Distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale

Distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale: il caso Al Mahdi

La distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale non costituisce una specifica violazione nonostante rientri tra i crimini internazionali

 

Il patrimonio culturale nel contesto del diritto internazionale

Prima di parlare di un caso recente e della distruzione del patrimonio culturale nel diritto penale internazionale bisogna fare una premessa storica. Nel 1874, su iniziativa dello Zar Alessandro II, i delegati di 15 Stati Europei si riunirono a Bruxelles per stipulare la Dichiarazione sulle leggi e i costumi di guerra[1]. Seppur non vincolante, tale atto è rilevante perché costituisce un elemento importante per lo sviluppo del diritto bellico. Va citato, in particolare, perché l’Articolo 8 della Dichiarazione offre un primo esempio – in forma embrionale – di protezione del patrimonio culturale nel diritto internazionale, secondo il quale il sequestro, la distruzione e il danneggiamento intenzionale dei “beni dei comuni, quelli delle istituzioni dedicate alla religione, alla carità e all’educazione, […] dei monumenti storici, delle opere d’arte e delle scienze deve essere oggetto di un’azione legale da parte delle autorità competenti[2].

Il patrimonio culturale è dunque ancora ritenuto un “bene”, una proprietà. Tuttavia inizia a germogliare l’idea di un elemento umano nel patrimonio culturale – e dunque meritevole di protezione e salvaguardia, normativa in primis. Tale elemento prenderà una forma più delineata soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale, con conseguente necessità di definirne un reato in caso di devastazione o rovina, sancendo, inoltre, un nodo inestricabile tra patrimonio culturale e diritti umani[3].

A cominciare dal preambolo della Convenzione dell’Aia del 1954[4], patrocinata dall’UNESCO, dove viene confermata la drammaticità del danneggiamento di beni culturali come “un danno al patrimonio culturale di tutta l’umanità[5], si sottolinea quell’elemento intrinsecamente umano dei beni culturali. Occorre citare anche la Convenzione sul patrimonio dell’umanità, adottata alla conferenza generale dell’UNESCO del 1972[6], che con ben 161 ratifiche, dimostra la rilevanza e la risonanza mondiale del patrimonio culturale. Risonanza che supera, non solo i confini territoriali, ma coinvolge l’umanità in tutta la sua esistenza, e dunque la salvaguardia del patrimonio culturale diviene un dovere per le generazioni attuali anche nei confronti delle generazioni future per poter tramandare “questa eredità comune”[7].

La protezione del patrimonio culturale nel diritto internazionale è dunque un concetto dalla florida tradizione, ma al tempo stesso irrisolto.

Nondimeno, consolidata questa retorica di salvaguardia dei beni culturali necessaria per il decorso dell’umanità, e accentuato quel legame con i diritti umani – come si legge nella Convenzione Faro del Consiglio d’Europa[8]una possibile egida per questa “eredità comune” è rappresentata dal diritto penale internazionale, proprio in virtù di quell’elemento umano intrinsecamente custodito dal patrimonio culturale[9].

In particolare, lo strumento giuridico definito rientra nella responsabilità individuale sotto le categorie dei crimini internazionali di guerra e contro l’umanità.

 

La distruzione del patrimonio culturale nel diritto penale internazionale

Prima di entrare nello specifico delle categorie dei crimini di guerra e contro l’umanità, facendo riferimento alla distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale, sorge spontaneo chiedersi perché venga omesso il crimine di genocidio: dopotutto, il danneggiamento o la distruzione intenzionali del patrimonio culturale possono essere interpretati come un attacco diretto ad uno specifico gruppo umano.

Per l’appunto, nella bozza della Convenzione sul Genocidio[10] era presente la nozione di genocidio culturale, ovvero la “distruzione sistematica di monumenti storici o religiosi o il loro dirottamento verso usi estranei [e la] dispersione di documenti e oggetti di valore storico, artistico o religioso e di oggetti utilizzati nel culto religioso[11]. Concetto estromesso, non solo nella versione finale della Convenzione, ma anche da successivi trattati o dibattiti di organi e corti internazionali, come affermano la Corte Internazionale di Giustizia e la Commissione del Diritto Internazionale, seguendo la definizione della Convenzione, in base alla quale il crimine di genocidio è circoscritto alla distruzione fisica o biologica di un gruppo[12], escludendo quindi l’esistenza di una qualche forma di genocidio culturale.

Ne consegue che il danneggiamento e la distruzione del patrimonio culturale, nel contesto del diritto internazionale, rientrano limitatamente tra i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità per una mera questione di consuetudine interpretativa: si è sempre fatto così.

Considerando queste due categorie, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (1998) include nella definizione di crimini di guerra – in caso di conflitto armato sia di carattere internazionale che non – qualsiasi “attacco intenzionalmente diretto contro edifici dedicati alla religione, all’istruzione, all’arte, alla scienza o a scopi caritatevoli, monumenti storici[13].

La precisazione di un attacco “intenzionalmente diretto” porta conseguenze legali ben precise – come dimostrava il Tribunale Penale Internazionale per l’Ex-Jugoslavia[14] – per cui il danneggiamento del patrimonio culturale deve essere strettamente legato al conflitto armato in questione, e non trattarsi di attacchi sporadici o danni collaterali, logica basata sul semplice fatto che, di norma, i beni culturali non sono bersaglio diretto di attacchi[15].

Ad ogni modo, la correlazione tra distruzione del patrimonio culturale e crimini di guerra risulta più intuitiva, diversamente dal nesso con i crimini contro l’umanità, più complesso da dispiegare.

Il danneggiamento di beni culturali rientra nella dicitura dei crimini contro l’umanità dello Statuto della CPI come la “persecuzione contro qualsiasi gruppo o collettività identificabile per motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religioso, di genere, […] o per altri motivi universalmente riconosciuti o qualsiasi crimine di competenza della Corte e, riconosciuto nel diritto consuetudinario internazionale[16].

Un’inclusione ambigua, considerata la necessaria esistenza di “altri crimini” di cui la Corte ha giurisdizione per dichiarare la distruzione del patrimonio culturale come crimine contro l’umanità. Particolare, se si tiene a mente la Convenzione dell’Aia del 1954, precedentemente citata, in base alla quale “danneggiare i beni culturali significa danneggiare il patrimonio culturale di tutta l’umanità”, e che dovrebbe dunque essere sufficiente per attestare la presunta violazione di un crimine contro l’umanità.

