente riconducibile alla prestazione sanitaria. Sul tema si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2019/03/19/la-responsabilita-medica/
3 Si pensi al discusso diritto di morire dignitosamente e alla correlata questione del cd. Testamento biologico. Per un approfondimento sul tema si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/16/vita-e-consenso-excursus-l-219-2017/
4 “Il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall’altra non è in grado di acquistarne” (Cass. Civ, Sez. III, del 23/2/2014 n° 3549)
Pseudonimizzazione e anonimizzazione dei dati
Tecniche, ambiti e rischi applicativi relativi a pseudonimizzazione e anonimizzazione dei dati personali attraverso la lente del GDPR
Introduzione a pseudonimizzazione e anonimizzazione
Come ogni buon giurista farebbe, si prendano le mosse da qualche riferimento normativo che sia d’aiuto nell’inquadrare il tema della pseudonimizzazione e dell’anonimizzazione quali tecniche utili nell’ambito della tutela dei dati personali in linea con quanto previsto dal GDPR. E si parta proprio da qui: ormai anche ai non esperti sarà giunto almeno una volta all’orecchio il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati[1]. Succede, banalmente, all’inizio di ogni chiamata telefonica verso un qualche ente pubblico e, talvolta, tale regolamento è indicato con il suo titolo per esteso appena menzionato, talaltra con l’acronimo inglese GDPR; ancora, si fa riferimento al medesimo quando si trova indicazione degli estremi di entrata in vigore nell’Unione Europea – 679/2016 – o di ratifica – d.lgs. 101/2018 –, rispettivamente indicanti l’adozione del regolamento europeo e il decreto legislativo che l’ha reso operativo in Italia.
Detto questo, è bene tenere a mente i principi cardine di questo corpo normativo in quanto moventi anche delle tecniche di pseudonimizzazione e anonimizzazione che ci apprestiamo a vedere:
- liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, nei confronti dell’interessato[2];
- limitazione della finalità del trattamento;
- minimizzazione dei dati nei termini in cui i dati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario alle finalità del trattamento;
- esattezza e aggiornamento dei dati, compresa la tempestiva cancellazione dei dati che risultino inesatti rispetto alle finalità del trattamento;
- limitazione della conservazione poiché è necessario provvedere alla conservazione dei dati per un tempo non superiore a quello necessario rispetto agli scopi per i quali è stato effettuato il trattamento;
- integrità e riservatezza dal momento che occorre garantire la sicurezza adeguata dei dati personali oggetto del trattamento.
Riferimenti normativi e questioni applicative
Quelli appena esposti, quindi, sono i principi ai quali si ispirano pseudonimizzazione e anonimizzazione come emerge, ancor prima che dal regolamento europeo, dai considerando che lo precedono. In particolare, sembra molto utile leggere il considerando 26 che fornisce una prima guida di applicazione del GDPR rispetto alle due tecniche in esame.
“È auspicabile applicare i principi di protezione dei dati a tutte le informazioni relative a una persona fisica identificata o identificabile. I dati personali sottoposti a pseudonimizzazione, i quali potrebbero essere attribuiti a una persona fisica mediante l’utilizzo di ulteriori informazioni, dovrebbero essere considerati informazioni su una persona fisica identificabile. Per stabilire l’identificabilità di una persona è opportuno considerare tutti i mezzi, come l’individuazione, di cui il titolare del trattamento o un terzo può ragionevolmente avvalersi per identificare detta persona fisica direttamente o indirettamente. Per accertare la ragionevole probabilità di utilizzo dei mezzi per identificare la persona fisica, si dovrebbe prendere in considerazione l’insieme dei fattori obiettivi, tra cui i costi e il tempo necessario per l’identificazione, tenendo conto sia delle tecnologie disponibili al momento del trattamento, sia degli sviluppi tecnologici. I principi di protezione dei dati non dovrebbero pertanto applicarsi a informazioni anonime, vale a dire informazioni che non si riferiscono a una persona fisica identificata o identificabile o a dati personali resi sufficientemente anonimi da impedire o da non consentire più l’identificazione dell’interessato. Il presente regolamento non si applica pertanto al trattamento di tali informazioni anonime, anche per finalità statistiche o di ricerca.”
Una prima nota può essere circa l’ambito di applicazione del GDPR: il regolamento generale sulla protezione dei dati si applica ai dati pseudonimizzati ma non a quelli adeguatamente anonimizzati poiché i primi non perdono la qualità di dati personali come, invece, accade per i secondi.
In altre parole, per il momento trascurando i passaggi dei quali si costituiscono le tecniche, si evidenzia come l’applicazione del GDPR dipenda dalla possibilità di identificare la persona da cui quell’informazione è provenuta. Nel caso di dati pseudonimizzati è possibile, anche se difficile e attraverso informazioni aggiuntive conservate separatamente, ripercorrere il processo all’indietro e tornare alla persona interessata. Da qui l’applicazione del GDPR. Nel caso di dati anonimizzati, in linea di massima il processo non è reversibile e non è possibile tornare alla persona interessata; da qui la non applicazione del GDPR.
A ben pensarci, questo spiega anche il fatto che, eccetto per il considerando 26 visto pocanzi, nella norma in esame non si trovi riferimento all’anonimizzazione mentre la pseudonimizzazione trova definizione all’art. 4, par. 5 GDPR.
Le tecniche: pseudonimizzazione
Chiariti gli ambiti applicativi, è giunto il momento di rispondere alla domanda che a questo punto sorge spontanea: in cosa consistono le tecniche di pseudonimizzazione e anonimizzazione?
La pseudonimizzazione, ai sensi dell’art. 4, par. 5 GDPR, consiste nel “trattamento dei dati personali in modo tale che i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile“.
Si tratta di un’operazione reversibile ma solo con l’ausilio di informazioni aggiuntive che consentono di risalire all’identità dell’interessato e che, per questo, vanno tenute
- separate dai dati pseudonimizzati. Se un malintenzionato ne venisse in possesso, infatti, potrebbe rintracciare la persona interessata legata al dato pseudonimizzato. In questo senso è opportuno
- attuare azioni preventive, quali l’aggiornamento e il monitoraggio periodici, più genericamente misure e tecniche organizzative previste dall’art. 32, I comma a) GDPR. Così sarà mitigato il rischio di danni di natura discriminatoria, finanziaria o all’integrità fisica degli interessati.
Le tecniche di pseudonimizzazione sono molteplici. A titolo esemplificativo si prenda l’hashing consistente nella codificazione dell’input in una stringa binaria di dimensioni fisse attraverso algoritmi progettati in modo unico e funzionanti come generatori casuali di codici. Le peculiarità di questa tecnica sono quella di essere unidirezionale essendo molto difficile, se non impossibile, decifrare la stringa e quella di amplificare le distanze tra input simili.
Ambito applicativo tipico della pseudonimizzazione è un ambiente nel quale sia presente una scala di privilegi come nel caso del medico e dell’operatore diverso dal medico: per l’operatore non è indispensabile conoscere nome e cognome del paziente e, anzi, la pseudonimizzazione tutelerà la privacy del paziente.
Le tecniche: anonimizzazione
L’anonimizzazione è una tecnica che viene applicata ai dati personali in modo tale che le persone fisiche interessate non possano più essere identificate in nessun modo; elimina la correlazione tra i dati personali e una determinata persona fisica interessata, rendendo impossibile l’identificazione della stessa. Tra le più comuni si trova la randomizzazione che può prevedere l’aggiunta di rumore statistico[3] o la permutazione[4]. Diffusa è anche la generalizzazione che, con tecniche di aggregazione e k-anonimato impedisce l’individuazione di persone interessate mediante il loro raggruppamento con almeno k altre persone.
Queste sono solo alcune tecniche; in ogni caso, per il raggiungimento dell’obiettivo deidentificazione dei dati, il Comitato Europeo per la Protezione dei dati (o EDPB dall’acronimo inglese) suggerisce che più tecniche siano combinate tra loro.
Infine, una precisazione: nel caso dell’anonimizzazione, l’operazione è irreversibile ma la decodifica dei dati resi anonimi non sembra del tutto impossibile. In questi termini, sarebbe falso attestare un rischio zero assoluto. Infatti, è possibile che alcuni processi di anonimizzazione possano essere annullati in futuro dallo sviluppo di nuove tecnologie. Basti pensare a foto nelle quali siano stati immortalati dei soggetti in lontananza che in un determinato momento storico non erano riconoscibili ma che lo siano diventati grazie a software capaci di migliorare la qualità dell’immagine.
Conclusione
Pseudonimizzazione e anonimizzazione dei dati, in conclusione, si dimostrano molto simili e differenti allo stesso tempo. Viste le peculiarità tecniche e applicative delle due metodologie, si può dire che le stesse abbiano in comune l’obiettivo di sfumare il percorso che lega il dato personale alla persona interessata, in entrambi i casi per ridurre al minimo il rischio di reidentificazione laddove non sia possibile garantire che i soggetti non possano essere reidentificati. Le stesse si distinguono, invece, in termini di reversibilità e conseguenze. In particolare, nel caso della pseudonimizzazione, si è visto come i dati non perdano la qualità di dati personali e, pertanto, rimangano soggetti alla disciplina del GDPR; diversamente, si è visto come nel caso dell’anonimizzazione i dati non siano più considerati dati personali e l’applicazione del GDPR non sia obbligatoria.
Informazioni
E. Limone, Pseudonimizzazione e anonimizzazione dei dati: differenze tecniche e applicative, 17/10/2019
M. Massimini, Anonimizzazione dei dati personali: significato, benefici e dubbi in ottica GDPR, 11/05/2021
Garante per la protezione dei dati personali, Principi generali del trattamento di dati personali, https://www.garanteprivacy.it/home/doveri
[1] Per una breve ma chiara introduzione al GDPR, si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/11/26/il-gdpr/
[2] Per una rapida ed efficace serie di definizioni di base sul tema, si consiglia la lettura dell’articolo reperibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
[3] Modificando gli attributi in modo tale da renderli meno accurati pur mantenendo allo stesso tempo la distribuzione generale
[4] Mescolando i valori degli attributi così che alcuni di essi risultino artificialmente collegati a diverse persone interessate
Il danno da nascita indesiderata
Introduzione al danno da nascita indesiderata quale violazione dei diritti della gestante rispetto alla salute psicofisica propria e del suo futuro bambino
Il contesto giuridico del danno da nascita indesiderata
Nell’inquadrare il contesto del risarcimento del danno da nascita indesiderata, occorre partire dal principio dicendo che secondo il codice civile all’articolo 1 è il momento della nascita rappresenta l’evento a partire dal quale riconosce il neonato come persona fisica dotata di capacità giuridica[1]. Prima di quel momento, il concepito non ha capacità giuridica ma l’ordinamento gli riconosce una soggettività giuridica limitata, come ad esempio in caso di successione ereditaria, e comunque subordinata alla nascita.
Queste nozioni sono fondamentali alla premessa per cui si distingue il concepito o nascituro, solo potenzialmente soggetto di diritto, dal neonato quale soggetto di diritto dotato di capacità giuridica. In questo senso, a titolo esemplificativo, la madre potrà vantare i diritti del neonato al risarcimento per la morte del padre che abbia causa in errore medico o incidente stradale durante la gestazione, appunto soltanto se il bambino viene alla luce.
Dunque, nell’inquadrare il contesto nel quale analizzare il danno da nascita indesiderata, non si può fare a meno di menzionare anche quel traguardo importantissimo che l’ordinamento italiano ha raggiunto nel 1978 dotandosi della L. 198 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Prima di allora, infatti, l’art. 546 c.p. puniva sia la donna sia il medico che si prestasse a tale pratica. Abrogato questo articolo, si distinguono due ipotesi di IVG sintetizzabili come segue:
- prima dei 90 giorni la madre può decidere di interrompere la gravidanza in presenza di motivi familiari, sociali o economici e
- dopo i 90 giorni per motivi medici.
Cosa si intende per nascita indesiderata
Per nascita indesiderata si intende quella situazione in cui la gestante si è vista privata del suo diritto di interrompere la gravidanza. In particolare, sempre in presenza dei requisiti di legge, ad impedire che la donna possa scegliere di abortire è l’omessa informazione del medico circa possibili malformazioni del feto. In altri termini, nascita indesiderata è quella che vede una donna dare alla luce un neonato affetto da malattia genetica o ereditaria non diagnosticata dal medico nella fase prenatale o non comunicata impedendole di autodeterminarsi nella procreazione.