Tuttavia, l’elemento materiale per tale crimine è costituito da attacchi diffusi e sistematici diretti contro una popolazione civile[17], che, infatti, non richiede necessariamente l’esistenza di un conflitto armato, ma che legalmente risulta più complesso da accertare.

Per l’appunto, nel primo caso della CPI in materia di distruzione dei beni culturali, Al Mahdi, gli attacchi diretti agli edifici storico-religiosi di Timbuctu[18] nel 2012 vennero classificati dalla Corte soltanto come crimini di guerra[19].

Al Mahdi resta comunque una sentenza cardine per la Corte e per il diritto penale internazionale in generale, e per questo merita un approfondimento, quantomeno per comprenderne la portata storico-giuridica.

 

Il caso Al Mahdi: tante “prime volte”

Ahmed Al Faqi Al Mahdi ricopriva il ruolo di leader dell’hisbah[20] del gruppo islamista associato ad Al-Quaeda, Ansar Dine[21], reo della distruzione, tra giugno e luglio 2012, di nove mausolei e dell’ingresso della moschea Sidi Yahia di Timbuctu, risalenti al XV e XVI secolo, classificati patrimonio UNESCO, nonché “luoghi di pellegrinaggio per le popolazioni del Mali e dell’Africa Occidentale[22].

Nel settembre del 2015, Al Mahdi veniva consegnato alla Corte Penale Internazionale dalle autorità nigerine con l’accusa di aver violato l’Articolo 8(2)(e)(iv) dello Statuto di Roma per la distruzione di beni culturali.

Per la prima volta un organo giudiziario penale internazionale persegue un individuo per una violazione di questa entità, per di più unicamente circoscritta a questo crimine, e per la prima volta asserita dinanzi alla CPI[23].

Tante “prime volte” per il diritto penale internazionale, le cui aspettative riguardavano il consolidamento e l’ampliamento delle norme inerenti alla protezione del patrimonio culturale[24].

Tuttavia, come anticipato nel paragrafo precedente, possiamo già individuare una carenza a principio della vicenda: Al Mahdi viene portato davanti alla Corte dell’Aia per la presunta violazione dell’Articolo 8, ovvero per crimini di guerra.

Secondo le analisi preliminari dell’accusa, in effetti, sarebbe stato possibile considerare anche la presunta violazione dell’Articolo 7 dello Statuto di Roma[25], e quindi la commissione di crimini contro l’umanità, vera novità per la prassi del diritto penale internazionale, e dall’impatto normativo più significativo. Ciononostante, nel rapporto finale emergeva l’assenza di informazioni necessarie per fornire una “base ragionevole per credere che siano stati commessi crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 nella situazione in Mali[26], con conseguente mandato di arresto solamente per la presunta commissione di crimini di guerra.

Nell’agosto 2016, dunque, Al Mahdi dichiara la propria colpevolezza – un’altra delle diverse “prime volte” che caratterizzano questo caso[27]. Il 27 del mese seguente, la Corte dell’Aia, condannando l’ex hisbah di Ansar Dine a 9 anni di reclusione.

Ancora, come se questa sentenza non bastasse a demarcare l’importanza di Al Mahdi e una prima vittoria per la protezione del patrimonio culturale, nell’agosto del 2017 la CPI ha emesso un’ordinanza sul risarcimento[28] per il crimine commesso, più precisamente, si parla di risarcimento alle vittime per “crimini contro il patrimonio culturale”[29], l’ennesima “prima volta” di questo memorabile caso.

La rilevanza in questo caso è dovuta a tutte le categorie di danni subiti dalle vittime presi in considerazione dalla Corte: economici, morali, collettivi e individuali[30]. In particolare, la CPI ha sottolineato il “dolore emotivo[31] della comunità associato al “legame spirituale” dei luoghi distrutti, un elemento da non sottovalutare se si considera l’impatto sui possibili sviluppi in materia di protezione dei beni culturali.

 

L’eredità di Al Mahdi: quali orizzonti per la protezione del patrimonio culturale?

Tante “prime volte” in Al Mahdi e per il diritto penale internazionale, dal principio alla fine di questo caso: la consegna di Al Mahdi da parte delle autorità nigerine, l’accusa individuale per crimini di guerra dinanzi alla Corte Penale Internazionale per la “sola” distruzione di beni culturali, la dichiarazione di colpevolezza dell’accusato, l’ampia rosa di danni menzionati dall’Aia nell’ordinanza di risarcimento alle vittime.

Tante “prime volte” per questo pilastro della casistica del diritto penale internazionale, che infatti lascia intravedere orizzonti, se non splendenti, quantomeno luminosi per il futuro in materia di protezione dei beni culturali.

Al Mahdi rappresenta un precedente storico in materia di distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale.

Va detto che l’inclusione dei crimini contro l’umanità tra i capi d’accusa avrebbe chiarito definitivamente l’idea che i beni culturali non siano meramente proprietà, possedimenti, un patrimonio in senso letterale degli Stati, e la cui distruzione dunque possa rimanere impunita. Tuttavia, specialmente grazie all’ordinanza di risarcimento, la Corte ha aperto la strada per questo concetto, per un significato di patrimonio culturale come di identità dei popoli e delle comunità, sancendo uno dei veri primi successi della Corte Penale Internazionale, a quasi vent’anni dalla sua creazione (1998).

In questo senso, quell’elemento intrinsecamente umano del patrimonio culturale diviene centrale per la sua protezione nel contesto del diritto penale internazionale, e, si spera, per prevenire futuri attacchi ai danni di questa nostra “eredità comune”.

Informazioni

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R. O’KEEFE, “Cultural Heritage and International Criminal Law. Sustainable Development, International Criminal Justice, and Treaty Implementation” (Cambridge: Cambridge University, (2013).

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https://www.icc-cpi.int/CourtRecords/CR2017_05117.PDF.

[1] https://ihl-databases.icrc.org/ihl/INTRO/135.

[2] https://ihl-databases.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/Article.xsp?action=openDocument&documentId=BAB3FB2725F684E6C12563CD00515509.

[3] Ba, Oumar (2020). Contested Meanings: Timbuktu and the prosecution of destruction of cultural heritage as war crimes. African Studies Review, 63(4), p. 744.

[4] http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13637&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html.

[5] O’Keefe, R. (2013). Cultural Heritage and International Criminal Law. Sustainable Development, International Criminal Justice, and Treaty Implementation (Cambridge: Cambridge University Press, 2013), 120-150, p. 1.

[6] https://whc.unesco.org/en/conventiontext/.

[7] UNESCO, Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future, 1997, Articolo 7, http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13178&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html.

[8] Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society, 2005, https://rm.coe.int/1680083746.

[9] Per altre forme di violazione di norme relative alla protezione del patrimonio culturale si veda L. VENEZIA, “Chi sono i tombaroli?” in http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/13/chi-sono-i-tombaroli/.

[10] La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocity-crimes/Doc.1_Convention%20on%20the%20Prevention%20and%20Punishment%20of%20the%20Crime%20of%20Genocide.pdf.

[11] Supra O’Keefe, pp. 19-20.

[12] Ibidem, pp. 21-22.

[13] Articolo 8(2)(b)(ix) e Articolo 8(2)(e)(iv), https://www.icc-cpi.int/resource-library/documents/rs-eng.pdf.

[14] Prosecutor v Akayesu, Appeals Chamber Judgment, Case No. ICTR-96-4-A, 1 June 2001, para. 444; Prosecutor v Rutaganda, Appeals Chamber Judgment, Case No. ICTR-96-3-A, 26 May 2003, paras 569-70; Prosecutor v Stakić, Appeals Chamber Judgment, Case No. IT-97-24-A, 22 March 2006, para. 342.

[15] Ibidem, O’Keefe, pp. 2-3, 8-10.

[16] Articolo 7(1)(h).

[17] Ivi, O’Keefe, p. 18.

[18] Per un totale di nove mausolei, Mausoleo di Sidi Mahmoud Ben Omar Mohamed Aquit, Mausoleo di Sheikh Mohamed Mahmoud al-Arawani, Mausoleo di Sheikh Sidi el-Mokhtar Ben Sidi Muhammad Ben Sheikh Alkabir, Mausoleo di Alfa Moya, Mausoleo di Sidi Mahmoud Ben Amar, Mausoleo di Sheikh Muhammad El Micky, Mausoleo di Cheick Abdoul Kassim Attouaty, Mausoleo di Ahamed Fulane, Mausoleo di Bahaber Babadié.

[19] Caso Al-Mahdi, para. 11, https://www.icc-cpi.int/CourtRecords/CR2016_07244.PDF.

[20] La cosiddetta “brigata della moralità” il cui compito era di far rispettare la Sharia nella sua interpretazione più estrema, prevenendo che i cittadini cedano ai vizi.

[21] https://globalpublicsquare.blogs.cnn.com/2012/08/14/who-are-ansar-dine/.

[22] Browden, A., “Emerging Voices: A Case of Firsts for the International Criminal Court: Destruction of Cultural Heritage as a War Crime, Islamic Extremism and a Guilty Plea”, Opinio Juris, http://opiniojuris.org/2016/08/09/emerging-voices-a-case-of-firsts-for-the-international-criminal-court-destruction-of-cultural-heritage-as-a-war-crime-islamic-extremism-and-a-guilty-plea/#.V2RPQ5MrLBI.

[23] Wierczyńska, K., & Jakubowski, A. (2017). Individual Responsibility for Deliberate Destruction of Cultural Heritage: Contextualizing the ICC Judgment in the Al-Mahdi Case. Chinese Journal of International Law, 16(4), 696-697.

[24] Brown, M., “Guest Post: Promising Development in Protecting Cultural Heritage at the ICC”, Opinio Juris, http://opiniojuris.org/2015/09/30/guest-post-promising-development-in-protecting-cultural-heritage-at-the-icc/.

[25] Dijkstal, H. J. (2019). Destruction of Cultural Heritage before the ICC: The Influence of Human Rights on Reparations Proceedings for Victims and the Accused. Journal of International Criminal Justice, 17(2), p. 398.

[26] ICC Situation in Mali, Art. 53(1) Report, 16 January 2013, para. 8, 128; Office of the Prosecutor, ‘Report on Preliminary Examination Activities 2012’ (2012), para. 181.

[27] Supra, Browden.

[28] https://www.icc-cpi.int/CourtRecords/CR2017_05117.PDF.

[29] Balta, A., “The Al-Mahdi Reparations Order at the ICC: A Step towards Justice for Victims of Crimes against Cultural Heritage”, Opinio Juris, http://opiniojuris.org/2017/08/25/the-al-mahdi-reparations-order-at-the-icc-a-step-towards-justice-for-victims-of-crimes-against-cultural-heritage/.

[30] Caso Al-Mahdi, para. 57-59.

[31] Ibidem, para. 89.


Soccorso in mare nel diritto internazionale

Il soccorso in mare di migranti nel diritto internazionale

L’opinione del Comitato ONU per i Diritti Umani sull’inottemperanza italiana nel soccorso in mare dei migranti in base al diritto internazionale

 

Il soccorso in mare nel diritto internazionale

Migranti e rifugiati soffrono orrori inimmaginabili durante il loro transito e soggiorno in Libia”, si apre così il Report dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCR) sulla situazione di migranti e rifugiati in territorio libico[1]. Non stupisce, dunque, vedere il Mediterraneo “preso d’assalto” nella speranza di una vita migliore. Speranza spesso vana, come dimostrato dai numerosi naufragi documentati nel corso degli anni passati[2]. Naufragi, che, in molti casi, si sarebbero potuti evitare.

L’obbligo di assistenza in mare è sancito dal diritto internazionale, non solo in virtù di accordi stipulati, ma anche come parte integrante del diritto consuetudinario[3]; in quanto tale, il soccorso in mare dovrebbe essere garantito “alle persone in difficoltà, indipendentemente dalla loro nazionalità, dal loro status o dalle circostanze in cui si trovano[4]. D’altra parte, le migrazioni via mare non sono un fenomeno recente, e infatti sono numerosi i trattati stipulati in materia di sicurezza marittima e salvataggio in mare, quali:

  • la Convenzione Internazionale per la Salvaguardia della Vita Umana in Mare (SOLAS) del 1974[5],
  • la Convenzione Internazionale sulla Ricerca e Salvataggio Marittimo (SAR) del 1979[6], o
  • la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982[7].

 

Gli obblighi derivanti dalla ratifica di queste convenzioni ricadono sugli Stati Contraenti nel “coordinare e cooperare affinché le persone soccorse in mare siano sbarcate in un luogo sicuro il prima possibile[8].

Ancora, occorre citare, nel contesto del diritto internazionale dei rifugiati, la Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati del 1951[9], che, all’Articolo 33(1) sancisce il principio di non-refoulement[10], ovvero il divieto di rimandare rifugiati e richiedenti asilo nel loro paese d’origine, o in qualsiasi altro paese, in cui rischierebbero di subire gravi violazioni dei diritti umani[11], quali, tortura, privazione arbitraria della libertà, detenzione in condizioni igieniche inumane, malnutrizione, e la lista sarebbe ancora lunga e, purtroppo, ancor più dettagliata[12].