Rispetto a tali situazioni, su influenza della terminologia giuridica anglosassone, in letteratura si è parlato e si parla di wrongful-life e wrongful-birth per riferirsi alla vita ingiusta del soggetto messo al mondo in condizioni di svantaggio fisico, mentale o morale; in particolare, si affronta la vicenda dal lato del bambino (wrongful-life) e dal lato dei genitori (wrongful-birth). Tale letteratura rileva come, in Europa, la tendenza sia quella di escludere il diritto al risarcimento del soggetto nato malato e ciò per la difficoltà di riconoscimento dell’interesse leso nell’interesse a non vivere piuttosto che vivere in condizioni di menomazione: se nessun problema si pone rispetto alla domanda di risarcimento da parte del neonato quando la condotta medica incida direttamente sul bene salute del feto traducendosi in un danno biologico, nei casi in esame il danno al neonato è la sua stessa nascita e l’ordinamento non riconosce un diritto a non nascere.
Il difficile ruolo della giurisprudenza
Come spesso accade in quegli schemi di responsabilità strettamente connessi al settore della bioetica, anche in questo caso la giurisprudenza ha svolto un ruolo tanto delicato quanto difficile che non è andato esente da contrasti giurisprudenziali.
Due sono le questioni fondamentali relative al c.d. danno da nascita indesiderata e sulle quali sono state interrogate anche le Sezioni Unite della Cassazione:
- onere probatorio e
- legittimazione del neonato.
Segue: l’onere probatorio
In ordine alla questione dell’onere probatorio, secondo un primo e più risalente (anni 2000) orientamento corrispondeva a regolarità causale che la gestante interrompesse la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto. In altre parole, operava una presunzione semplice e andava a carico del medico l’onere di provare che, pur informata, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza. Avverso questo orientamento viene mossa la seguente critica: sorgeva il rischio che il giudizio risarcitorio si traducesse in una sorta di vicenda para-assicurativa ex post.
Un secondo e più recente (tra il 2012 e il 2014) orientamento, invece, escludeva tale presunzione semplice ponendo a carico della parte attrice l’onere della prova. In altre parole, la sola circostanza di aver richiesto esami volti ad accertare l’assenza di anomalie sul feto veniva giudicata non sufficiente a dedurre la volontà di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni e, quindi, doveva essere il genitore ad allegare e dimostrare che, se avesse avuto informazione delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza. L’aver richiesto esami di approfondimento da parte della gestante, con parole più formali, diviene “elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un determinato esito finale”[2] al quale occorre affiancare ogni possibile ulteriore elemento del quale il giudice possa servirsi per valutare il caso in concreto, in particolare quando vi sia contestazione da parte del medico convenuto.
Di questo avviso sono anche le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 25767/2015 dove viene chiaramente affermata la complessità del fatto da provare essendo questo nientemeno che “un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo” quali “la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima.”. In questa occasione, ma anche pochi anni dopo la stessa Cassazione in sezione singola, viene confermato a carico della gestante l’onere della prova, anche a tramite di presunzioni semplici trattandosi di fatto psichico. Ancora, nel 2021 la Cassazione ha aggiunto al fatto di doversi accertare la sussistenza dei requisiti di legge in concreto e caso per caso, che ciò deve essere fatto “a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata”[3].
Segue: la legittimazione del neonato
Anche circa la legittimazione del nato malformato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico e della struttura sanitaria si sono susseguiti diversi e opposti orientamenti.
Le tesi negative si poggiano talvolta sull’esclusione della soggettività giuridica del concepito e di conseguenza anche della sua legittimazione dopo la nascita a far valere la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre; talvolta si poggiano sull’impossibilità di identificare il bene protetto nella non vita e il danno nella vita (malformata) e, a questo discorso si collega quanto già accennato circa le difficoltà nel riconoscimento di un eventuale interesse a non nascere se non sano. Ancora, talvolta si poggiano sull’interruzione del nesso causale, non avendo il medico direttamente procurato il danno biologico.
Le tesi che, invece, sono a favore della tutela risarcitoria del bambino nato malformato ravvisano l’evento di danno nell’esistenza minorata che consegue all’omissione colpevole del medico servendosi del principio di equivalenza causale per cui non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Con riguardo a questa seconda discussa questione in conclusione si vuole menzionare la già citata sentenza Cassazione, 2-10-2012, n. 16754 per il merito di aver per la prima volta riconosciuto la pretesa risarcitoria del nato con gravi malformazioni genetiche nei confronti del medico che, a causa di una errata diagnosi al feto, aveva impedito alla madre di avvalersi della possibilità di esercitare la scelta abortiva.
Dopo un passo in avanti, purtroppo però si compie un passo indietro: le Sezioni Unite nel 2015 sancivano che “il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l’ordinamento non conosce il ‘‘diritto a non nascere se non sano”, né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico”.
Ancora una volta un finale aperto a quelli che ci si augura saranno tempi migliori in termini di esercizio dei propri diritti e di autodeterminazione, soprattutto in quel delicato ambito che è quello sanitario e terapeutico.
Informazioni
M. Foglia, Diritto a non nascere (se non sano), Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile Aggiornamento XI, pp. 135-163
F. Aliperti, Danno da nascita indesiderata: oneri probatori e legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria (Nota di commento a Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza Interlocutoria del 23 febbraio 2015, N. 3569) in Actualidad Jurídica Iberoamericana, núm. 3, agosto 2015, pp. 751-764
M. Midolo, Il danno da nascita indesiderata e il diritto a non nascere se non sano in dirittocivilepenale.it, 29 giugno 2020
C. Lattarulo, Feto down: inesistente il diritto a non nascere, Nota a Cassazione civile, SS.UU., sentenza 22/12/2015 n° 25767, Altalex, 21 gennaio 2016, disponibile al seguente link https://www.altalex.com/documents/news/2016/01/12/feto-down-inesistente-diritto-a-non-nascere
V. Ciardo, Il danno da “wrongful life” in diritto.it, 11 maggio 2021, reperibile al seguente link https://www.diritto.it/il-danno-da-wrongful-life/
[1] Una trattazione più approfondita di questi aspetti introduttivi circa il nascituro è disponibile al seguente articolo in tema di aborto: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/15/aborto/
[2] Cass. Civ., sez. III, sentenza 2/10/2012 n. 16754
[3] Cass. Civ., Sez. III, sentenza 15/01/2021, n. 653
Il consenso dell'avente diritto
Analisi e ricostruzione dell’istituto civilistico del consenso dell’avente diritto con cenni applicativi: accettazione del rischio sportivo e prestazione del consenso informato
Introduzione al consenso dell’avente diritto
Senza dubbi il consenso dell’avente diritto è argomento che troverebbe più facilmente spazio di trattazione nell’ambito del diritto penale avendo appiglio normativo nell’art. 50 c.p.[1]. Tuttavia, qualcosa di molto simile accade in molteplici situazioni afferenti al diritto civile e amministrativo e questo sarà l’ambito di trattazione del presente articolo.
Se pacificamente nel campo penale ai sensi dell’art. 50 c.p. è esclusa la punibilità di chi lede un diritto col consenso della persona che può validamente disporne, si ritiene la stessa disposizione nella sfera dei diritti privati comporti l’esclusione dell’antigiuridicità dell’atto lesivo quale effetto del consenso del titolare, ove il consenso sia stato validamente prestato ed abbia avuto ad oggetto un diritto disponibile.
La norma contenuta nell’art. 50 c.p., inoltre, può dirsi espressione di un principio generale di autoresponsabilità operante anche nella sfera dei diritti privati. Così è stato, ad esempio, in una fattispecie concreta dove la parte, dopo aver consentito la deviazione di un corso d’acqua sul suo fondo, aveva poi agito per ottenere il risarcimento del danno cagionato dal medesimo passaggio d’acqua. In tale vicenda, la Suprema Corte ha ritenuto che, pur essendo nullo l’accordo tra le parti per la natura demaniale del corso d’acqua, il consenso valesse ad escludere l’illiceità del danno, inteso come lesione del diritto disponibile della proprietà del fondo[2].
Insomma, si può affermare senza inciampi che similmente a quanto accade nel diritto penale con la scriminante del consenso dell’avente diritto per cui non è punibile chi leda un diritto col consenso della persona che può validamente disporne, nel diritto civile il consenso dell’avente diritto determina il venir meno dell’antigiuridicità dell’atto lesivo dello stesso diritto con le conseguenze del caso.
È a questo schema, per intenderci, che si possono ricondurre la normativa per la protezione dei dati personali il trattamento dei quali “è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato” (art. 23, Codice della Privacy), l’accettazione del rischio nell’ambito di una competizione sportiva per cui l’eventuale danno alla salute non sarà risarcibile, almeno se verificatosi nei limiti delle regole del gioco, ma anche la disciplina del consenso medico informato.
La natura giuridica del consenso dell’avente diritto
Nell’approcciare il tema del consenso dell’avente diritto nel diritto civile, è bene trattare dell’assai discussa natura giuridica del medesimo.
La questione è controversa dal principio nei termini in cui è discusso che si tratti di una figura di diritto penale o di un negozio giuridico di diritto privato e, ancora, che si tratti di un contratto o di un negozio unilaterale atipico.
Ora, lo scopo di questo articolo è ben lontano da esporre esaustivamente la diatriba ma quel che brevemente si può dire è che, rimanendo nella categoria del diritto privato, lo schema contrattuale è ritenuto incompatibile se si pensa alla teoria del contratto generale, in quanto si tratta di prestazioni non coercibili e anzi liberamente revocabili e gratuite (non si può trarne profitto economico), mentre si ritiene compatibile il modello dei contratti reali in quanto questi si perfezionano con traditio per compensare la gratuità.
Più consenso trova la ricostruzione che guarda agli atti unilaterali sebbene, non trovando battesimo nell’ordinamento, si debba concludere per l’atto unilaterale atipico e l’atipicità incontra qualche resistenza nei termini in cui l’autonomia negoziale è prevista solo per i contratti. In ogni caso, l’atto unilaterale sarebbe in linea con la revocabilità del consenso in ogni tempo quale elemento essenziale dell’istituto.
Pur lasciando alla dottrina e alla giurisprudenza questa delicata ricostruzione, quindi, si può concludere circa la natura del consenso dell’avente diritto affermando che fondamentale si dimostra l’ambito di applicazione del consenso, quindi il diritto di cui si discorre poiché è a seconda di tali circostanze che possono essere prese le opportune cautele sia nel disporre del diritto stesso sia nella ricostruzione ex post, al fine di tutelare situazioni comunque meritevoli di tutela secondo l’ordinamento.
Il consenso dell’avente diritto nell’accettazione del rischio sportivo
Nell’ambito delle attività sportive, in particolare nell’ambito di quelle per loro natura pericolose, il consenso dell’avente diritto trova forse la sua prima applicazione pratica. Ogniqualvolta si prenda parte ad attività sportive, il consenso viene prestato al momento dell’adesione e vi consegue che l’eventuale danno non sarà risarcibile.
Esemplificare sarà d’aiuto: basti pensare ad un incontro di pugilato, noto sport di contatto. Nel momento in cui i pugili si accordano perché si tenga l’incontro, accettano i rischi conseguenti ai colpi che, inferti dall’altro, riceveranno. Tuttavia, già negli anni ‘50 pareva inopportuno da un lato che non si distinguesse tra sport di contatto e non, e dall’altro lato che nessun danno alla salute conseguente ai colpi ricevuti potesse essere lamentato risultando inconcepibile prestare il consenso a lesioni personali fino alla morte. Grazie a queste critiche, negli anni ’90 si sono fatti dei passi in avanti utili a meglio delineare i confini della responsabilità penale e civile degli atleti introducendo limiti quali ad esempio il rispetto delle regole del gioco, cd. lealtà sportiva.
Così facendo, il consenso prestato dall’atleta è limitato ad un certo rischio preventivamente identificato, con la doverosa precisazione che il solo fatto di aver rispettato una regola del gioco non è sufficiente per esonerare da responsabilità il responsabile. Occorre cumulativamente che:
- l’atto sia stato compiuto senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività;
- pur in presenza di violazione delle regole proprie dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso;
- «in entrambi i casi, tuttavia il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano»[3].
In questi termini sarà probabilmente responsabile il pugile esperto che, nel corso di un allenamento effettuato senza mezzi di protezione, cagioni lesioni ai danni di un principiante, senza che possa operare alcuna causa di giustificazione.
Il consenso dell’avente diritto nei diritti della personalità
Con riguardo ai diritti della personalità come il diritto sui dati personali, il diritto all’immagine, il diritto alla salute, il diritto all’integrità fisica (ecc.), il discorso circa il consenso dell’avente diritto si fa più delicato.