Il rispetto da parte degli Stati degli obblighi precedentemente citati, rientra dunque nel più ampio quadro della protezione dei diritti umani.

Non a caso, insieme ai patti specificatamente stipulati in materia di salvataggio in mare, si fa riferimento a norme di portata più generale, primo fra tutti il rispetto del diritto alla vita[13], sancito dall’Articolo 2 della CEDU[14], dall’Articolo 2 della Carta di Nizza[15], e dall’Articolo 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici[16].

Dal significato tanto ampio quanto complesso, il diritto alla vita è considerato come “il diritto supremo che non ammette deroghe […] sia per gli individui che per la società nel suo insieme[17], demarcando la portata universale di tale diritto e rispecchiando l’essenza stessa dei “diritti umani”. Secondo quanto stabilito dal Comitato ONU per i Diritti Umani[18], il rispetto del diritto alla vita richiede anche misure appropriate che gli Stati dovrebbero adottare in situazioni di pericolo di vita, incluse “operazioni in condizioni di emergenza”[19], tra cui operazioni di ricerca e salvataggio in mare. Inoltre, l’Articolo 98 della UNCLOS chiarisce l’obbligo di intervento da parte dei capitani delle navi nel prestare assistenza in mare “con tutta la rapidità possibile”, non appena informati di una situazione di pericolo.

Tuttavia, sembra che l’universale applicazione dei diritti umani, della loro salvaguardia e della loro protezione, venga messa in discussione nel momento in cui entri in gioco la territorialità degli Stati, specialmente per quanto riguarda il soccorso in mare e il diritto dei rifugiati.

 

I limiti della territorialità: problemi di giurisdizione

Sembra superfluo sottolineare che la specificità dell’ambiente marittimo non dovrebbe precludere il rispetto dei diritti umani[20], specialmente se considerate le norme precedentemente citate che ne accentuano l’universale applicazione. Il soccorso in mare nel diritto internazionale rappresenta un dovere per gli Stati e un diritto di tutti gli individui che dovessero trovarsi in una situazione di pericolo.

Ma la realtà non è così lineare e scontata.

 

Hirsi Jamaa and others v. Italy

In un pilastro della casistica in materia, Hirsi Jamaa and others v. Italy[21], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva decretato l’estensione della giurisdizione[22] in acque internazionali in caso di controllo de jure o de facto su un migrante[23] o richiedente asilo.

Ma cosa significa esattamente?

Nella casistica della CEDU, infatti, è chiaro come la giurisdizione sia principalmente, ma non esclusivamente, legata al territorio: uno Stato può essere dichiarato responsabile per la violazione di diritti umani anche in caso di azioni commesse dalle proprie autorità quando tali azioni avvengano o producano effetti al di fuori del territorio nazionale[24]. Visione ripresa dal Comitato ONU precedentemente citato, secondo cui uno Stato Contraente ha il dovere di tutelare i diritti di tutte le persone soggette alla propria giurisdizione, ciò include le persone che si trovano al di fuori di qualsiasi territorio effettivamente controllato dallo Stato”, e i cui diritti sono “tuttavia influenzati dalle sue attività militari o di altro tipo in modo diretto e ragionevole, o da altre attività in modo diretto e ragionevolmente prevedibile[25].

Una recente Opinione del Comitato ONU sul caso A.S., D.I., O.I. and G.D. v. Italy, ha rimarcato l’obbligo per gli Stati di prestare soccorso in mare, specialmente in virtù del rispetto al diritto alla vita.

Il caso preso in analisi, vede l’Italia responsabile della violazione dei diritti umani subite dai migranti durante il naufragio dell’11 ottobre 2013, sebbene i fatti non abbiano luogo in territorio italiano e le violazioni non siano commesse direttamente da autorità italiane.

È bene dunque tenere a mente che negare il soccorso in acque internazionali, quindi al di fuori delle acque territoriali, costituisce una violazione dei diritti umani in quanto atto omissivo, non meno grave di una violazione direttamente perpetrata.

 

A.S., D.I., O.I. and G.D. v. Italy

Il 10 ottobre 2013 un peschereccio ancorato nel porto di Zuwara, in Libia, prese il largo con a bordo i ricorrenti insieme ad altri richiedenti asilo e rifugiati siriani, per un totale di più di 400 persone, tra cui numerosi bambini. Colpito da un’imbarcazione battente bandiera berbera, il peschereccio iniziò ad imbarcare grandi quantità di acqua, trovandosi a 112 km da Lampedusa e 218 km da Malta, nella zona SAR (ricerca e salvataggio) maltese. Una delle persone a bordo aveva segnalato intorno alle ore 11:00 del mattino dell’11 ottobre al numero italiano per le emergenze in mare, la situazione di urgenza, considerata anche la presenza di bambini a bordo, indicando le coordinate geografiche. Nonostante le numerose chiamate susseguitesi, prima ricevute dal Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Maritime Rescue Coordination Centre) Italiano, con l’assicurazione di un intervento di soccorso da parte delle autorità italiane, e in seguito da quello Maltese, alle ore 16:00 l’imbarcazione non era ancora stata soccorsa, pur avendo continuato a segnalare la situazione di pericolo. Solo intorno alle 17:50 una motovedetta delle Forze Armate Maltesi e una nave della Marina Italiana, ITS Libra, raggiunsero il luogo di quello che ormai era un naufragio.

Più di 200 migranti, 60 dei quali bambini, persero la vita quel giorno.

I richiedenti, nella comunicazione al Comitato, sostengono la colpevolezza dell’Italia nella violazione dei loro diritti, per non aver prestato loro soccorso, e aver causato la morte delle persone a bordo dell’imbarcazione.

L’Italia, lo Stato Contraente in questione, il 15 giugno 2018, ha presentato le sue osservazioni sull’ammissibilità e sul merito della comunicazione al Comitato, sostenendone l’inammissibilità per mancata giurisdizione, poiché il naufragio è avvenuto al di fuori del territorio nazionale[26].

Tuttavia, l’Opinione del Comitato, pur prendendo atto di tale dichiarazione da parte dell’Italia, accoglie l’affermazione dei richiedenti, in base alla quale lo Stato Contraente ha giurisdizione, in virtù del controllo de facto esercitato dalle autorità italiane sull’area SAR maltese, poiché erano in continuo contatto con l’imbarcazione in pericolo, e, inoltre, avevano attivato le procedure di salvataggio, esercitando così il controllo sulle persone in pericolo[27].