Si pensi al diritto all’immagine, già disciplinato dal codice civile del 1942 e costantemente in evoluzione. In chiave generale si ritiene che il primo degli interrogativi da porsi trattando del consenso dell’avente diritto sia il seguente: il diritto alla lesione del quale si vuole acconsentire è disponibile? Posto che pagine e pagine potrebbero scriversi intorno la disponibilità e l’indisponibilità dei diritti della personalità, la dottrina e la giurisprudenza si dividono ma prendono sempre più piede posizioni progressiste. Si può disporre dell’esercizio del diritto all’immagine purchè sia sempre possibile revocare il consenso come anche si può disporre della propria integrità fisica in nome di un diritto alla salute allargato anche alla salute psicofisica acconsentendo non solo ad esempio all’amputazione di un arto per la prevalente tutela del bene vita ma anche all’intervento di chirurgia estetica.
Si giunge così senza salti logici al cd. consenso medico informato[4] divenendo oggetto di particolare disciplina normativa quel consenso dell’avente diritto in ambito medico che coinvolge i più delicati diritti della personalità.
Il consenso medico informato
Per concludere il discorso circa il consenso dell’avente diritto può essere d’interesse spendere qualche parola sul consenso medico informato quale particolare consenso dell’avente diritto in ambito di autodeterminazione terapeutica e prestazioni sanitarie disciplinato in Italia a partire dal 2017 grazie alla L. 219/2017 intitolata per l’appunto “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
Dato il delicato ambito di questo consenso, la legge prevede particolari cautele richiedendo innanzitutto che il consenso medico sia prestato da persona capace di comprendere la propria situazione di salute, tendenzialmente maggiorenne e in assenza di condizionamenti. Non solo, il consenso deve essere libero ma anche attuale, puntuale e soprattutto informato. L’informazione del paziente è a cura del medico e deve essere completa – in termini di alternative praticabili e relative conseguenze prospettando anche la facoltà di rifiuto – nonché adeguata alle capacità di comprensione del paziente.
Senza eccedere nel dettaglio, quello che in questa sede si vuole notare è come si sia sentita la necessità di dotarsi di una disciplina speciale per il consenso medico informato che, per altro, volendo aggiungere eventuali spunti di riflessione, sfocia nella tanto attesa disciplina del testamento biologico. Grazie all’introduzione delle DAT, acronimo di Disposizioni Anticipate di Trattamento, infatti, è oggi possibile prestare anticipatamente il consenso o il dissenso a trattamenti sanitari che riguardino la propria persona per lo sfortunato caso in cui in futuro si perdesse la capacità di autodeterminarsi[5].
Pensare ai limiti che possa incontrare il consenso dell’avente diritto in tale contesto è forse meno agevole rispetto al contesto dell’attività sportiva ma del medesimo istituto si tratta. A voi ogni altra considerazione morale o di diritto.
Informazioni
(Teoria generale del consenso dell’avente diritto by Leonardo Loguercio testo non reperito ma di quantomeno apparente puntuale attinenza)
R. Mazzon, L’antigiuridicità nel diritto civile e in quello penale: l’esempio del consenso dell’avente diritto, 02/02/2017, https://www.personaedanno.it/articolo/lantigiuridicit-nel-diritto-civile-e-in-quello-penale-lesempio-del-consenso-dellavente-diritto-riccardo-mazzon
R. Caterina, Le persone fisiche, Giappichelli, 2016
M. Franzoni, La responsabilità civile nell’esercizio di attività sportive in Resp. civ., 2009, 11
A. Geraci, Il negozio unilaterale per il consenso alla pubblicazione della propria immagine in Dir. Industriale, 2017, 1, 55 (nota a sentenza)
[1] “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne (579; c.c. 5).”
[2] Cassazione civile, sez. III, 24/02/1997, n. 1682
[3] Cass., 8.8.2002, n. 12012
[4] Per una trattazione più completa del consenso informato si consiglia la lettura dell’articolo al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/22/convenzione-di-oviedo-e-consenso-informato/
[5] Per una riflessione approfondita in tema di consenso medico informato e diritto di morire dignitosamente si consiglia la lettura dell’articolo al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/16/vita-e-consenso-excursus-l-219-2017/
L'amministratore di sostegno
Presupposti per l’applicazione dell’amministrazione di sostegno e procedura per la nomina dell’amministratore di sostegno
Quando e perché ricorrere all’amministratore di sostegno
L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione introdotta nell’ordinamento nel 2004 e disciplinata agli artt. 404 e ss. c.c. accanto alle già esistenti, e presenti nel codice civile dalla sua adozione nel 1942, interdizione e inabilitazione[1]. Rispetto a queste ultime, l’amministrazione di sostegno è un istituto più malleabile e capace di adattarsi caso per caso alle necessità dell’incapace allo scopo di preservarne il più possibile la residua capacità d’agire, quindi, ponendo in essere la minore limitazione possibile purchè sufficiente a tutelarlo nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana.
Per meglio comprendere questo aspetto, è utile sapere che le più tradizionali interdizione e inabilitazione, infatti, sono state oggetto di alcune critiche che le hanno addite come:
- eccessivamente rigide ed incapacitanti per l’impossibilità di modulare le limitazioni,
- eccessivamente patrimoniali per il fatto di trascurare la protezione della persona occupandosi esclusivamente dei suoi interessi patrimoniali
- eccessivamente stigmatizzanti per la forza emarginante che l’etichetta della malattia mentale sprigionava estromettendo completamente tali persone dal traffico giuridico.
A queste critiche vuole porre rimedio l’amministrazione di sostegno.
A segnare un cambio di passo, quindi, è il primo articolo della L. 6/2004 che introduce la misura in esame declamando i principi e i valori che permeano la nuova visione caratterizzata da un peculiare interesse alla persona del beneficiario in quanto tale che va ben oltre i profili meramente economici.
Il nuovo approccio emerge anche dalle denominazioni scelte per i protagonisti di queste delicate situazioni: parlasi di beneficiario e di amministratore di sostegno.
A beneficio di chi? Il beneficiario
Si venga, allora, ai soggetti beneficiari per indicare le ipotesi nelle quali è possibile richiedere la nomina di un amministratore di sostegno.
Ai sensi dell’art. 404 c.c. può essere sottoposto ad amministrazione di sostegno il soggetto che sia affetto da infermità o menomazione fisica o psichica e, a causa di questa, sia – anche temporaneamente o parzialmente – incapace di provvedere ai propri interessi. L’ampiezza di tale formulazione costituisce argomento a sostegno della parte di dottrina che ritiene l’amministrazione di sostegno abbia la vocazione di sostituire interdizione e inabilitazione. Tuttavia, proprio a proposito della procedura da seguire a seconda della misura che si vuole richiedere, a tempo debito vi saranno alcune precisazioni da fare.
Per concludere con riguardo al profilo del beneficiario, si può esplicare la necessaria sussistenza di due requisiti:
- uno soggettivo quale l’infermità o una menomazione fisica o psichica anche temporanea o parziale
- uno oggettivo quale la conseguente impossibilità di provvedere ai propri interessi con la precisazione che può trattarsi anche di mere esigenze di cura della persona, senza la necessità di una gestione patrimoniale poiché l’istituto non è finalizzato esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario ma è volto, più in generale, a garantire protezione alle persone fragili in relazione all’effettive esigenze di ciascuna[2].
La persona dell’amministratore di sostegno
Fondamentale nell’individuazione della persona dell’amministratore di sostegno è la persecuzione dell’interesse esclusivo del beneficiario. In linea con questo principio generale, l’art. 408 c.c. prevede il beneficiario stesso, in previsione della propria futura incapacità, possa designare anticipatamente il soggetto che vorrebbe come amministratore di sostegno.
Tale designazione deve avvenire mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e non è insuperabile nei termini in cui è permesso al giudice di nominare un amministratore diverso in presenza di gravi motivi, ad esempio qualora quello designato non fosse idoneo allo svolgimento dell’incarico. In questi casi e in assenza di designazione, sempre ai sensi dell’art 408 c.c., la legge individua un ordine preferenziale che il giudice è tenuto a rispettare favorendo uno tra i seguenti soggetti:
- il coniuge che non sia separato legalmente,
- la persona stabilmente convivente,
- il padre,
- la madre,
- il figlio,
- il fratello o la sorella,
- il parente entro il quarto grado,
- il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Qualora nessuna tra le persone appena indicate – che astrattamente sono considerate dal legislatore preferibili in quanto tra le più vicine al beneficiario – fosse idonea al compito, il giudice individua una persona terza rispetto alla cerchia familiare[3] con la precisazione che tale persona, pur svolgendo l’incarico professionalmente, non ha diritto ad alcuna retribuzione data la tendenziale gratuità dell’incarico (art. 379 c.c. in virtù del richiamo contenuto nell’art. 411 I comma c.c.) salva un’eventuale equa indennità stabilita dal giudice.
Talvolta, poiché un terzo estraneo all’ambiente familiare manca della vicinanza affettiva tipica del familiare, i giudici tutelari hanno provveduto a nominare due amministratori di sostegno affiancando alla figura del tecnico, un familiare. A tal proposito, si coglie l’occasione per sottolineare un ulteriore aspetto: non è da escludere che il giudice tutelare neghi la nomina di un amministratore di sostegno facendo appello alla già attiva, nonché idonea e sufficiente, rete familiare del potenziale beneficiario.
Chi può fare domanda? E come?
Per completezza è doveroso indicare quali siano i soggetti che possono domandare l’applicazione dell’amministrazione di sostegno a beneficio del soggetto che si trovi nella condizione sopra descritta.
Ebbene, la legittimazione attiva spetta al beneficiario della misura (anche se minore, interdetto o inabilitato), al coniuge, alla persona stabilmente convivente, all’unito civilmente in favore del proprio compagno, ai parenti entro il quarto grado, agli affini entro il secondo grado, al tutore dell’interdetto, al curatore dell’inabilitato e al pubblico ministero.
Il procedimento rientra nella giurisdizione volontaria ed è piuttosto snello.
- La domanda va presentata da tali soggetti senza che sia indispensabile la partecipazione di un difensore, nella forma del ricorso da depositarsi presso l’ufficio del giudice tutelare del luogo in cui il beneficiario ha la residenza o il domicilio.
- Il giudice tutelare, letto il ricorso, fissa con decreto la data di udienza per l’audizione del beneficiario e per la convocazione del ricorrente e degli altri soggetti legittimati attivi. L’audizione del beneficiario costituisce il cuore della fase istruttoria al punto che, qualora il soggetto non fosse nelle condizioni di raggiungere il tribunale, sarebbe il giudice a recarsi presso di lui. In ogni caso, il colloquio con il beneficiario non esaurisce la fase istruttoria avendo il giudice poteri d’ufficio da esercitare per condurre gli ulteriori accertamenti che ritenesse necessari.
- Non appena il giudice tutelare ritiene espletato ogni opportuno approfondimento istruttorio e comunque entro 60 giorni dal deposito dell’istanza, decide il ricorso con decreto motivato ed immediatamente esecutivo[4].
Occorre precisare che il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno segue le forme della camera di consiglio di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. che disegnano un modello processuale semplificato e più rapido rispetto a quello ordinario[5]. Pertanto, qualora si ritenga ricorrano i presupposti dell’amministrazione di sostegno ma sia stata chiesta interdizione o inabilitazione, l’amministrazione di sostegno non può essere pronunciata e il giudice invita le parti a procedere nelle forme della camera di consiglio.
Anche viceversa si incontrano delle limitazioni: qualora fosse promosso un procedimento di amministrazione di sostegno ma il giudice ritenesse sussistenti i presupposti per interdizione o inabilitazione, deve essere informato il pubblico ministero affinchè promuova l’interdizione o l’inabilitazione nelle forme tipiche non potendo procedere per queste in camera di consiglio.
Informazioni
P. Loddo, Amministratore di sostegno: la guida completa. La procedura di nomina, le modalità di scelta, le competenze, gli obblighi ed il compenso, 24 ottobre 2019, consultabile al sito: https://www.altalex.com/
A. Racca, Profili concreti di assistenza e tutela alla persona nell´amministrazione di sostegno. Dal dibattito giurisprudenziale allo studio concreto. In Cammino Diritto, 2019, fasc. 1
R. Caterina, L’amministrazione di sostegno in Id., Le persone fisiche, 2020, Giappichelli Editore, pp. 50-94
[1] Sulle più rigide misure di protezione dell’interdizione e dell’inabilitazione si consiglia la lettura dell’articolo di cui al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/28/interdizione-e-inabilitazione/
[2] Così ha precisato la Suprema Corte di Cassazione, in particolare Cassazione civile sez. VI, 26/07/2018, n. 19866.