Il Comitato, infatti, sottolinea una “speciale relazione di dipendenza fra le persone a bordo dell’imbarcazione in difficoltà e l’Italia[28]. Tale relazione si deve a diversi elementi: guardando ai fatti, dal momento che il Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marino Italiano ha risposto per primo alla chiamata di emergenza, assicurando le persone a bordo che sarebbero state soccorse dalle autorità italiane, e rimanendo in contatto durante tutta la durata dell’emergenza, a causa della vicinanza al dell’ITS Libra al luogo di quello che sarebbe poi divenuto il naufragio[29]. In secondo luogo, in virtù degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione SOLAS circa il dovere di prestare soccorso, e la Convenzione SAR per quanto riguarda il dovere di cooperare con altri Stati durante le operazioni di salvataggio[30].

Perciò, il Comitato sostiene il controllo de facto esercitato dall’Italia sui richiedenti e gli altri migranti presenti a bordo dell’imbarcazione in pericolo, riaffermando la giurisdizione italiana, e dunque la responsabilità per l’inottemperanza nel rispetto dei diritti umani – in questo caso del diritto alla vita – di migranti e rifugiati.

 

Bagliori di speranza

Le norme consuetudinarie e pattizie del diritto internazionale garantiscono il diritto a tutti gli individui di essere soccorsi in mare, parallelamente all’obbligo degli Stati di prestare soccorso.

Le gravi violazioni di diritti umani che avvengono in Libia costringono migranti, rifugiati e richiedenti asilo a tentare di attraversare il Mediterraneo, causa dei numerosi naufragi degli scorsi anni. Naufragi che avrebbero potuto non avere luogo se le autorità competenti fossero intervenute “il più rapidamente possibile”, rispettando quanto stabilito, ad esempio, dalla Convenzione ONU sul Diritto del Mare.

Tuttavia, gli Stati, quali l’Italia, invocano spesso il vincolo del territorio come scusante per l’omissione di soccorso, dichiarando di non avere giurisdizione[31]. Come se lasciare una persona annegare fosse meno grave che spingerla in acqua.

Con l’Opinione dello scorso gennaio del Comitato ONU per i Diritti Umani si intravedono bagliori di speranza per quanto riguarda l’evoluzione della dottrina e della prassi in materia di soccorso in mare indipendentemente dai limiti territoriali.

Il fatto che il Comitato abbia considerato l’Italia responsabile per la violazione del diritto alla vita dei migranti, rappresenta un forte segnale politico da parte di un organo quasi-giudiziario, sebbene l’Opinione non sia di per sé direttamente vincolante.

Il messaggio è chiaro: gli Stati devono intervenire nella salvaguardia dei diritti umani senza nascondersi dietro cavilli, legali, forse, ma decisamente non legittimi.

Informazioni

B. CANDELISE, “L’immunità degli Stati e la tutela dei diritti umani” in http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/08/immunita-degli-stati-e-tutela-diritti-umani/.

V. GULLO, “Il ruolo degli organi internazionali quasi-giudiziari e la tutela dei diritti umani”, in http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/16/ruolo-organi-internazionali-quasi-giudiziari-diritti-umani/.

I. MANN, “The right to perform rescue at the sea: jurisprudence and drowning”, German Law Journal, 21(3), 2020, 598-619.

T. SPIJKERBOER, “Wasted lives. Borders and the right to life of people crossing them”, Nordic Journal of International Law, 2017, 86(1), 1-29.

V. STOYANOVA, “The right to life under the EU Charter and cooperation with Third States to combat human smuggling”, German Law Journal, 2020, 21(3), 436-458.

S. TREVISAN, “Is There a Right to be Rescued at Sea? A Constructive Overview”, Questions of international law, 4, 2014, 3-15.

https://www.humanrightspulse.com/mastercontentblog/special-relationship-of-dependency-and-the-human-rights-committees-ruling-against-italy.

https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=26691&LangID=E.

http://opiniojuris.org/2021/03/09/no-more-elusion-of-responsibility-for-rescue-operations-at-sea-the-human-rights-committees-views-on-the-case-a-s-d-i-o-i-and-g-d-v-italy-and-malta/.

https://www.humanrightsatsea.org/2021/01/28/the-right-to-life-italy-found-by-un-in-violation-of-the-right-to-life-of-migrants-at-sea/.

http://opiniojuris.org/2021/03/03/rescue-at-sea-and-the-establishment-of-jurisdiction-new-direction-from-the-human-rights-committee-part-i/.

http://opiniojuris.org/2021/03/03/rescue-at-sea-and-the-establishment-of-jurisdiction-new-direction-from-the-human-rights-part-ii-committee/.

http://opiniojuris.org/2021/03/02/not-all-that-glitters-is-gold-the-human-rights-committees-test-for-the-extraterritorial-application-of-the-iccpr-in-the-context-of-search-and-rescue-operations/.

https://www.unhcr.org/publications/brochures/450037d34/rescue-sea-guide-principles-practice-applied-migrants-refugees.html.

https://www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/eu0119_web2.pdf

https://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/DetainedAndDehumanised_en.pdf

http://docstore.ohchr.org/SelfServices/FilesHandler.ashx?enc=6QkG1d%2FPPRiCAqhKb7yhstsQovBxJQHwJeXDTjQLUaUwYYjlqAnj6DO%2BkweyZpu%2BL4iD30S%2FwqRunavIXzmaaGOCaECajCmraoKaRMn3dVMHKT5cQG9yNc%2BFLOXaqwCP.

[1] https://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/LibyaMigrationReport.pdf.

[2] https://www.iom.int/news/shipwreck-coast-libya-pushes-migrant-deaths-mediterranean-past-20000-mark.

[3] S. TREVISAN, “Is There a Right to be Rescued at Sea? A Constructive Overview”, Questions of international law, 4, 2014, p 5.

[4] UNHCR, “Rescue at the sea – a guide to principles and practice as applied to refugees and migrants”, p. 4, https://www.unhcr.org/publications/brochures/450037d34/rescue-sea-guide-principles-practice-applied-migrants-refugees.html.

[5] International Convention for the Safety of Life at Sea, https://www.imo.org/en/About/Conventions/Pages/International-Convention-for-the-Safety-of-Life-at-Sea-(SOLAS),-1974.aspx.

[6] International Convention on Maritime Search and Rescue, https://onboard-aquarius.org/uploads/2018/08/SAR-Convention-1979.pdf.

[7] UN Convention on the Law of the Sea, https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.

[8] Supra UNHCR, “Rescue at the sea”, p. 3.