[3] N.B.: Dai soggetti che possono ricoprire il ruolo di amministrazione di sostegno sono da escludere gli operatori di servizi pubblici e privati che hanno in cura i beneficiari per questioni inerenti il conflitto di interessi come sancito dall’art. 408 III comma c.c.
[4] La dichiarazione dell’amministrazione di sostegno (come anche quella di inabilitazione e interdizione) è una pronuncia che verte sulla capacità d’agire e ha, quindi, valore costitutivo. Si ricorda che, se di regola una pronuncia costitutiva diviene efficace solo dopo essere passata in giudicato, le pronunce costitutive di una misura di protezione, eccezionalmente, divengono immediatamente efficaci.
[5] Per uno schema del procedimento ordinario di cognizione: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/
Il fermo di polizia giudiziaria
La misura precautelare del fermo di polizia giudiziaria, anche detta fermo di indiziato di delitto applicata dalla polizia giudiziaria in situazioni eccezionali di necessità e urgenza
Inquadramento del fermo di polizia giudiziaria nell’ambito delle misure precautelari
Il fermo di polizia giudiziaria è quello disposto da un agente o ufficiale di polizia giudiziaria[1] e che nel gergo tecnico si definisce “fermo di indiziato di delitto” quale misura precautelare disciplinata dall’art. 384 c.p.p. e consistente nella limitazione della libertà personale disposta nei confronti del soggetto a carico del quale vi siano gravi indizi di colpevolezza e un fondato pericolo di fuga.
Se sui presupposti di applicazione del fermo di polizia giudiziaria vi sarà spazio per approfondire in seguito, da subito è importante inquadrare l’istituto in questione distinguendo brevemente tra misure cautelari e misure precautelari. Le misure cautelari sono misure restrittive della libertà personale sottoposte al principio di riserva di legge e di giurisdizione ai sensi dell’art. 13 Cost.; infatti, perché siano legittime, devono essere disposte con atto motivato dell’autorità giudiziaria e ciò avviene nel corso del procedimento di cognizione[2] e solo in presenza dei presupposti edittale, probatorio e cautelare previsti dalla legge per ogni misura. Anche le misure precautelari sono tenute al rispetto di tali presupposti ma vengono disposte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, in deroga al principio di riserva di giurisdizione, poiché ci si trova in situazioni eccezionali di necessità e urgenza tali da non poter aspettare l’intervento del pubblico ministero e da richiedere si agisca tempestivamente. La disposizione di una misura precautelare, si precisa, è autonoma e distinta dall’eventuale richiesta di misura cautelare[3]. È poi importante sapere che, affinché le misure precautelari siano legittime, è necessario sopravvenga la convalida del giudice entro le 96 ore successive all’esecuzione del provvedimento; in questo modo si rispetta ex post il principio di riserva di giurisdizione e si comprende la strumentalità dell’istituto al soddisfacimento dell’esigenza cautelare.
Ambito e presupposti applicativi del fermo di polizia giudiziaria
Il fermo di indiziato di delitto è una misura precautelare il cui potere dispositivo è in capo al pubblico ministero; tuttavia, in via sussidiaria, può essere disposto dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 384, II comma c.p.p. quando il pubblico ministero non abbia ancora assunto la direzione delle indagini o, quand’anche l’abbia assunta, nelle particolari situazioni di urgenza di cui all’art. 384 III comma c.p.p..
Chiarito da chi può essere disposto, si sottolinei come il fermo di indiziato di delitto sia uno strumento di garanzia investigativa di notevole importanza soprattutto in relazione a delitti di rilevante gravità; infatti, presupposto applicativo è che i gravi indizi di colpevolezza riguardino un delitto per cui la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione da 2 a 6 anni oppure si tratti di delitti concernenti armi da guerra, esplosivi, con finalità di terrorismo, eversione dell’ordine democratico ai sensi dell’art. 384 I comma c.p.p. Questo è quello che prende il nome di presupposto edittale e definisce l’ambito di applicazione della misura precautelare in questione. Perché la polizia giudiziaria possa disporre (in via sussidiaria al pubblico ministero) il fermo di indiziato di delitto, vi sono due ulteriori presupposti:
- Il presupposto probatorio, cui si è già accennato, consiste nella presenza di indizi di colpevolezza, e non indizi di reato, che devono essere più di uno come indica il plurale e devono essere gravi[4] in modo da permettere, allo stato degli atti e quindi con una valutazione statica, una prognosi di elevatissima probabilità di colpevolezza di quella persona. È da sottolineare, in questa sede, la differente valutazione circa la prognosi della colpevolezza che ha luogo in ambito cautelare rispetto a quella che ha luogo per decidere sul rinvio a giudizio. Solo in questo secondo caso la valutazione è dinamica potendo il giudice ritenere non superfluo il dibattimento in presenza di qualche dubbio sulla sostenibilità dell’accusa. Inoltre, gli elementi su cui si basa il vaglio sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza sono diversi da quelli su cui si basa la decisione per il rinvio a giudizio in particolare sotto il profilo qualitativo: gli “atti di indagine” saranno “prova” solo se passeranno il vaglio del contraddittorio tra le parti.
- Oltre al presupposto edittale e a quello probatorio, come si anticipava, deve sussistere anche il presupposto cautelare: deve esservi fondato pericolo di fuga della persona gravemente indiziata dei delitti suddetti. In altri termini deve verificarsi la medesima esigenza cautelare che giustificherebbe l’applicazione di una misura cautelare ma l’urgenza non permette di attendere i tempi dell’ordinario procedimento cautelare e, quindi, si opta per la misura precautelare.
Per concludere sui presupposti applicativi del fermo di polizia giudiziaria, sembra opportuno aggiungere che vi sono alcune circostanze nelle quali la legge vieta l’applicazione della misura precautelare del fermo di polizia giudiziaria in ragione di una mancata antigiuridicità dell’azione criminosa. Si tratta cioè delle ipotesi in cui appare che il fatto sia stato compiuto nell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p. o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità ex artt. 47 ss., 85 ss. c.p. come prescritto dall’art. 385 c.p.p.