[9] Convention Relating to the Status of Refugees, https://www.unhcr.org/3b66c2aa10.

[10] “Non-respingimento”.

[11] Supra UNHCR, “Rescue at the sea”, p. 9.

[12] Per approfondire si veda https://www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/eu0119_web2.pdf, https://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/DetainedAndDehumanised_en.pdf, http://docstore.ohchr.org/SelfServices/FilesHandler.ashx?enc=6QkG1d%2FPPRiCAqhKb7yhstsQovBxJQHwJeXDTjQLUaUwYYjlqAnj6DO%2BkweyZpu%2BL4iD30S%2FwqRunavIXzmaaGOCaECajCmraoKaRMn3dVMHKT5cQG9yNc%2BFLOXaqwCP.

[13] I. MANN, “The right to perform rescue at the sea: jurisprudence and drowning”, German Law Journal, 21(3), 2020 p. 602.

[14] Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, https://www.echr.coe.int/documents/convention_eng.pdf.

[15] Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_en.pdf.

[16] https://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx.

[17] Human Rights Committee (Comitato ONU per I Diritti Umani), General Comment n. 36, para. 2.

[18] Per approfondire si veda V. GULLO, “Il ruolo degli organi internazionali quasi-giudiziari e la tutela dei diritti umani”, in http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/16/ruolo-organi-internazionali-quasi-giudiziari-diritti-umani/.

[19] Ibidem, para. 26.

[20] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Medvedyev and others v. France, Application no. 3394/03, 2010, para. 81.

[21] CEDU, Application no. 27765/09, 2012.

[22] Per approfondire il tema della giurisdizione e dei diritti umani si veda B. CANDELISE, “L’immunità degli Stati e la tutela dei diritti umani” in http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/08/immunita-degli-stati-e-tutela-diritti-umani/.

[23] Ivi MANN, p. 603.

[24] CEDU, Ilaşcu and Others v. Moldova and Russia, Application no. 48787/99, para. 314, 2004; Catan and Others v. the Republic of Moldova and Russia, Applications nos. 43370/04, 8252/05 e 18454/06, para. 104-105, 2012; Chiragov and Others v. Armenia, Application no. 13216/05, para 167, 2015.

[25] Human Rights Committee (Comitato ONU per I Diritti Umani), General Comment n. 36, para. 63.

[26] HRC, Views adopted by the Committee under article 5 (4) of the Optional Protocol, concerning Communication No. 3042/2017, https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=CCPR/C/130/DR/3042/2017&Lang=en, para. 4.1.

[27] Supra HCR, Views, para. 7.3.

[28] Ibidem, para. 7.8.

[29] Ivi, para. 7.7.

[30] Ivi, para. 7.8.

[31] Si vedano CEDU, Hirsi Jamaa, para. 65-66, e HRC, Views, para. 4.1. Per approfondire si veda https://opiniojuris.org/2021/03/09/no-more-elusion-of-responsibility-for-rescue-operations-at-sea-the-human-rights-committees-views-on-the-case-a-s-d-i-o-i-and-g-d-v-italy-and-malta/.


Organi internazionali quasi-giudiziari

Il ruolo degli organi internazionali quasi-giudiziari e la tutela dei diritti umani

La diffusione di corti, tribunali e organi internazionali quasi-giudiziari e le trasformazioni nella dottrina e nella prassi del diritto internazionale

 

Corti, tribunali e organi internazionali quasi-giudiziari: quantità e qualità?

L’origine di corti e tribunali internazionali – anche in forma embrionale o per istituzione ad hoc – trova le sue radici ben prima della costituzione della Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1922[1]. In età contemporanea, si pensi ad esempio alla Corte Permanente di Arbitrato, istituita nel 1899 e primo modello di organizzazione intergovernativa permanente per la risoluzione delle controversie internazionali[2]. Tuttavia, sebbene dal secondo dopoguerra siano stati stipulati numerosi trattati e convenzioni in materia di cooperazione  e risoluzione delle controversie internazionali, solo negli ultimi decenni del secolo scorso è possibile delineare una significativa proliferazione di organi giudiziari nei diversi ambiti del diritto[3], istituiti sia a livello internazionale che regionale[4]. L’elenco degli organi giudiziari occuperebbe molteplici pagine, ma sarebbe incompleto se venissero esclusi i cosiddetti quasi-judicial bodies, gli organi internazionali quasi-giudiziari[5], la cui esistenza si è affiancata a quella di corti e tribunali internazionali, ed è con essa compatibile – se non alternativa, in casi particolari, come per il caso del Comitato ONU per i Diritti Umani. Si tratta di organismi “altri” rispetto a corti e tribunali, spesso organi amministrativi, formalmente privi del carattere giudiziario di emanare decisioni vincolanti.

Ma prima di chiarire la sostanziale differenza tra questi istituti, è opportuno chiedersi se la loro esistenza sia necessaria, ovvero se l’elevato numero di corti, tribunali e altri organismi semi-giudiziari sia in qualche modo utile all’evoluzione del diritto e nella risoluzione delle controversie internazionali.

Non a caso, proprio nei primi anni del Duemila vennero pubblicati numerosi articoli[6] inerenti alle conseguenze della sopracitata proliferazione sul sistema giuridico internazionale. Da un lato, venivano presentati dubbi circa la possibile “erosione” sull’uniformità del diritto internazionale, immediatamente seguita dalla difficoltà nel chiarire quale corte o istituto fosse competente, per concludere con il timore di un logoramento del ruolo della Corte Internazionale di Giustizia come “leader intellettuale”. Dall’altro, considerato il crescente numero di casi, e quindi di esempi e modelli, è possibile delineare in maniera più accurata e avere una migliore comprensione del contesto normativo vigente, insieme ad un maggiore coordinamento e cooperazione non solo tra gli istituti coinvolti, ma anche tra Stati, incrementando il dialogo internazionale.

Ad oggi, riteniamo che i benefici superino i timori, specialmente se si considera la questione della cosiddetta cross-fertilization, intesa come la florida prassi di corti e organi internazionali quasi-giudiziari di “arricchirsi vicendevolmente”. Si può infatti considerare immotivato il rischio di un’erosione dell’uniformità del diritto internazionale e di una svalutazione della Corte Internazionale di Giustizia, proprio in virtù della sopracitata cross-fertilization, poiché, analizzando la giurisprudenza di diversi organi giudiziari internazionali, questi tendono a seguire le decisioni – anche di altri organismi – precedentemente adottate, mantenendo una chiara coerenza del sistema legale internazionale.

 

La complementarietà tra gli organi giudiziari

Discutere di una frammentazione o erosione del diritto internazionale a causa dell’esistenza di numerosi organi giudiziari e non (o quasi), risulta inappropriato, e sarebbe più corretto riferirsi ad una specializzazione degli attori coinvolti in virtù della diversificazione delle fonti. Dunque, affermando ottimisticamente che la già citata proliferazione degli enti votati agli affari giuridico-legali abbia arricchito il panorama internazionale e contribuito all’evoluzione del diritto, rimane da chiarire quale sia la necessità di avere, accanto a corti e tribunali storicamente e istituzionalmente rilevanti, organismi “altri”.

Le decisioni di corti e tribunali internazionali, in virtù di trattati precedentemente stipulati, costituiscono parte della cosiddetta hard law, le norme vincolanti per gli Stati, e per gli altri attori internazionali, di ottemperare agli obblighi sanciti da qualsivoglia fonte di diritto internazionale. Ad esempio, gli Stati che hanno accettato la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia per la risoluzione di una controversia sono vincolati a rispettare la decisione della Corte. Semplice. Tuttavia, le dinamiche del panorama internazionale non si limitano alle controversie inter-statali, e in particolare la complessità di determinati temi del diritto necessita un supporto, un istituto complementare al ruolo degli organi giudiziari.

 

Il concetto di soft law e gli organi internazionali quasi-giudiziari

Qui entra in gioco la cosiddetta soft law, etimologicamente opposta alla hard law, da cui l’erronea traduzione di “diritto debole”, poiché fa riferimento a norme non vincolanti. Considerata la natura non vincolante di tali norme o atti, sorgono dubbi circa la loro praticità: perché redigere un documento internazionale il cui obiettivo non sia di imporre obblighi sulle parti coinvolte, più precisamente in capo agli Stati? Esempi di soft law sono le risoluzioni, raccomandazioni, linee guida, i codici di condotta o dichiarazioni di organismi internazionali, inclusi gli organi giudiziari e non o quasi-giudiziari. Si tratta dunque di fonti dal forte impatto politico-sociale, più che meramente legale, specialmente se emanate da enti internazionalmente rilevanti, il cui prestigio garantisce una significativa autorità morale alle decisioni adottate; si pensi, ad esempio, alle Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le Linee Guida della Commissione Europea, o le Opinioni del Comitato ONU per i Diritti Umani.

Tenuto conto di queste precisazioni, sarebbe più corretto riferirsi alla soft law non come “diritto debole” ma “flessibile”, e non contrapposta alla hard law, ma complementare – se non supplementare – considerato che i destinatari possono essere anche attori non-Stati[7], e quindi espande i confini del diritto internazionale. Non a caso, le norme di soft law sono lo strumento prevalentemente usato dagli organi internazionali quasi-giudiziari; la sostanziale differenza tra questi organismi e le corti o tribunali internazionali riguarda quindi la natura vincolante o meno delle decisioni di tali enti.

Il ruolo principale dei quasi-judicial bodies è quello di interpretare il diritto, infatti, si tratta di organismi specializzati e indipendenti, composti quindi da esperti che forniscono pareri e analisi, con il compito di chiarire e consolidare norme e fonti giurisprudenziali, ma anche di rinnovare il diritto in considerazione della sua evoluzione, in linea con la contemporaneità. Da qui la natura complementare del rapporto fra organi internazionali giudiziari e quasi-giudiziari, specialmente nell’ambito della protezione e promozione dei diritti umani, terreno fertile per l’azione degli organismi internazionali quasi-giudiziari.

 

Il Comitato ONU per i Diritti Umani

Diversificato, fiorente e ormai universalmente accettato, l’ambito dei diritti umani offre molteplici spunti di riflessione e richiede sforzi costanti da parte di giuristi, studiosi e attivisti, considerate le sfide ancora aperte che vedono gli Stati come soggetti principali della protezione e, al tempo stesso, delle violazioni di diritti umani. Esistono infatti numerosi istituti internazionali coinvolti nella promozione e salvaguardia dei diritti fondamentali. Tuttavia, ad oggi, strumenti legalmente vincolanti per gli Stati esistono solamente a livello regionale, che vengono quindi giudicati e/o sanzionati da corti in caso di violazioni[8]. Prorompe quindi nuovamente l’incertezza circa l’esistenza e l’effettività degli organi internazionali quasi-giudiziari proprio in relazione alla salvaguardia dei diritti umani, dal momento che, di fatto, solo a livello regionale sembra esistere una forma di limite e pena per gli Stati che compiano tali violazioni.

Recentemente è apparso sotto i riflettori un organo quasi-giudiziario, peculiare per il suo crescente ruolo nello scenario internazionale, che merita un approfondimento.

L’organo chiamato in causa è il Comitato ONU per i Diritti umani, creato in seguito all’adozione del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici[9] (16 dicembre 1966). È composto da esperti indipendenti con il compito di monitorare l’implementazione del Patto e dei due Protocolli Opzionali da parte degli Stati afferenti[10]. Questo quasi-judicial body è tra i nove treaty bodies[11], organismi del sistema ONU istituiti ad hoc per monitorare il rispetto dei cosiddetti Core International Human Rights Treaties[12] e i rispettivi Protocolli Opzionali.

Le decisioni del Comitato non sono formalmente qualificate come sentenze, si tratta, appunto, di Opinioni, e dunque non sono legalmente vincolanti. Ciononostante, in virtù della ratifica al Patto e ai Protocolli da parte degli Stati contraenti, le Opinioni del Comitato non possono semplicemente essere ignorate, e gli Stati devono risponderne davanti alla comunità internazionale. Si può parlare dunque di “effetti vincolanti indiretti”[13], non a causa della natura degli istituti in sé, ma per quella che possiamo indicare come tutela della reputazione da parte degli Stati insieme con l’autorità dell’organismo che emette la “sentenza”.

In questo senso, il Comitato e gli organi internazionali quasi-giudiziari in generale, richiamano l’attenzione su questioni rilevanti – in questo caso, violazioni di diritti umani – fornendo ulteriori basi giuridiche per la tutela dei diritti umani, e promuovendo quella che potremmo definire come giustizia internazionale.

Lo scorso 27 gennaio 2021[14], infatti, proprio il Comitato ha emesso un’Opinione decisiva per l’evoluzione della dottrina e della prassi in materia di responsabilità extraterritoriale in caso di violazioni dei diritti umani.