I doveri della polizia giudiziaria
Se un agente di polizia giudiziaria dispone di sua iniziativa la misura precautelare del fermo di indiziato di delitto, lo stesso è tenuto a rispettare alcuni obblighi procedurali finalizzati all’esercizio di garanzie difensive del fermato.
Si tratta di quanto prescritto dall’art. 386 c.p.p., ovvero innanzitutto nell’obbligo di immediata e puntuale comunicazione al pubblico ministero del luogo dove è avvenuto il fermo. Contestualmente gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria hanno l’obbligo di informare il fermato dei suoi diritti e in particolare della facoltà di nominare un difensore di fiducia cui, immediatamente, deve essere data notizia del fermo. In mancanza del difensore di fiducia eventualmente già nominato, la notizia deve essere data al difensore d’ufficio assegnatogli. In ogni caso, tale avvertimento ha chiaramente la funzione di permettere al soggetto di conferire con il proprio difensore. Senza ritardo e se il fermato lo consente, viene data notizia dell’esecuzione della misura ai familiari dello stesso.
A questo punto, il fermato viene messo a disposizione del pubblico ministero conducendolo nella casa circondariale del luogo. L’art. 386, III comma c.p.p. prescrive ciò avvenga “al più presto e comunque non oltre ventiquattro ore dal fermo” pena l’inefficacia della misura ai sensi del comma VII dello stesso articolo.
Infine, gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria devono trasmettere al pubblico ministero il verbale relativo alla misura, con l’indicazione dell’eventuale nomina del difensore di fiducia, del giorno, dell’ora e del luogo in cui stata eseguita la misura, oltre all’enunciazione delle ragioni che l’hanno determinata.
Il procedimento di convalida del fermo di polizia giudiziaria
Entro 48 ore dalla disposizione della misura da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, a meno che ritenga il fermato sia da liberare per errore di persona o perché il fermo è stato compiuto fuori dai casi, tempi e modi previsti dalla legge, il pubblico ministero deve far pervenire la richiesta di convalida al giudice delle indagini preliminari come prescritto dall’art. 390 I comma c.p.p..
Trascorse 48 ore dall’esecuzione del fermo di polizia giudiziaria senza che sia stata presentata richiesta di convalida, il pubblico ministero dispone la liberazione del fermato con decreto motivato. Diversamente, alla richiesta di convalida segue la trasmissione del decreto di fermo emesso dallo stesso pubblico ministero, del verbale di fermo prodotto dagli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria e della documentazione circa la traduzione nel luogo di custodia affinché siano consultabili dal giudice che decide sulla convalida.
Entro e non oltre le 48 ore successive al ricevimento della richiesta, a pena del venir meno dell’efficacia del fermo, viene fissata dal giudice per le indagini preliminari l’udienza di convalida[5]dandone comunicazione al pubblico ministero richiedente e al difensore senza ulteriori ritardi come prescritto dall’art. 390 II comma c.p.p. Entro queste ulteriori 48 ore, quindi entro 96 ore dalla disposizione del fermo, la misura deve essere convalidata perdendo altrimenti in ogni caso efficacia in considerazione del disposto dell’art. 13, III comma Cost. che prescrive la riserva di giurisdizione per le limitazioni della libertà personale. Nel corso dell’udienza, pur organizzata in tempi molto ristretti, viene integrato il contraddittorio e, se il fermato compare e accetta di rispondere, ha luogo il cd. interrogatorio di garanzia.
Con ordinanza motivata, il giudice per le indagini preliminari che ritenga il fermo di polizia giudiziaria sia stato eseguito legittimamente e osservando i termini previsti provvede alla convalida della misura precautelare ai sensi dell’art. 391, IV comma c.p.p. Al contrario, la convalida dovrà essere negata nell’ipotesi in cui la misura precautelare sia stata adottata in assenza dei presupposti stabiliti dalla legge e nell’ipotesi in cui sia stata mantenuta senza che la polizia o il pubblico ministero abbiano adempiuto agli obblighi prescritti.
Per concludere, si ricorda che nel corso dell’udienza di convalida del fermo di polizia giudiziaria può essere decisa anche la disposizione di una misura cautelare che sia stata richiesta dallo stesso pubblico ministero ma tale decisione rimane distinta e autonoma parimenti ai provvedimenti con cui le limitazioni della libertà personale vengono disposte.
Informazioni
C. Tripodi, Fermo di indiziato di delitto, 2 gennaio 2020, consultabile al seguente link https://www.diritto.it/fermo-di-indiziato-di-delitto/
G. Mantovani, “Arresto, fermo e allontanamento d’urgenza dalla casa familiare.” in D. Negri (a cura di), Le Indagini Preliminari E l’Udienza Preliminare in TRATTATO TEORICO PRATICO DI DIRITTO PROCESSUALE PENALE diretto Da Giulio Illuminati E Livia Giuliani, Vol. V, 2017, G. Giappichelli Editore, Pp. 75-174 consultabile in formato pdf al seguente link https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/1638107/334013/Mantovani%20G.%2c%20Arresto%2c%20fermo%20e%20allontanamento%20d%27urgenza%20dalla%20casa%20familiare.pdf
M. Scaparone, Procedura penale, Vol. II, 2017, G. Giappichelli Editore, pp. 287-335
[1] Sulla polizia giudiziaria si rimanda poi ad un articolo già pubblicato su DirittoConsenso riguardante le funzioni e le attività svolte: http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/15/poteri-polizia-giudiziaria/
[2] Sul processo penale invece si rimanda ad un pratico schema riassuntivo. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/17/uno-schema-pratico-del-processo-penale/
[3] Occorre tenere presente che si tratta di provvedimenti autonomi e distinti rispetto alle misure cautelari anche quando le due questioni si collochino nell’ambito della stessa udienza deputata alla convalida della misura precautelare: la decisione cautelare si può innestare nell’udienza di convalida del provvedimento cautelare ma alla convalida della misura precautelare non corrisponde necessariamente la disposizione di una misura cautelare potendo altresì accadere che la misura precautelare non sia convalidata ma sia disposta una misura cautelare.
[4] L’aggettivo qualificativo “gravi” vuole circoscrivere la possibilità di ricorrere a misure cautelari in contrapposizione all’aggettivo qualificativo “sufficienti” del più remoto codice penale Rocco.
[5] L’udienza si svolge in camera di consiglio alla presenza necessaria del difensore del fermato mentre non è indispensabile siano presenti il pubblico ministero richiedente e il fermato.