Nell’Opinione dello scorso gennaio, il Comitato ha dichiarato l’inottemperanza da parte dell’Italia nel rispetto del diritto alla vita – Articolo 6 del Patto Internazionale – di oltre 200 migranti, vittime del naufragio avvenuto il 10 ottobre 2013, nonostante fosse stata informata della situazione di pericolo e avesse l’obbligo di intervenire[15]. Si tratta di una decisione epocale perché la giurisdizione italiana viene attestata nonostante le violazioni, di fatto, non siano avvenute in acque territoriali dello Stato contraente, superando quindi i limiti della giurisdizione intrinsecamente legata alla territorialità, e ribadendo l’universale applicazione dei diritti umani, della loro promozione e salvaguardia.

 

Conclusioni

La proliferazione di corti, tribunali e organismi quasi-giudiziari internazionali ha permesso l’evoluzione della dottrina e della prassi in molti ambiti del diritto, in particolare per quanto riguarda il campo dei diritti umani. Nonostante le incertezze circa la competenza dei numerosi enti coinvolti e l’ipotetica erosione del diritto – nonché la tensione fra hard law e soft law, strumenti preponderanti rispettivamente degli organi giudiziari e dei quasi-judicial bodies – ad oggi è possibile definire positivamente tale proliferazione, delineando una complementarietà fra gli attori coinvolti.

Nell’ambito dei diritti umani, tale complementarietà risulta particolarmente efficace per la promozione della giustizia internazionale e di una cooperazione su più livelli, rispecchiando l’essenza universale dei diritti umani. Gli organi internazionali quasi-giudiziari che si affiancano a corti e tribunali, sebbene non producano decisioni legalmente vincolanti per gli Stati contraenti, svolgono un ruolo fondamentale da un punto di vista politico-sociale, in aggiunta alle mere delucidazioni dottrinali che costituiscono la loro ragion d’essere. Il caso del Comitato ONU per i Diritti Umani, risulta peculiare con l’Opinione del 27 gennaio 2021 perché chiarisce la responsabilità degli Stati contraenti di rispettare, promuovere e tutelare i diritti umani indipendentemente dai limiti territoriali, inaugurando orizzonti ambiziosi per il diritto internazionale.

Informazioni

T. BUERGENTHAL, “Proliferation of International Courts and Tribunals: Is It Good or Bad?”, LJIL, 2001, 14, 267.

J. CHARNEY, “The impact on the international legal system of the growth of international courts and tribunals”, NYUJ Int’l L. & Pol., 1998, 31, 697-698.

C. Chinkin, “Normative development in the international legal system”, Oxford University Press, 2000, 21-42.

Z. D. DE CLÉMENT, “Some Considerations on the Legal Role of the Sentences and Recommendations of International Bodies Created for the Protection of Human Rights”, Contemporary Developments in International Law, Brill Nijhoff, 2016, 500-519.

A. FEDERICO, “Le funzioni dell’OMC” in http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/08/le-funzioni-omc/.

E. GREPPI, I crimini dell’individuo nel diritto internazionale, Utet Giuridica, 2014.

P. LO GIUDICE, “I Core Rights Treaties, il cuore dei diritti di ogni uomo” in http://www.dirittoconsenso.it/2019/10/02/i-core-rights-treaties-il-cuore-dei-diritti-di-ogni-uomo/.

P. SANDS, “Treaty, custom and the cross-fertilization of international law”, Yale Hum. Rts. & Dev. LJ, 1, 85, 1998.

https://pca-cpa.org/en/about/introduction/.

https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/CCPR/Pages/CCPRIntro.aspx.

https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/Pages/Overview.aspx.

https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=CCPR/C/130/DR/3042/2017&Lang=en.

https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=26691&LangID=E.

http://opiniojuris.org/2021/03/03/rescue-at-sea-and-the-establishment-of-jurisdiction-new-direction-from-the-human-rights-committee-part-i/.

[1] Il primo esempio di “processo internazionale” per crimini di guerra risale al 1476, quando fu istituita una corte ad hoc per giudicare il governatore Peter von Hagenbach che, obbedendo agli ordini del duca Carlo di Borgogna, aveva instaurato un governo di barbarie, violenza e illegalità, si veda E. GREPPI, I crimini dell’individuo nel diritto internazionale, Utet Giuridica, Torino, 2014, pp. 3-4.

[2] https://pca-cpa.org/en/about/introduction/.

[3] J. CHARNEY, “The impact on the international legal system of the growth of international courts and tribunals”, NYUJ Int’l L. & Pol., 1998, 31, pp. 697-698.

[4] Ad esempio, la Corte di Conciliazione e Arbitrato in seno all’OSCE (1992), il Dispute Settlement Body dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (1995), il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (1996), la Corte Penale Internazionale (1998), a livello internazionale, o, a livello regionale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (1952), la Corte Europea dei Diritti Umani (1959), la Corte Inter-Americana dei Diritti Umani (1979), e la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (1998).

[5] L’OMC è un esempio di organizzazione internazionale che adotta un meccanismo quasi giudiziale di risoluzione delle controversie; si veda A. FEDERICO, “Le funzioni dell’OMC” in http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/08/le-funzioni-omc/.

[6] Per citarne alcuni, supra J. CHARNEY; T. BUERGENTHAL, “Proliferation of International Courts and Tribunals: Is It Good or Bad?”, LJIL, 14, 267, 2001; P. SANDS, “Treaty, custom and the cross-fertilization of international law”, Yale Hum. Rts. & Dev. LJ, 1, 85, 1998.

[7]  C. Chinkin, “Normative development in the international legal system”, 2000, p. 30.

[8] Si pensi, ad esempio, alla CEDU, alla Corte Inter-Americana dei Diritti Umani e alla Corte Africana dei Diritti degli Uomini e dei Popoli, si veda, Z. D. DE CLÉMENT, “Some Considerations on the Legal Role of the Sentences and Recommendations of International Bodies Created for the Protection of Human Rights”, Contemporary Developments in International Law, Brill Nijhoff, 2016, p. 8.

[9] Noto anche come Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, entrato in vigore il 23 marzo 1976.

[10] https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/CCPR/Pages/CCPRIntro.aspx.

[11] https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/Pages/Overview.aspx.

[12] Per approfondire si veda P. LO GIUDICE, “I Core Rights Treaties, il cuore dei diritti di ogni uomo” in http://www.dirittoconsenso.it/2019/10/02/i-core-rights-treaties-il-cuore-dei-diritti-di-ogni-uomo/.

[13] Supra Z. D. DE CLÉMENT, p. 9.

[14] https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=CCPR/C/130/DR/3042/2017&Lang=en.

[15] https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=26691&LangID=E.